Era diventato un ricordo lontano e il vecchio Mirko lo raccontava agli amici senza pathos, come una delle tante cose originali che gli erano capitate nella vita. E invece il suo incontro con Federico Fellini era stato come un sogno ad occhi aperti. Era capitato una trentina di anni fa, anni nei quali i missini - dirigenti e militanti - vivevano una sorta di apartheid in patria, tenuti fisicamente e moralmente a distanza. Un’attitudine che non poteva riguardare un uomo curioso come Fellini. Tanto è vero che alla fine di una chiacchierata con Tremaglia, il più celebrato regista italiano se ne era uscito con una proposta spiazzante: «Lo sa che, prendendo spunto da alcuni episodi della sua vita, potremmo fare un film?». Difficile immaginare come si fosse dipanato nei dettagli il dialogo tra personalità così diverse. Eppure, anche se il film non si fece, si può capire come la vita di Mirko Tremaglia (scomparso tre giorni fa e di cui oggi si sono celebrati i funerali a Bergamo) possa aver solleticato l’immaginazione di un poeta come Fellini. Vita avventurosa, quella di Tremaglia, ma soprattutto segnata da un sentimentalismo sanguigno e anacronistico, che seppe superare confini e ideologie.
Una vita attraversata da tantissimi frangenti unici, così numerosi da essersi dispersi persino nelle tante ricostruzioni della sua esistenza, comparse sui giornali di questi giorni. Per lui tutto era cominciato in quei mesi terribili dell’estate del 1943, durante i quali rischiò di dissiparsi, assieme allo Stato, anche il senso dello Stato e della Patria. Quando il cavalier Mussolini fu costretto a dimettersi, Mirko Tremaglia era un ragazzo bergamasco di 17 anni e poiché il papà era partito per le colonie eritree nel 1940, a lui non restò che comunicare alla mamma l’irrevocabile decisione: «Mi arruolo come volontario nella Repubblica di Salò». Decisione controcorrente, quella di difendere la continuità di un regime in disfacimento e che aveva lanciato il Paese in un una guerra disastrosa. E infatti il 25 luglio del 1943 l’Italia fascista non si era mobilitata per difendere Mussolini: tantissimi ragazzi avevano scelto la via della Resistenza e 650.000 militari, rifiutandosi di aderire alla Rsi, furono deportati nei lager nazisti.
Ma per i ragazzi di Salò, per gli ardimentosi che mettevano a rischio la propria vita, c’erano da difendere, «onore e dignità» della Patria. Gli andò male e non solo perché la storia andava da un’altra parte. Il camerata Mirko viene presto arrestato dagli Alleati e nel giro di pochi mesi perde prima il papà, morto in Africa e presto anche la mamma. Ritrovatosi orfano, costretto a lasciare l’Università Cattolica di Milano per il suo passato repubblichino, nel 1963 Tremaglia parte per l’Eritrea, alla ricerca del luogo nel quale era sepolto il padre. E qui si consuma un altro di quei momenti commoventi di cui è stata piena la sua vita: «In quel Paese, non conoscevo nessuno, ma finalmente trovai la tomba di mio padre, restando sbalordito: sopra c’erano dei fiori freschi, messi dagli italiani che erano restati lì». E’ in quel momento - come ha raccontato lui - che Tremaglia decide di trasformare la propria vita in una missione: valorizzare l’epopea dei tantissimi italiani emigrati, costretti a lasciare la propria casa, per trovare pane e lavoro in una terra lontana. Tremaglia impiegherà 43 anni per dare il voto agli italiani all’estero, ma per raggiungere quell’obiettivo sarà protagonista - in giro per il mondo - di una quantità senza fine di discorsi commoventi, eventi restati memorabili per ciascuno degli emigrati che vi partecipava, tanta povera gente che "rivedeva" il suo Paese grazie alle parole visonarie di quel missino pieno di nostalgie.
