martedì 27 marzo 2012

La resistenza accusata di genocidio


La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà.

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito».

Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati».

Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.

(di Eugenio Di Rienzo)

I partiti tirano a campare e preparano il dopo Monti

Nella stagione del sonno della politica, l’Italia si scopre guidata da un governo tecnico che sembra, al momento, apprezzare. Con la crisi economica sembra che ogni fiducia nei partiti, che appaiono inadeguati se non colpevoli, sia stata spazzata via. Una crisi senza ritorno? Può darsi, o forse no. Di sicuro è un periodo in cui i cambiamenti ribollono, e sarà importante capire dove andranno. Linkiesta ne ha parlato con Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze e ideologo della Nuova Destra, esperienza che finirà nel 1994.

Un’opinione politica: cosa pensa dell’operato del governo Monti? Sono in molti a definire la sua guida, più che tecnica, politica. Che significa?

Come è stato da più parti notato, nessun governo può prescindere da caratteristiche politiche, perché il suo operato deve riscuotere il consenso di un’istituzione politica fondamentale come il parlamento. Però il governo Monti è stato promosso da Napolitano, ed è riuscito ad ottenere la fiducia di una composita maggioranza parlamentare, perché viene percepito come “non politico”, e per lo stesso motivo – anzi, in questo caso perché gli si attribuisce connotati nettamente alternativi a quelli della politica professionale, e in un certo senso quindi “antipolitici” – ha finora ottenuto un gradimento elevato presso l’opinione pubblica. Gradimento che, però, è certamente destinato a scendere via via che l’esecutivo dovrà affrontare (e sciogliere) nodi che coinvolgono interessi configgenti, come già si vede nel caso della riforma del mercato del lavoro. Perché, usando i termini del tutto convenzionalmente, le soluzioni prospettate appaiono “di destra” e inevitabilmente dispiacciono “a sinistra”. In questo caso, il fatto di raccogliere personalità di provenienza non partitica non è sufficiente a proteggersi da dissensi e contestazioni. Anzi: in molti sedicenti tecnici, chi dissente scorge il profilo inquietante di interessi economici e/o finanziari tutt’altro che coincidenti con il presunto interesse generale o nazionale. Resta il fatto che io sono fra coloro che giudicano il varo del gabinetto presieduto da Monti il segno di una sconfitta della politica, che ormai da decenni è profondamente condizionata dall’economia ma sinora era riuscita a “salvare la faccia” della propria ipotetica indipendenza, o quantomeno autonomia, dai poteri che contano, e adesso mostra la sua sostanziale impotenza di fronte ad essi.

Forse proprio da queste discussioni emerge la difficoltà di distinguere la destra e la sinistra, e si ha l’impressione che le categorie siano superate. O è solo la difficoltà dei partiti a declinarle secondo i tempi nuovi?

Lungi dal considerarle estinte, io da decenni considero destra e sinistra categorie utili soltanto se usate in termini convenzionali e relativi. Non vi scorgo, diversamente da Bobbio ed altri, alcuna essenza permanente di fondo. Credo poi che, anche quando le si utilizza come “segnalatori di posizione” su questa o quella questione – per dirla con Giovanni Sartori – ci si debba guardare dall’immaginare, con un eccessivo cedimento ai tipi ideali, che la maggioranza delle persone assuma coerentemente e costantemente atteggiamenti di destra, di sinistra o di centro in ogni campo. È vero il contrario: spesso si può essere più “a destra” di altri su un determinato tema – tanto per fare qualche esempio: su temi bioetici, di ordine pubblico, di politica internazionale, economici, di organizzazione della società… - e più “a sinistra” di quelle stesse persone su altri. Quando ci si attacca feticisticamente a queste etichette, è perché si ha timore di esercitare liberamente il proprio senso critico. Non stupisce, peraltro, che molte volte siano i partiti a sbandierarle. Dato che i residui di sistemi forti e coesi di credenze – le vituperate ideologie di un tempo – sono, nei programmi e nelle scelte pratiche dei partiti, sempre più sbiaditi, per ottenere un surplus di consensi dagli elettori è tuttora utile puntare su un elemento emotivo: il senso di appartenenza, di identificazione, ereditato da tradizioni familiari o dall’influenza del contesto locale. Non so quanto a lungo durerà questa situazione, ma la ritengo destinata a logorarsi sempre più, perché le grandi fratture socioculturali odierne – citiamone un paio (ma ce ne sono molte): quelle relative alle tematiche ambientali e ai dilemmi culturali e organizzativi proposti dalle società multietniche – non rispecchiano più il vecchio spartiacque sinistra/destra.

Non solo destra e sinistra, però. Anche i partiti non stanno bene. È la fine di un’epoca? Cosa dovrebbero fare in questa “pausa” i partiti per ritrovare voti e creare nuove idee?

Non siamo di fronte alla fine di un’epoca, ma a una seria crisi congiunturale. Non credo a quanti, ancora una volta, profetizzano il tramonto dei partiti, perché le democrazie rappresentative sono state strutturate in modo tale da farne il perno del rapporto fra sfere decisionali e cittadinanza, e non si è mai riusciti a sostituirli con altri soggetti. Movimenti e comitati possono catalizzare, caso per caso, umori ed attenzioni del pubblico, ma sono, per loro natura, instabili ed effimeri. I gruppi d’interesse trovano molto più conveniente agire per tramite di altri soggetti che assumendosi in prima persona il difficile compito di procacciarsi consensi. La democrazia continua e diretta, per via elettronica o referendaria, è, allo stato attuale delle cose, un’utopia. Gli esperimenti di “democrazia procedurale” sono suggestivi e possono facilitare la risoluzione di contrasti su talune politiche pubbliche, ma non penso possano andare oltre questo ambito. Quindi i partiti resteranno. Cosa potrebbero fare per rilanciarsi? Procedere ad un rinnovamento radicale del proprio modo di interpretare le funzioni che le leggi e le consuetudini assegnano loro. Il primo passo dovrebbe essere il concepire l’azione politica, per dirla con Max Weber, come una vocazione piuttosto che – come oggi è – come una (lucrosa) professione. Ma la vedo difficile, per cui ritengo che ancora a lungo la crisi dei partiti proseguirà.

