sabato 28 aprile 2012

Miseria e nobiltà dei simboli politici


In molte località italiane sono in corso varie competizioni elettorali, che si affiancano alla ben più importante e decisiva esperienza francese. In tempi come i nostri, di decisa egemonia della «società del consenso» e della logica dello spettacolo, sarebbe stato legittimo aspettarsi un fuoco d’artificio d’invenzioni anche propagandistiche e di nuove affascinanti o almeno divertenti soluzioni grafico-simboliche. Con tanta abbondanza di manager strapagati che ruotano attorno al mondo politico e tanta densità di scuole informatico-telematiche e di masters più o meno gestiti direttamente o indirettamente dai partiti, c’erano tutte le premesse per vederne delle belle.

Invece, da quel punto di vista, tutto è stato bigio e deludente. Fino a qualche mese fa il Pdl si esibiva spesso in modeste scopiazzature dell’apparato elettorale statunitense: berrettini a visiera col nome del candidato principale, palloncini colorati, pon-pon girls. Non era granché originale, anzi era un po’ triste: ma sembrava proprio che i disponibili esperti di comunicazioni di massa o sedicenti tali fossero incapaci di far di più.

Una mezza eccezione, che faceva bene sperare, era forse la Lega. Invenzioni come il Carroccio, la silhouette della statua ottocentesca di Alberto da Giussano a Legnano, il «giuramento di Pontida» non erano troppo lontane dalle saghe di paese, ma rappresentavano già qualcosa. Espressioni come «Cerchio magico» e «Barbari sognanti» apparivano quasi come delle rose - o quanto meno dei ranuncoli - nel deserto.

Vero è che i «lumbàrd», stranamente ignorando la loro stessa denominazione, non amavano né amano riferirsi mai ai longobardi (che forse non hanno uno statuto di facile riferimento nell’immaginario collettivo nutrito di cattiva televisione) e si riferiscono semmai ai celti, immaginati «alla Asterix». Ma ciò si spiega bene sotto il profilo storico: la punta di diamante dei giovani confluiti nella Lega e interessati ai temi della simbolica proveniva dalla «Nouvelle Droite» di Alain de Benoist e dai «Campi Hobbit», il décor folklorizzante dei quali si rifaceva appunto al mondo celtico (e dunque alla «croce celtica», scomparsa ma sempre occultamente presente).

Si deve in effetti a un colto e intelligente architetto proveniente da quella parte politica, Gilberto Oneto, l’invenzione del cosiddetto «Sole delle Alpi», il fiore verde a sei petali in campo bianco che è senza dubbio l’invenzione grafico-simbolica più indovinata ed esteticamente più efficace del panorama italiano degli ultimi due decenni.

Per il resto, siamo davvero alla più malinconica banalità. La simbolica dei partiti, oggi, non va oltre l’apparato di vessilli color pastello (dall’azzurro al malva all’arancione, ovviamente evitando il troppo scandaloso rosso - per non dir nulla del nero - e anche il verde, un tempo in Italia caratteristico dei repubblicani ma ormai «scippato» sia dai leghisti, sia dai musulmani) e di patetiche bandiere quasi sempre bianche sulle quali quasi invariabilmente campeggia un cerchio nel o sul quale è scritto, senza alcuno sforzo di fantasia grafica, il nome del leader. Al confronto, non diciamo la falce e martello o la stella rossa ch’erano senza dubbio di grande forza, ma anche gli scudi crociati o le fiamme tricolori della prima repubblica erano dei capolavori d’inventiva, di efficacia e di eleganza. La miseria simbolica, e quindi la carenza di fantasia e di cultura che traspaiono dalla propaganda politica italiana sono una prova ulteriore del tragico abbassarsi di livello della nostra società civile.

Non è stato sempre così: al contrario. In passato, alcune trovate si rivelarono geniali. Lasciamo pure da parte la svastica nazista o il «pentacolo» delle Brigate Rosse o la stessa «croce celtica», simboli di straordinaria efficacia grafica e di intenso significato simbolico ma proprio per questo, per ovvi motivi, divenuti «maledetti» e irriciclabili; più o meno così come il fascio littorio mussoliniano, che peraltro risaliva in origine, più che all’antichità romana, alla Rivoluzione francese attraverso una lunga tradizione mazziniana e garibaldina (d’altronde va detto che il fascio è presente nella simbolica pubblica francese, statunitense e spagnola; e che la svastica viene ancora usata come simbolo religioso in area buddhista e giainista).

Ma in passato a volte bastava una lettera dell’alfabeto per lanciare una campagna di successo. Pensiamo alla «U» che Albe Steiner disegnò come iniziale del nome della testata del quotidiano del Pci, «l’Unità», e che fece epoca. Oppure all’idea dei grafici fascisti di stilizzare la caratteristica «M» della firma autografa di Mussolini, trasformandola in un «logo» che venne ripetuto ossessivamente sui giornali, sui manifesti, sui monumenti e perfino, ricamato in rosso su fondo nero, sulle mostrine di alcuni reparti della Milizia.

Come ben sapevano i miniatori medievali che ci si sbizzarrivano nei loro capilettera, la maiuscola che ben si presta a ogni sorta di virtuosismo è la «B»: possibile che nessun grafico berlusconiano o bossiano se ne sia mai accorto e che non sia mai stato tentato di raccogliere la sfida?

Intrecciando una «V» e una «W», la Volkswagen ha creato un «logo» che ha fatto il giro del mondo: chissà se Walter Veltroni ha mai provato la tentazione di appropriarsene… 

(di Franco Cardini)

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