Certo, come ha scritto Marcello Veneziani, Tremaglia era rimasto «l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento». Ma Tremaglia, pur ammirando intimamente il fascismo e suo Duce, aveva fatto proprio il motto di Giorgio Almirante, che ripeteva spesso: «Non rinnegare, non restaurare». Per questo motivo non si ricordano espressioni esteriori del suo credo, saluti romani come quelli che lo hanno salutato durante i suoi funerali. E come tutti i missini nostalgici, Tremaglia aveva orrore per i traditori, per tutte le possibili reincarnazioni del "badoglismo". Per questo motivo, oltreché per una inossidabile ammirazione per Gianfranco Fini, nel 1990 Mirko Tremaglia è l’ unico tra i vecchi notabili missini che non partecipa alla defenestrazione del giovane Fini, a favore di Pino Rauti. Una ammirazione (ricambiata da Fini, pur assente ai funerali) che lo porterà a seguire il suo amico Gianfranco anche in occasione del divorzio da Berlusconi, un leader che Tremaglia non aveva mai amato, al punto che fu il primo a criticarlo pubblicamente in anni nei quali non era semplice farlo.
Se non fosse stato per la sua battaglia per gli italiani all’estero e per l’appassionata missione di tener vivo il ricordo del figlio Marzio, scomparso ancora giovane, nella vita di Tremaglia una certa qual perdita di prospettiva era iniziata una ventina di anni fa. Nell’estate del 1993, mentre la Prima Repubblica stava crollando, Gianfranco Fini, ai tempi leader dell’Msi, si ritrovò a ragionare assieme al professor Domenico Fisichella attorno all’idea di un partito che superasse il vecchio Movimento sociale, così intriso di nostalgia per il fascismo. E tra gli argomenti che realisticamente consigliavano la svolta (che si sarebbe completata sei mesi dopo col varo di Alleanza nazionale), ce ne era uno, legato ai cicli della vita: i reduci della stagione fascista e repubblichina erano destinati ad assottigliarsi nel giro di qualche anno. Tre giorni fa Adolfo Urso, commentando la morte di Tremaglia, ha detto: «Era l’ultimo dei grandi di una fulgida stagione politica: la sua scomparsa segna la fine di un’epoca per la destra italiana».
Parole che evocano il finale di un film di un regista, Pupi Avati, che - guarda caso - era legato a Federico Fellini. Avati chiude la sua "Gita scolastica" con le immagini della morte dell’ultima alunna reduce di una scampagnata di tanti anni prima. Con queste parole: «Laura fu l’ultima a partire» e quando raggiunse gli altri, «furono tutti assieme, nessuno era rimasto indietro».
Una vita attraversata da tantissimi frangenti unici, così numerosi da essersi dispersi persino nelle tante ricostruzioni della sua esistenza, comparse sui giornali di questi giorni. Per lui tutto era cominciato in quei mesi terribili dell’estate del 1943, durante i quali rischiò di dissiparsi, assieme allo Stato, anche il senso dello Stato e della Patria. Quando il cavalier Mussolini fu costretto a dimettersi, Mirko Tremaglia era un ragazzo bergamasco di 17 anni e poiché il papà era partito per le colonie eritree nel 1940, a lui non restò che comunicare alla mamma l’irrevocabile decisione: «Mi arruolo come volontario nella Repubblica di Salò». Decisione controcorrente, quella di difendere la continuità di un regime in disfacimento e che aveva lanciato il Paese in un una guerra disastrosa. E infatti il 25 luglio del 1943 l’Italia fascista non si era mobilitata per difendere Mussolini: tantissimi ragazzi avevano scelto la via della Resistenza e 650.000 militari, rifiutandosi di aderire alla Rsi, furono deportati nei lager nazisti.