Intanto, con Monti sono sparite anche le promesse di Berlusconi. Penso al federalismo, alla sperequazione tra nord e sud: tutto è stato cancellato dall’emergenza economica e della necessità della crescita. Più che il passaggio a uno stile più sobrio, ci sono linee di discontinuità più forti. O no?

Il clima di emergenza ha sempre l’effetto di rimescolare le carte in seno all’opinione pubblica, dettando un cambiamento netto di agenda. La caduta di Berlusconi – e in primo luogo lo scompaginamento del suo eterogeneo agglomerato politico-elettorale di sostegno, il Pdl – è stata determinata dall’improvvisa drammatizzazione della “sfiducia dei mercati” e della questione del debito pubblico – grave, ma invano denunciata per decenni da sparuti osservatori, solitamente fatti passare per Cassandre. In nome e per conto di questa urgenza si è affermata quella sorta di “stato di eccezione” che ha portato al governo Monti. Il resto non poteva che passare in secondo piano. Ma i quesiti irrisolti rimangono, e prima o poi sono destinati a ritornare a galla, a far riemergere consolidate divisione e a suscitarne di nuove.

Per molti, dopo Monti non ci sarà altra scelta se non un “terzo polo” moderato, fatto dai montiani di Pd e Pdl, insieme a Udc, Fli e altre forze centriste. Servirebbe a completare le riforme di questo governo ed evitare il collasso dell’economia. Funzionerebbe?

Non lo credo, ma non escludo che questo possa essere, nel breve periodo, lo sbocco di questa fase di “commissariamento” della politica. Ciò accadrà soprattutto se i sondaggi continueranno a lasciare gli attuali partiti, e le coalizioni che potrebbero formare, incerti sui risultati elettorali e sulla possibilità di formare governi sorretti da maggioranze almeno teoricamente solide. Credo però che, se si accedesse a questa sorta di “grande coalizione” di emergenza, la diffidenza degli elettori crescerebbe ancora e si aprirebbero spazi piuttosto vasti a forze di opposizioni nettamente connotate – non penso solo a Lega, Sel o Italia dei Valori, ma anche al movimento Cinque stelle di Grillo. Molti degli sviluppi futuri dipenderanno però anche dal sistema elettorale con cui verrà eletto il prossimo parlamento.

Esistono alternative a questo modello? Se sì, quali potrebbero essere, allo stato attuale delle cose?

Certo che esistono. Occorrerebbe però ricostituire partiti e/o coalizioni che abbiano culture politiche, programmi e prassi coesi e coerenti. Il che comporterebbe lo scioglimento e la rifusione di aggregati e sigle oggi esistenti, per l’ennesima volta dopo gli anni Ottanta. Non mi pare che ci troviamo di fronte a una simile possibilità. Un “tirare a campare”, per adesso, mi pare l’ipotesi più probabile.

E come si potrebbe costruire una politica più forte nel contesto globale e internazionale di oggi, in cui sembra che l’economia detti le leggi alla politica?

La questione è di amplissima portata. Per rispondere esaurientemente, bisognerebbe chiamare in causa gli elementi fondamentali dello “spirito del tempo” che è venuto formandosi nel secolo scorso, a seguito soprattutto delle due svolte epocali del 1945 e del 1989. Viviamo in un contesto, prima di tutto psicologico, che è ben descritto dalla teoria di Fukuyama sulla “fine della storia”, spesso mal interpretata. Si pensa che, per evitare ulteriori gravi conflitti mondiali, il mondo debba essere retto da un’unica regia e sulla base di un unico spartito, che è quello dettato dalla logica del capitalismo. In questo contesto, la subordinazione della politica all’economia è considerata, implicitamente o esplicitamente, un elemento di rassicurazione dal rischio di eccessivi conflitti. Agitando spauracchi e spettri – il nazionalismo, la xenofobia, l’autoritarismo… – e allineandosi dietro la bandiera dei diritti dell’uomo (che consente il sistematico ricorso alle maniere forti contro i riottosi, di volta in volta denunciati come flagelli dell’umanità) si cerca di mantenere indefinitamente uno status quo in cui la politica non può che essere ostaggio delle volontà dei poteri economici.

Chi intravede, tra i personaggi politici attuali, che può essere in grado di creare nuove forme politiche? Per molti, questo è il periodo di Casini e del cattolicesimo moderato. Lei è d’accordo?

Non esagererei. Che Casini possa creare “nuove forme politiche” mi sembra un’aspettativa spropositata. Già fatica a creare un Terzo polo che sia davvero tale, e se non avesse potuto profittare dell’occasione offertagli dal governo Monti, le tre o quattro componenti interne al suo progetto forse starebbero già andando in ordine sparso. Casini può avvalersi delle contingenze per espandere il suo ruolo e la consistenza elettorale dell’Udc, qualora il Pdl accentui l’attuale crisi; il che potrebbe anche promuoverlo a successore “politico” di Monti, ma la prospettiva è tutt’altro che certa. Di creatori di nuove forme politiche di governo, non ne vedo in giro. Forse qualcosa di più dinamico può apparire sul versante dell’opposizione: il già citato Movimento Cinque stelle ne è un esempio. Ma anche lì iniziano ad apparire sintomi disgregativi.

Che direzioni potrebbero avere i partiti della destra berlusconiana? Quali sono i temi portanti che possono ridisegnare un’identità nuova dopo l’uscita di scena di Berlusconi?

