Uno dei paradossi della globalizzazione è il ritorno della diversità. Ci hanno spiegato che un mondo senza frontiere è un mondo più progredito, ma anche il più convinto assertore del mercato unico, una volta all’estero vorrebbe che estero fosse, e non il rifacimento del cortile di casa sua.
Paradosso nel paradosso, in quel cortile non si vogliono però
estranei o cose estranee. «Non nel mio cortile» suona in italiano la
traduzione dell’inglese not in my backyard con cui si rifiuta tutto ciò
che è sentito come un’ingerenza altrui, da un progetto di alta velocità a
un parcheggio, da un campo nomadi a un inceneritore… Ci siamo abituati a
considerarci tutti eguali, ma continuiamo a pensare a un’eguaglianza
diversificata. Un po’ come lo smaltimento dei rifiuti.
Prendiamo le nazioni e la loro tremenda patologia, il nazionalismo. A
un certo punto ne abbiamo decretata la fine: troppo piccole rispetto
alle prospettive di un governo mondiale, superate rispetto alla sfida
della modernità. Ci abbiamo creduto ed è stato un proliferare di
«piccole patrie», il localismo che suona un po’ come un nazionalismo a
scartamento ridotto: una sola fermata e sei già arrivato. C’è chi dice
che si tratti di un treno che non va da nessuna parte, ma questo a ben
vedere è secondario, perché è proprio la chiusura quello che si vuole,
globalizzata e nel nome dei diritti dell’uomo, naturalmente, il mantra
universalista che mette insieme il bellicismo umanitario e il disarmo.
Parliamo tanto di città-mondo e di mobilità planetaria, inneggiamo ai
surfisti della rete e ai nomadi del cyberspazio e intanto ci avvolgiamo
in sistemi che sempre più ci limitano. Dalle carte di credito ai
sensori ai passaporti elettronici, dalle cellule fotoelettriche ai
divieti per il nostro bene (niente fumo, niente alcol, morte ai grassi,
guerra agli anoressici), inseguiamo un’umanità piallata, controllata e
tutta eguale. In Europa ci avevano detto che dovevamo consumare tutti e
per meglio farlo ci avevano dotato di un’unica moneta; adesso ci dicono
che tutti ci dobbiamo sacrificare proprio perché abbiamo una moneta
unica. Per anni noi italiani non abbiamo pensato di essere greci, adesso
però che siamo europei potremmo diventarlo. Fa parte del progresso.
Più si guarda all’universale e più ci si allontana dall’essenziale.
La televisione ha alfabetizzato il Paese, si è detto e ridetto. Tanto
vale dunque fare a meno della scuola, ormai una via di mezzo fra un
optional per chi la frequenta e un obolo per il disgraziato che alla sua
missione educatrice ha avuto il torto di credere. L’urbanizzazione fa a
meno dei centri storici ripetiamo compiaciuti. Tanto meglio allora
svuotarli e riempirli di banche e di negozi di griffes, tanto peggio per
chi si ostina a viverci pensando che lì sia la civiltà e la tradizione
di un popolo. L’età non è un fatto anagrafico, ancor meno un cursus
honorum che dall’infanzia porta alla giovinezza, alla maturità e alla
vecchiaia, tappe diverse ciascuna con i suoi diritti e i suoi doveri.
Largo dunque ai quarantenni che ancora vivono in casa con la mamma,
largo ai sessantenni con la vita bassa dei pantaloni sotto le natiche.
Così come la natura ha paura del vuoto, la reductio ad unum genera
anticorpi spesso nocivi. Se non si può controllare il flusso
dell’immigrazione, perché le frontiere rappresentano ormai il passato e
il libero transito di uomini e merci il paradiso promesso, ci sarà
sempre qualche sindaco, progressista, è chiaro, che in città eleverà un
muro che isoli la comunità di cui, governandola, si è fatto garante. La
comunità rifiutata si radicherà a sua volta nell’identità esasperata di
chi difende quel poco di sé che è la sua sola ricchezza: una religione,
una tradizione, i costumi, le abitudini…
Elogio delle frontiere (add, pagg. 93, 12 euro) è il pamphlet che
Régis Debray (nella foto n.d.r.) ha scritto «contro l’epidemia dei muri», ovvero contro
l’illusione di un mondo globalizzato che ha per corollario e contraltare
proprio la chiusura e non la regolamentazione, lo scontro e non
l’equilibrio. Il senza-frontierismo umanitario trasforma uno stato di
confusione mentale in messianismo e «traveste da confraternita una
multinazionale». È un economicismo che dà «il colpo di grazia al
politico bloccato nel proprio territorio dal vincolo elettorale». È
anche un tecnicismo, il trionfo dell’oggetto standard senza latitudine
né longitudine, nonché un assolutismo, «la pretesa di un’onnivalenza
planetaria», e un imperialismo, «l’imporre limiti agli altri e non a sé
stesso».
Nella sua Grammatica delle civiltà, Fernand Braudel aveva già notato
che tutte le culture hanno avuto i loro meccanismi di filtraggio. Debray
è d'accordo e va oltre: «Sono coloro che non posseggono nulla ad avere
interesse a una demarcazione chiara e precisa. I ricchi vanno dove
vogliono, con un colpo d’ala, i poveri vanno dove possono, remando. Il
forte è fluido». Non facciamoci inoltre ingannare su ciò che la
globalizzazione ci porta in fatto di balcanizzazione: «Chi va alla
deriva rischiando di perdersi ostenta il proprio luogo d'origine
attraverso distintivi, veli, tatuaggi, frontiere che si possono esibire
muovendosi».
C’è, scrive Debray, una saggezza del corpo, compreso anche il corpo
sociale. «Quando non si sa più chi si è, si è mal disposti verso gli
altri e, innanzitutto, verso sé stessi. Chiunque manchi di riconoscersi
un oltre, non accetta il suo fuori. E dunque ignora il suo dentro. Chi
vuole andare oltre sé stesso comincia con il delimitarsi. L’Europa ha
mancato di prendere forma: non incarnandosi in nulla, ha finito per
rendere l’anima. Ci vogliono buone frontiere per avere buoni vicini».
(di Stenio Solinas)
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