Ma per i ragazzi di Salò, per gli ardimentosi che mettevano a rischio la propria vita, c’erano da difendere, «onore e dignità» della Patria. Gli andò male e non solo perché la storia andava da un’altra parte. Il camerata Mirko viene presto arrestato dagli Alleati e nel giro di pochi mesi perde prima il papà, morto in Africa e presto anche la mamma. Ritrovatosi orfano, costretto a lasciare l’Università Cattolica di Milano per il suo passato repubblichino, nel 1963 Tremaglia parte per l’Eritrea, alla ricerca del luogo nel quale era sepolto il padre. E qui si consuma un altro di quei momenti commoventi di cui è stata piena la sua vita: «In quel Paese, non conoscevo nessuno, ma finalmente trovai la tomba di mio padre, restando sbalordito: sopra c’erano dei fiori freschi, messi dagli italiani che erano restati lì». E’ in quel momento - come ha raccontato lui - che Tremaglia decide di trasformare la propria vita in una missione: valorizzare l’epopea dei tantissimi italiani emigrati, costretti a lasciare la propria casa, per trovare pane e lavoro in una terra lontana. Tremaglia impiegherà 43 anni per dare il voto agli italiani all’estero, ma per raggiungere quell’obiettivo sarà protagonista - in giro per il mondo - di una quantità senza fine di discorsi commoventi, eventi restati memorabili per ciascuno degli emigrati che vi partecipava, tanta povera gente che "rivedeva" il suo Paese grazie alle parole visonarie di quel missino pieno di nostalgie.
Certo, come ha scritto Marcello Veneziani, Tremaglia era rimasto «l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento». Ma Tremaglia, pur ammirando intimamente il fascismo e suo Duce, aveva fatto proprio il motto di Giorgio Almirante, che ripeteva spesso: «Non rinnegare, non restaurare». Per questo motivo non si ricordano espressioni esteriori del suo credo, saluti romani come quelli che lo hanno salutato durante i suoi funerali. E come tutti i missini nostalgici, Tremaglia aveva orrore per i traditori, per tutte le possibili reincarnazioni del "badoglismo". Per questo motivo, oltreché per una inossidabile ammirazione per Gianfranco Fini, nel 1990 Mirko Tremaglia è l’ unico tra i vecchi notabili missini che non partecipa alla defenestrazione del giovane Fini, a favore di Pino Rauti. Una ammirazione (ricambiata da Fini, pur assente ai funerali) che lo porterà a seguire il suo amico Gianfranco anche in occasione del divorzio da Berlusconi, un leader che Tremaglia non aveva mai amato, al punto che fu il primo a criticarlo pubblicamente in anni nei quali non era semplice farlo.
Se non fosse stato per la sua battaglia per gli italiani all’estero e per l’appassionata missione di tener vivo il ricordo del figlio Marzio, scomparso ancora giovane, nella vita di Tremaglia una certa qual perdita di prospettiva era iniziata una ventina di anni fa. Nell’estate del 1993, mentre la Prima Repubblica stava crollando, Gianfranco Fini, ai tempi leader dell’Msi, si ritrovò a ragionare assieme al professor Domenico Fisichella attorno all’idea di un partito che superasse il vecchio Movimento sociale, così intriso di nostalgia per il fascismo. E tra gli argomenti che realisticamente consigliavano la svolta (che si sarebbe completata sei mesi dopo col varo di Alleanza nazionale), ce ne era uno, legato ai cicli della vita: i reduci della stagione fascista e repubblichina erano destinati ad assottigliarsi nel giro di qualche anno. Tre giorni fa Adolfo Urso, commentando la morte di Tremaglia, ha detto: «Era l’ultimo dei grandi di una fulgida stagione politica: la sua scomparsa segna la fine di un’epoca per la destra italiana».
Parole che evocano il finale di un film di un regista, Pupi Avati, che - guarda caso - era legato a Federico Fellini. Avati chiude la sua "Gita scolastica" con le immagini della morte dell’ultima alunna reduce di una scampagnata di tanti anni prima. Con queste parole: «Laura fu l’ultima a partire» e quando raggiunse gli altri, «furono tutti assieme, nessuno era rimasto indietro».
(fonte: www.lastampa.it)
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