In tutta Europa, le destre che avanzano sono quelle che la vulgata comune definisce populiste. Ad alimentarle sono i timori e i problemi suscitati dalla difficoltà di far fronte alle conseguenze della globalizzazione, prima di tutto la trasformazione delle società in senso multietnico a causa dei forti flussi migratori, con gli interrogativi sull’opportunità o meno di adottare criteri multiculturali per assicurarne la governabilità. Dubito che gli eredi del Pdl si inoltreranno su questa strada. Resta loro aperta l’altra via: un conservatorismo moderato, sobrio nei modi e incerto nei contorni ideologici e programmatici – alla Sarkozy, alla Cameron, alla Merkel. Non so quanto sia atto ad incontrare il consenso diffuso degli italiani. Attendiamo e vedremo.

lunedì 26 marzo 2012

La destra prima della fiamma


La Biblioteca Scientifica della fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha pubblicato "La destra prima della fiamma" interessante saggio di Guido Jetti, dedicato alla storia del Partito fusionista italiano, la prima organizzazione politica di destra costituita in Italia dopo la crisi del fascismo.

La storia del Pfi ebbe inizio nel 1944 nella Bari occupata dagli angloamericani, città in cui Pietro Marengo, un ex combattente dotato di straordinaria attitudine al giornalismo, fondò e diffuse un foglio semi clandestino e cautamente postfascista, Il Manifesto.

Nelle dichiarate intenzioni di Marengo, Il Manifesto, uscito dalla clandestinità nell'aprile del 1945, doveva diventare "il giornale degli italiani che non hanno perduto la fiducia, che credono in una nuova Italia, non in una povera Italia".

Di qui la rivendicazione del nazionalismo professato dal partito di Corradini, Federzoni e Paolucci, "assorbito di malavoglia nei ranghi fascisti, dopo la marcia su Roma".

Marengo non risparmiava critiche al regime fascista e tuttavia chiedeva al governo di "perdonare con una larga, generosa, indimenticabile amnistia i fascisti. Perdonate tutti coloro che agirono in buona fede, tutti coloro che le esigenze della vita costrinsero a percorrere una strada che, senza Mussolini e la guerra, non avrebbero mai percorso".

In una fase storica segnata dagli eccessi dell'antifascismo, l'impresa giornalistica di Marengo riscosse uno straordinario successo nella società dei benpensanti. Il numero dei lettori fu talmente alto da suggerire la fondazione di un partito, il Partito fusionista italiano, che si costituì ufficialmente a Bari nell'aprile del 1946.

Nella vasta e fluida area occupata dai potenziali elettori di destra si muovevano intanto alcune personalità dotate di attitudini alla propaganda, di senso storico (Carlo Delcroix aveva insegnato loro che la politica non si fa contro la storia) e di esperienza organizzativa, quali Guglielmo Giannini, Pino Romualdi (nella foto n.d.r.), Franco De Agazio, Giovanni Tonelli, Emilio Patrissi, Alberto Giovannini.

Le elezioni comunali dell'ottobre 1946 dimostrarono che l'elettorato di destra possedeva i numeri necessari a condizionare e da correggere la Dc, un partito disturbato dalle suggestioni del progressismo.

Purtroppo le rivalità impedirono la costituzione di un'alleanza tra i movimenti della destra, avviando quella devastante macchina delle rivalità che spianò la strada all'affermazione dei partiti nostalgici, espressione di una destra destinato all'emarginazione. Una soluzione favorevole al desiderio democristiano di non avere efficaci concorrenti a destra. Desiderio appagato dal voto del 18 aprile del 1948 che segnò la frantumazione-contrazione della destra i tre liste, Blocco nazionale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale, che ottennero complessivamente 39 seggi contro i 305 della democrazia cristiana.

Il testo di Jetti costituisce un prezioso contributo all'accertamento degli errori all'origine del naufragio della destra politicante e dello scialo insensato dell'ingente eredità del Novecento italiano. L'insuccesso del partito di Pietro Marengo segna l'inizio dell'implosione e della conseguente metamorfosi liberale della destra italiano. Non tutto il male vien per nuocere, tuttavia: la parabola della falsa destra, ultimamente affondata nelle sabbie mobili della finanza iniziatica, suggerisce una riflessione sull'ideale fusionista - il ritorno del patriottismo alla radice cattolica - che fu anticipato da un collaboratore del Manifesto, Mario Giordano, il quale proclamava: "Isseremo la bandiera della Patria e accanto alzeremo la Croce, perché sulla nostra bandiera vi sia la luce di Dio nostro Signore".

(di Piero Vassallo)

Quei nostalgici che non si rassegnano al tramonto delle idee


Eccoli, i nostalgici. Dopo la guerra, finito il fascismo, un gruppo di ventenni che avevano appena sfiorato da ragazzi la Repubblica Sociale, si ritrovano in gruppi, cenacoli, riviste. Il Msi, per loro è troppo poco, è un partito, roba da parlamento, mentre loro vogliono essere un’aristocrazia, il fior fiore. Per esempio I figli del Sole. Un nome pagano, quasi esoterico, che scopre Julius Evola e Massimo Scaligero. Il loro leader è Enzo Erra, vi aderiscono Pino Rauti, Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, Primo Siena. A fianco, in quel piccolo ma vivacissimo mondo, altre testate, altri ragazzi nostalgici sfidano il loro tempo: Piero Buscaroli, Silvio Vitale, Clemente Graziani, Gabriele Fergola, Vanni Teodorani, Roberto Melchionda, Fabio De Felice, Fausto Belfiori, Egidio Sterpa, Franco Petronio, Angelo Ruggiero e tanti altri. Di loro racconta la storia e le succinte biografie un libro-amarcord appena uscito di Sergio Pessot e Piero Vassallo, I figli del Sole (Novantico Editore, pagg. 280, euro 22).

Quel piccolo mondo in realtà è diviso in tre filoni culturali: quello sociale e nazionale che si richiama a Gentile, quello aristocratico-pagano che si richiama a Evola, quello cattolico tradizionale. A volte si accendono dispute anche furenti. A chi, come Mirko Tremaglia, all’epoca militante nella sinistra missina, ironizza sui figli del sole, Accame replica che loro invece, i fascio-sociali, sono «figli dell’intestino».

