Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria.
A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti).
Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete - atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere - che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero - la pianta, le radici - è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione.
Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace... Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami - affettivi, comunitari, vitali e culturali - intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza.
Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana... l’essere umano ha una radice... Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane».
Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.
Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice - i tuoi famigliari - piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.
E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.
(di Marcello Veneziani)
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