In questi stessi giorni, uno di loro, che vive ormai da decenni in Cile ma ha lasciato il cuore in Italia e in quell’Italia, Primo Siena, dedica un libro a La perestroika dell’ultimo Mussolini (Solfanelli, pagg. 282, euro 19). Arricchito da una prefazione di Giuseppe Parlato, il libro di Siena, oggi 85enne, ipotizza come si sarebbe evoluto il fascismo senza il trauma finale: dal cesarismo dittatoriale verso una democrazia organica. La linea di Salazar e Dollfuss e in parte di Franco. Fondatore nei primi anni ’50 di una rivista, Cantiere, e poi a fianco di Gaetano Rasi con Carattere, Siena cerca di unire la sua idea sociale, nazionale e cattolica.

Un altro libro nostalgico ci riporta a quegli anni: è Perché uccisero Mussolini e Claretta (Rubbettino, pagg. 216, euro 16) di Luciano Garibaldi e Franco Servello che nella sua ultima edizione riporta documenti rilevanti sulle omissioni e le responsabilità del Pci non solo nell’uccisione di Mussolini e della Petacci ma anche nella sparizione del cosiddetto oro di Dongo. Il libro ripercorre un’inchiesta che fece nell’immediato dopoguerra Franco De Agazio, zio di Servello, che fu ucciso per le sue scottanti indagini dalla Volante rossa nel 1947.

I figli del Sole, il sogno proibito dei nostalgici, il ricordo di De Agazio e di molti scrittori e giornalisti morti negli ultimi tempi (Accame, Erra, Gianfranceschi), l’estrema, tenace memoria degli ultimi testimoni. La Spoon River di una generazione fiera che non diventò classe dirigente politica ma si disperse in tanti rivoli, pur serbando una disperata coerenza.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 16 marzo 2012

La Russia vieta la propaganda gay


L’Europa non è solo quella di Strasburgo, dove si sfida la logica, la natura e pure l’etimologia, sollecitando la legalizzazione di «matrimoni omossessuali». O quella della Milano progressista e progredita dove si adottano per le scuole elementari libri che esaltano le famiglie con due «papà». Ed esiste un altro tipo umano europeo, rispetto a quello rappresentato da sobri e tecnocratici politici che, come la Fornero, lamentano «gravi ritardi culturali e di apertura mentale», premendo affinché «la diversità» debba essere «fra le cose che i bambini imparano da piccoli».

Ecco, che l’omosessualità, essendo «un valore», vada insegnata a scuola, perché «i semi si gettano fra i bambini» (affermazione un po’ infelice), è un’idea che in certe zone «arretrate» e ancora «incivili» del nostro continente trova una certa resistenza.

A San Pietroburgo, ad esempio, seconda città della Russia, dove è stata varata una norma che mette al bando ogni forma di propaganda dell’omosessualità tra minori. Legge accolta con grande apprezzamento dalla Chiesa ortodossa russa, che ne ha sollecitato «l’estensione subito a tutto il Paese, a vantaggio dei giovani».

Nella stessa normativa – come ha riferito Radio Vaticana – sono contenute misure anche contro la pedofilia. Le disposizioni hanno già scatenato le reazioni contrarie delle sparute organizzazioni di omosessuali, sostenute ed eterodirette da ambienti occidentali, al pari di quei gruppi e ong che - sponsorizzati da organizzazioni come l’americana «National Endowment for Democracy» (finanziata dal Congresso) e la Open Society del narco-speculatore George Soros - hanno inscenato gazzarre di protesta a Mosca e in altre città del Paese, dopo la vittoria di Vladimir Putin alle recenti elezioni presidenziali.

La Chiesa ortodossa, al contrario, considera la legge «uno strumento in più a protezione dei minori». Lo ieromonaco Dimitry Pershin, responsabile dei giovani ortodossi ed esperto della commissione della Duma per la famiglia, le donne e l’infanzia, ha sostenuto — come ha riportato l’agenzia Interfax — che la normativa adottata a San Pietroburgo è «necessaria» e che «dovrebbe urgentemente ricevere lo status federale», venendo applicata, cioè, e «senza indugio», in tutta la Russia.

Secondo l’esponente della gerarchia ortodossa, la legge recentemente approvata a San Pietroburgo «aiuterà a proteggere i bambini dalla manipolazione delle informazioni» sulla sessualità diffuse da organizzazioni da anni impegnate nel tentativo di organizzare a Mosca e in altre città russe manifestazioni e parate come quella del «gay pride». Iniziative che, come noto, hanno avuto ben scarso successo, incontrando l’ostilità, prima ancora che delle autorità, della gente comune, per non parlare della Chiesa ortodossa, che considera tali fenomeni «un attacco all’identità morale, culturale e spirituale russa».

Secondo la normativa adottata — un emendamento alla legge locale sui reati amministrativi, firmata dal governatore di San Pietroburgo, Georgij Poltavčenko — la propaganda dell’omosessualità, del transessualismo e della pedofilia verrà punita con multe varianti dai 5.000 rubli (per le persone fisiche) ai 500.000 (per quelle giuridiche).

(di Siro Mazza)

Massimo Fini: ridateci il vero calcio altro che codice etico

'Io non sono mai andato a vedere una partita allo stadio con una ragazza. O l'una o l'altra. Alle fidanzate dovrebbe essere proibito per legge entrare in uno stadio'. In questa battuta - tutt'altro che buttata lì per ridere - che chiude la nostra lunga chiacchierata, c'è tutto l'integralismo calcistico di Massimo Fini, giornalista da una vita (Il Giorno, L'Indipendente, Quotidiano Nazionale, recentemente Il Fatto Quotidiano) ma anche attore, scrittore e filosofo - nell'accezione più contemporanea possibile del termine -, dalle posizioni sempre dissacranti e provocatorie, mai allineate. Sostenitore delle teorie della decrescita e dell'antimodernismo, Fini da tempo si batte per un ritorno del calcio alle sue origini più pure, e sull'argomento si è concesso ai microfoni di Calciomercato.com.

Lei vanta di aver scritto già nell'82, dopo la vittoria dell'Italia ai Mondiali e la decisione di introdurre il terzo straniero, che ci si avviava verso la 'morte del calcio'. Oggi sembra che questo processo stia subendo, se possibile, un'accelerazione...

'Purtroppo non si è capito che il calcio prima di essere spettacolo, gioco, addirittura sport, è un rito collettivo. E i riti vanno modificati meno possibile. Invece hanno cambiato tutto, hanno distrutto il vero contenuto del calcio, che è simbolico, rituale, identitario. Le maglie cambiano per esigenze di sponsor, i giocatori si trasferiscono in ogni momento: io Ibrahimovic ormai non so neanche più dove giochi... Il calcio non può essere uno spettacolo in senso stretto: qualsiasi tifoso di calcio preferirebbe uno squallido 0-0 piuttosto che veder perdere la propria squadra al termine di una partita molto divertente. Il calcio è una grande festa nazional-popolare, che unisce i ceti sociali. Se diventa uno spettacolo come tanti altri, prima o poi ci si stancherà di seguirlo, come ci si stanca di uno show in tv. Qualche anno fa moltissimi ultrà, in rappresentanza di 78 società di calcio, in una domenica di giugno manifestarono sotto gli uffici della Lega a Milano. Una manifestazione civilissima al grido di Ridateci il calcio di una volta! È quello che pensano, credo, tutti i veri tifosi'.

Non è un problema solo italiano, a quanto pare...

'L'Italia ha esportato il peggio di sé negli altri Paesi, ma il problema riguarda tutti, almeno in ambito europeo. C'è stato uno spostamento dal calcio visto allo stadio al calcio televisivo: tutto è funzionale a Sky o alle altre emittenti, ormai. E anche in Spagna o altrove si comportano così. Il paradosso è che il calcio odierno, pur essendo impostato totalmente sul business, riesce a essere sempre in passivo. Del resto quale altro evento porta 40mila persone lo stesso giorno nello stesso posto, se non forse il concerto di una grande rockstar? Eppure i club sono in perdita...'.

Riensando al passato, quale aspetto del calcio di una volta le sembra oggi più anacronistico?

'Mi vengono in mente alcuni calciatori: Bulgarelli, Antognoni, Riva. Erano giocatori simbolo, al di là della bravura. Erano capaci di rimanere nello stesso club per tutta la vita, pur giocando in squadre minori o che comunque non avrebbero vinto scudetti. Oggi questo non è più concepibile. Colpa di quella sciagurata sentenza Bosman, ma anche del fatto di aver abbandonato il vivaio come serbatoio per la prima squadra. Oggi appena esce fuori un giovane bravo, se non sei un grande club te lo portano subito via'.

La settimana scorsa in un articolo sul Fatto Quotidiano ha parlato del contrasto Luis Enrique-De Rossi, contestando una certa ossessione per il concetto di 'gruppo' che è sempre più frequente nel calcio di oggi...

'Se si adopera il concetto di gruppo in modo estremo, si distrugge l'individualità. Sacchi, che pure era un buon allenatore, stava per metter fuori Van Basten perché non rientrava nei suoi schemi; poi è stato costretto a ricredersi... Del resto ciò che sta avvenendo nel calcio non è altro che l'emblema di ciò che accade nella società di oggi. Una società invididualista senza individui, la nostra'.

Detto dei giocatori, va detto che si è evoluta anche la figura dei presidenti...

'Mi ricordo che, in una delle rare volte in cui fui invitato in una trasmissione sportiva, incontrai il presidente dell'Inter Pellegrini, e gli dissi: La ringrazio perché non so neanche lei che lavoro faccia. Ecco, il buon presidente secondo me è quello che riesce a lavorare nell'ombra. Merce rara, oggi'.

Si può dire che sia stato Silvio Berlusconi, negli anni '80, a cambiare la situazione sotto questo punto di vista?

'Certamente, lui è stata la punta di lancio della distruzione. Ha portato nel calcio gli interessi della Fininvest e poi i suoi interessi politici, introducendo una mentalità più americana. Ma il calcio è nato in Europa, non c'entra niente con le americanate che si vedono, ad esempio, al Super Bowl, con gli elefanti e le soubrette scosciate...'.

È ancora possibile, per un ragazzino, innamorarsi del gioco del calcio?

'È molto difficile. Vedo infatti che molti ragazzi, a differenza di quanto accadeva un tempo, si dirigono verso sport in cui l'aspetto economico è ancora marginale e i valori sono rimasti intatti, come il rugby, la pallavolo o l'hockey sul ghiaccio. Mi ricordo ad esempio che Berlusconi tentò di ripetere quanto fatto nel calcio con il Milan anche nell'Hockey Milano, ovvero comprare tutto e tutti per sbaragliare la concorrenza. Acquistò tutti i giocatori di una squadra che quell'anno aveva vinto il campionato, mi sembra fosse quella di Como. Bene, accadde allora che tutta la Milano hockeista face il tifo contro la squadra della propria città, anche quando giocava in Europa, perché il suo presidente aveva fatto qualcosa di profondamente antisportivo. Nel calcio non sarebbe accaduto'.

Nonostante tutto, lei riesce a coltivare comunque una fede calcistica?

'Certo, io sono un tifoso del Torino. Ma per quelli della mia generazione è diverso. Per noi esisteva solo il calcio: lo sci era solo per chi abitava in montagna, il tennis era uno sport per ricchi... La passione rimane, ma negli ultimi anni sono sempre più distaccato, lo ammetto. Una volta non avrei mai perso una partita del Torino, ora invece mi capita di saltarne qualcuna. Del resto anche in serie B si vedono squadre con cinque-sei stranieri: è chiaro che il processo identitario viene meno. Forse l'unico calcio ancora veramente seguibile è quello delle Nazionali, dove si vedono i migliori giocatori di ciascun Paese'.

A proposito di Nazionale: che ne pensa del cosiddetto 'codice etico' di Prandelli?

'Io credo che i codici etici, nel calcio, non dovrebbero esistere. Coi codici etici, Maradona non avrebbe mai giocato'.

(di Germano D'Ambrosio)

mercoledì 14 marzo 2012

Rivitalizzare la destra italiana


Dicono che la politica finalmente è tornata. Non ne sono tanto sicuro. Anzi, da quel che vedo e sento, mi sembra che piuttosto è tornato il lussureggiante casino di sempre nelle coalizioni e tra i partiti. Dalla convivenza forzata alla guerriglia abituale, insomma. Così si consuma una stagione arrivata al capolinea, mentre le aspettative (evidentemente malriposte) riguardo ad una possibile ristrutturazione del sistema politico naufragano miseramente nelle risse da osteria a cui quotidianamente assistiamo increduli.

Le idee latitano, le segreterie si arroccano, i professori menano il can per l’aia e al di fuori del recinto dello spread dimostrano i loro limiti confermandoci nella convinzione che politici non ci si improvvisa: vedi alla voce relazioni internazionali. Posto che il centrosinistra è diventato una sorta di landa dove si consumano vendette quotidiane e il Pd è in preda a una sindrome autodistruttiva, ci attendevamo che nel centrodestra, dopo la crisi di novembre, si tornasse a discutere di progetti e di programmi, impostando magari una campagna di primavera non all’insegna di inutili congressi ma di una salutare riflessione sul modello-partito e sulle nuove ragioni della politica a fronte delle squassanti convulsioni, non soltanto economico-finanziarie, che tengono il mondo in allarme. Niente. Neppure ciò che accade alle porte di casa nostra sembra ridestare dal torpore il partito di Berlusconi ed Alfano. A dire la verità, il segretario fa il possibile per cercare di guadagnare al Pdl un nuovo protagonismo, ma la compagnia non sembra disponibile a seguirlo.

Al logoramento, proprio in riferimento a quanto sta accadendo in Francia, potrebbero reagire fattivamente quegli esponenti politici pidiellini provenienti da Alleanza nazionale che se "leggessero", per come merita, la riconversione a destra di Nicolas Sarkozy troverebbero spunti interessanti per ritrovarsi ed intraprendere un cammino del quale beneficerebbe tutto il partito. Lo ha segnalato, con la consueta lucidità, Mario Sechi invitando gli ex-An a provare a ricostruire la destra che "non è riuscita a venir fuori con la leadership finiana, priva di caratura culturale per diventare un presentabile gollismo italiano". Ciò vuol dire rituffarsi nel passato, dare fiato alle trombe della nostalgia, attivare un reducismo sterile quanto comico? Neppure per sogno.

Realisticamente ciò che rimane della destra dovrebbe agire da lievito per far crescere culturalmente e politicamente un grumo di idee che mai come oggi risultano attualissime, tanto che se n’è accorto perfino l’inquilino dell’Eliseo minacciato dalle defezioni nel suo stesso partito e dall’abbandono dei moderati inclini ad appoggiare Marine Le Pen.

Temi come l’identità nazionale, la centralità geostrategica del Mediterraneo, la costruzione di un’Europa dei popoli e delle nazioni, il sovranismo, il recupero della cultura della tradizione quale fonte ispiratrice della modernizzazione sostenibile, la crescita e lo sviluppo "umanizzati" dalla salvaguardia dell’intangibilità dei diritti primari e naturali della persona, la funzione dello Stato come ente regolatore dei conflitti e promotore di una Big Society fondata sulla sussidiarietà costituiscono gli elementi di un patrimonio che la destra italiana non dovrebbe gettare al vento, ma rivitalizzarlo. Intorno ad esso, chi ne ha fatto parte, potrebbe ricominciare rilanciando innanzitutto la Grande Riforma, magari proponendo l’istituzione di un’Assemblea costituente, facendola finita con le solite conventicole di "piccoli saggi" destinate al fallimento, dalla quale venga fuori un nuovo sistema fondato sulla democrazia partecipativa e decidente.

Presidenzialismo e parlamentarismo, nel quadro di un bilanciamento di poteri chiaro e coerente con le esigenze che la crisi che stiamo vivendo ha evidenziato in maniera drammatica, potrebbero convivere come hanno sostenuto nel tempo inascoltati studiosi e politici, da Costamagna a Pacciardi, da Vinciguerra a Operti, da Calamandrei a Valiani, da Almirante a Craxi, da Miglio a Segni. Perché gettare tutto alle ortiche? Perché la destra italiana non dovrebbe rigenerarsi nel segno di un gollismo possibile? È tempo di risposte.

(di Gennaro Malgieri)

Tutti attenti al voto francese


Ascoltavo il discorso tenuto da Nicolas Sarkozy a Villepinte per la campagna presidenziale e mi sono ritrovato a chiedermi: dov’è finita la politica italiana? Mentre Sarkò minacciava di congelare Schengen e proponeva un «Buy European Act» per proteggere l’industria europea, mentre cercava di rimontare il suo svantaggio (un paio di punti) sullo sfidante socialista Francois Hollande, ho trovato una ulteriore conferma della crisi del sistema politico italiano. Diciotto anni dopo la discesa in campo di Berlusconi, lo scenario è polverizzato: dell’esperienza del 1994, delle sue trasformazioni, alchimie e alleanze sperimentate nel corso di un tempo lungo resta poco. Sia chiaro, un leader non deve per forza lasciare un’eredità, la storia è piena di folgoranti meteore, ma sull’esperienza italiana prima, durante e dopo Berlusconi occorre riflettere con onestà intellettuale per trovare una risposta al domani. Tra sei settimane sapremo chi sarà il nuovo presidente francese. Se Sarkozy perde, lo scenario europeo subirà uno scossone perché il già debole asse tra Parigi e Berlino diventerà di terracotta. Hollande lo vuole demolire e lo stesso Sarkò è costretto a issare la bandiera nazionalista per recuperare voti. Ci sono le premesse perché il «Fiscal Compact» europeo diventi carta straccia.

Tutto questo riguarda da vicino l’Italia, il suo governo, i destini di un centrosinistra in cerca d’autore e la lezione che può trarne un centrodestra che viaggia in disordine sparso. Il voto francese è una bomba a orologeria pronta a far saltare l’ortodossia berlinese e il fideismo bancocentrico. Potrebbe essere un salutare schiaffo per l’Unione europea, ma Monti cosa farà? Continuerà ad appoggiarsi alla cancelliera Merkel che nel frattempo avrà perso la stampella di Parigi? E il Pdl alfaniano con quale ricetta si presenterà davanti ai suoi elettori? E il Pd bersaniano continuerà a sostenere la linea «brussellese» del rigorismo o subirà il fascino «hollandista» spostandosi ancor più a sinistra?

Anche una per ora improbabile vittoria di Sarkozy avrebbe effetti importanti. Il Pdl dovrebbe rileggersi la campagna dell’Eliseo, cercando di reinterpretarne le parole chiave e i politici che diedero vita ad Alleanza nazionale potrebbero provare a ricostruire la destra che non è riuscita a venir fuori con la leadership finiana, priva della caratura culturale per diventare un presentabile gollismo italiano.

In attesa del rush finale, resta un dato: la Francia può scegliere tra due alternative chiare, una destra e una sinistra riconoscibili. E un debole Sarkozy, pur in svantaggio, pur da non imitare per gli errori commessi, grazie a un sistema istituzionale che funziona e ruota intorno alla presidenza della Repubblica, può proporre «La France Forte». Idee per Italia? Non pervenute.

(di Mario Sechi)

martedì 6 marzo 2012

lunedì 5 marzo 2012

Gli ex An rivogliono la Destra


Il trattino, tra centro e destra, è stato rimesso sabato pomeriggio, quando al corteo de La Destra di Storace hanno partecipato circa ventimila persone. Una prova di forza che ha risvegliato gli animi (non solo degli ex An) e indicato forse la via: una nuova destra che sappia ritrovare il coraggio dell'identità. E il "giorno dopo" sono in molti, forse anche in troppi sottolinea qualcuno, a incensare il successo di Storace. Qualcosa però, in un momento in cui si registra il picco più basso della politica, è accaduto. E qualcosa, forse di ancora più grande, accadrà. Non a caso a porre una riflessione seria sono gli ex An e soprattutto quelli romani. «Chi fosse tentato, dopo la manifestazione romana de La Destra, di derubricare il movimento guidato da Francesco Storace come residuale e irrilevante si sbaglierebbe di grosso - osserva acutamente il parlamentare Pdl Gennaro Malgieri - sbaglierebbero soprattutto gli ex missini ed ex An che, smarriti in una crisi identitaria, non hanno ancora compreso che la ricomposizione di antiche fratture è il contributo migliore che potrebbero dare al rafforzamento del centrodestra. Sbaglierebbe anche il Pdl, ondivago e giustamente preoccupato per le difficoltà che deve affrontare, se non tenesse nel giusto conto quanto La Destra oggi rappresenta e il contributo, non solo elettorale, che può dare. Spero che tutte le forze del centrodestra, e in particolare chi ha fatto parte di An, si impegni per ricominciare un cammino unitario non certo nel segno del nostalgismo, ma di una proposta innovativa».

Una proposta innovativa dunque che non può non passare per Roma e per un nuovo rapporto tra il leader de La Destra, Storace e il sindaco Gianni Alemanno. Un messaggio chiaro, quasi un appello, che si è levato dagli ex An capitolini. «Bisogna lavorare per recuperare un clima di collaborazione tra il sindaco e la Destra di Storace - ha detto il senatore Andrea Augello - malgrado qualche spruzzo di nostalgia e qualche simbolo retrò di troppo, la piazza di Storace rappresenta la premessa di potenziali conseguenze di qualche rilevanza per i rapporti di forza nel centrodestra, stante la difficoltà con cui il Pdl continua ad attraversare l'attuale fase politica».

Primo punto allora, recuperare un rapporto con Alemanno degenerato soprattutto negli ultimi giorni, quando il sindaco si è rifiutato di far entrare nella sua giunta la figlia di Almirante. Un ingresso che avrebbe sancito l'alleanza elettorale del 2013. Un'alleanza che, all'indomani del corteo che dopo anni è riuscito a portare in piazza il "popolo della destra" - quella «che Fini non è riuscito ad ammazzare», fa notare Storace - viene vista oggi con occhi completamente diversi. Uno sguardo che va addirittura oltre l'apparentamento e punta alla nascita di un nuovo partito in grado di rimarginare le vecchie ferite, superare i rancori personali e dare all'Italia quella proposta innovativa di cui parla Malgieri. Il messaggio arriva anche dalla presidente della Regione Lazio, Renata Polverini che ha onorato l'alleanza elettorale con La Destra facendone classe di governo. «Storace ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di parlare alla gente. Nel Lazio La Destra è un alleato solido e concreto che sta contribuendo al governo della Regione - sottolinea la Polverini - al di là delle diverse prese di posizione sul governo Monti, la voce di dissenso che Storace ha saputo raccogliere non va ignorata, rappresentando un momento di espressione democratica e di partecipazione nel Paese».

Importante poi il passaggio del deputato Fabio Rampelli, alla guida della forte corrente dei Gabbiani. Secondo lui la manifestazione de La Destra «deve indurre il Pdl a equilibrare le sue talvolta eccessive attenzioni verso il centro di Casini e Cesa. Esiste in Italia una forte domanda di destra, di chiarezza, di coraggio, di coerenza, di politica che trova consensi nel partito di Storace e in genere nell'ex elettorato di An, così come al nord nella Lega di Bossi. Non esistono solo i partiti di derivazione democristiana. Storace ha dimostrato che c'è una domanda di cambiamento della politica che viene da destra». Lo stesso ex ministro, Giorgia Meloni, avverte: «Lo sbilanciamento al centro rischia di diventare una trappola». Gli ex di An insomma vorrebbero un'alleanza a destra, o meglio, tornare a rappresentare quella destra uscita a pezzi da Futuro e Libertà. Non solo loro però. Gli ex democristiani che orbitano nell'area Pdl guardano con favore a un ricompattamento della destra e un centro, all'interno di un unico partito composto da loro. Il presidente dei Cristiano popolari, Mario Baccini punta proprio a questo. «L'invito rivolto agli ex An a non flirtare con i democristiani pone le basi per mantenere identità distinte che sappiano camminare insieme verso il Popolarismo europeo». L'invito al Pdl a tener conto de La Destra è arrivato anche da Gianfranco Rotondi. Una "sottigliezza" afferrata dal vicepresidente del Lazio ed esponente di spicco dell'Udc, Luciano Ciocchetti «come è sua consuetutine Storace non si è nascosto dietro un dito. È evidente che una manifestazione politica molto partecipata come quella di Storace, non può passare inosservata». Alemanno però tace. L'unico commento del sindaco è stato quello a fine corteo, quando rispondendo a Storace su un'alleanza per Roma ma con un candidato diverso, ha detto: «Sono pronto a sfidarlo alle primarie». I "colonnelli" però si sono messi in moto: l'alleanza con Storace, soprattutto a Roma, s'ha da fare. Con o senza Alemanno.

(di Susanna Novelli)

domenica 4 marzo 2012

Pound, economista dilettante in lotta contro gli usurai di Stato


Alec Marsh è professore di inglese al Muhlenberg College, in Pennsylvania, e un autorevole studioso del grande (e complesso) poeta americano Ezra Pound (1885-1972). Oltre a essere presidente della «Ezra Pound Society», Marsh ha scritto una biografia dell'autore dei Cantos, intitolata semplicemente Ezra Pound, appena pubblicata nella collana «Critical Lives» delle edizioni Reaktion Books di Londra (pagg. 248, sterline 10,95). Lo abbiamo intervistato sulle radici americane del poeta, che costituiscono il cuore del libro.

Come nasce questa nuova biografia di Pound?

«Dal fatto che ho passato tutta la vita, a partire dal corso sul Modernismo frequentato al secondo anno di college, studiando Pound. All'inizio, l'oscurità dei suoi versi mi aveva spaventato, ma poi ne fui affascinato. Nel 1978 discussi la mia tesi su Pound e il Fascismo, e quando la Reaktion Books mi chiese di scrivere una biografia, pensai fosse finalmente venuto il momento di chiarire gli aspetti di Pound che mi avevano sempre intrigato: la questione della sua sanità mentale, le sue idee politiche, il suo antisemitismo. Argomenti che riuscivo tranquillamente a evitare nel mio insegnamento, dove mi concentravo esclusivamente sulla sua poesia».

Che cosa distingue il suo libro dalle altre biografie?

«Ho provato a descrivere Pound nel suo mondo, come attivista politico, cittadino responsabile, e soprattutto appassionato tifoso dell'Italia e degli Stati Uniti contro quella “cospirazione delle forze oscure” che chiamava Usura. Ho approfondito gli aspetti più tipicamente americani di Pound, sempre schierato a fianco della vera America, che non è quel deserto culturale che spesso appare. L'America reale è stata sedotta e tradita, debosciata e corrotta da una cultura falsa, anzi, da un simulacro di cultura - e sto citando l'amico di una vita di Pound, il poeta W.C. Williams, non Baudrillard. Pound sapeva che un'altra America esiste, che non è quella descritta oggi dai film e dalla tv, goffo protagonista di una politica estera banditesca. La incarnò lui stesso, con la sua passione, il suo coraggio, il suo idealismo e la sua rabbiosa frustrazione nel vederne l'incapacità di vivere all'altezza degli ideali».

Quindi, possiamo affermare che Pound si inserisce a tutti gli effetti in una genuina tradizione americana, quella aperta dal presidente Jefferson?

«Certamente. L'eredità di Thomas Jefferson, come dimostro nel mio libro, è estremamente importante non solo per Pound, ma anche per tutti gli Stati Uniti: Lincoln è sicuramente il più grande presidente americano, ma Jefferson è il più interessante, complesso e intelligente. Potrei sbagliarmi, ma credo che siano state scritte più biografie di Jefferson che di ogni altro presidente, e questo semplicemente perché conoscere Jefferson significa conoscere cosa vuol dire essere americano, con tutta la nostra potenzialità, con tutte le nostre contraddizioni e anche, purtroppo, con tutta la nostra vergogna».

Qual è l'importanza di Pound come poeta?

«Pound è il più autorevole poeta americano del suo tempo, e uno dei più grandi di tutti i tempi. Lo è per il fatto di insistere sull'importanza della poesia come mezzo per pensare e agire nel mondo. Egli capì ciò che in troppi hanno dimenticato: che la poesia è la suprema forma d'arte. Gli italiani lo sanno: del resto, avete Dante, probabilmente il più grande poeta mai vissuto, e lo studiate ancora a scuola! Pound non è il nostro Dante, è troppo duro, troppo ostinato e refrattario per diventare popolare... Diciamo che è il nostro Guido Cavalcanti: profondo, colto, e dissidente, sempre e comunque».

Quello di Pound e il fascismo è un capitolo difficile e controverso. Come lo ha affrontato nella sua biografia?

«Innanzitutto, credo sia molto difficile per uno straniero capire a fondo il fascismo italiano, e anche Pound era perfettamente consapevole che il Fascismo non era “merce da esportazione”. Il professor Tim Redman, autore di un documentatissimo studio su Pound e il Fascismo, definisce Pound un fascista di sinistra, e questo è corretto se parliamo delle sue idee economiche, anche se certamente non credeva nella lotta di classe e neppure nella validità delle teorie marxiste.
Le uniche classi riconosciute da Pound erano quelle degli sfruttati e degli sfruttatori, dei creditori e dei debitori, idee che riconobbe nel programma della RSI e nei 18 punti di Verona, che lo entusiasmarono fino alla fine».

Quanto sono valide, oggi, le teorie economiche di Pound?

«Credo sia difficile dare una risposta, perché le sue idee non sono mai state messe in pratica. Ritengo le sue teorie economiche molto stimolanti e molto attuali, anche se ovviamente non sono quelle di un economista. Ma, dato che gli economisti di professione sembrano incapaci di suggerire, se non una soluzione, almeno una spiegazione delle crisi ricorrenti, forse dovremmo rivolgerci agli economisti dilettanti, come Ezra Pound».