giovedì 26 luglio 2012

Marco Tarchi: il grillismo? Tutta colpa dei partiti


Quando analizza la situazione italiana è un po’ il signor-no. Contesta i luoghi comuni della politica tanto per cominciare la distinzione destra-sinistra che ritiene da molto tempo ormai categorie superate. Attento più all’evoluzione del pensiero e soprattutto, ai mutamenti intervenuti nella società, osserva in modo più scientifico che passionale il degrado della lotta politica nazionale e ne trae conclusioni che hanno finito per renderlo al tempo stesso protagonista di incontri con i pensatori più attenti e critici della sinistra e mal sopportato a destra.

È a Marco Tarchi, docente universitario a Firenze, al quale abbiamo chiesto una visione riflessiva e critica del presente e del futuro del Paese.

Professor Tarchi, destra, sinistra e centro sono categorie politiche che oggi sembrano avere il fiato corto. Quasi 30 anni fa, era il novembre 1982, lei, con una delle figure più critiche della sinistra, Massimo Cacciari, gettò il ponte della discussione per superare quelli che allora si chiamavano ancora steccati fra destra e sinistra. Che cosa è rimasto di quel seme? Quali prospettive ha di essere ripreso e rivitalizzato vincendo le opposte ritrosie?

«La situazione odierna è molto più difficile, soprattutto in Italia, perché il sistema elettorale adottato nel 1993 e la riammissione nel gioco delle coalizioni governative degli ex neofascisti hanno cristallizzato, nel gergo politico e nella mentalità di molti cittadini, le nozioni di sinistra e destra, che trent’anni fa davano chiari segni di obsolescenza. Le due etichette si sono trasformate in paroletalismano: spesso chi non ne fa uso si sente a disagio. Mi chiedo però se le linee di frattura socio-culturale che avevano dato vita al discrimine sinistra-destra, e che fenomeni come la crescita delle preoccupazioni ecologiche e la fioritura di tematiche post-materialiste sembravano condannare all’anacronismo, abbiano ritrovato nel frattempo vigore, o si siano riproposte con forza, pur con panni rinnovati. A me pare proprio di no, e credo che stiano a dimostrarlo le sostanziali sovrapposizioni di molte parti dei programmi che le forze politiche in concorrenza presentano per attrarre consenso. Se si escludono i toni concitati da talk show e qualche solenne proclamazione di principio sistematicamente smentite dai fatti, gran parte delle destre e sinistre odierne dicono le stesse cose – si tratti di ricette economiche, di posizioni sullo scacchiere internazionale, di diritti civili e via dicendo. Gli antagonismi – e le convergenze – reali si trovano solo in ambiti per ora marginali o comunque malfamati. Penso ai movimenti populisti sorti un po’ in tutta Europa che, per il solo fatto di infrangere in qualche misura questo oligopolio ideologico, finiscono nel mirino dell’apparato di denigrazione massmediale. Ciò non toglie che, fra spiriti liberi, da tempo un dialogo costruttivo che prescinde, almeno in larga misura, dalle pregresse formazioni e appartenenze, sia in atto: penso, giusto per fare un esempio (ma ce ne sono molti) al confronto costante che Franco Cardini ed io abbiamo con Danilo Zolo. Potrà sfociare in una convergenza metapolitica più ampia? Detto con sincerità, dipenderà dalle circostanze e dagli scenari che si formeranno. Da parte mia, la disponibilità è forte oggi come allora, perché in trent’anni non ho visto né udito un solo argomento convincente che abbia smentito la mia convinzione che le linee di conflitto del Novecento sono inadatte ai nostri tempi». Se la destra appare senza bussola, la sinistra è combattuta oggi fra Vendola, Di Pietro e Bersani ed è alla ricerca della propria anima. Dove si fermerà il travaglio? Approdando sulle sponde di Grillo? «Penso proprio di no, perché Grillo dimostra sempre più, di giorno in giorno, di ragionare senza tenere nel minimo conto il discrimine sinistradestra. Piaccia o non piaccia, aggredisce problemi e sradica tabù con una radicalità che non può piacere a nessuno degli attuali attori politici. E lo si vede, data la potenza delle bocche di fuoco che hanno cominciato a sparargli contro: a parte i politici di professione, non sono mancati il presidente della Repubblica, quasi tutti i quotidiani che contano, i telegiornali, i politologi. Ho letto le dure critiche del giornale israeliano Yedioth Aharonoth, un foglio che conta. Un ulteriore segnale molto significativo. No, la sinistra non finirà con Grillo. Continuerà, in ordine sparso, a dibattersi fra una resa sostanziale alle idee dei nemici di un tempo e un attaccamento, ormai più sentimentale e retorico che altro, alle ragioni degli umili. Come è stato da più parti scritto, un vago progressismo cosmopolita ha ormai cancellato il socialismo dall’identità culturale della sinistra. La classe operaia, ormai considerata poco più di una zavorra della dinamica storica dell’economia, è stata soppiantata nelle preoccupazioni di quegli ambienti dai marginali d’ogni tipo. La guerra di classe ha ceduto il passo alle guerre umanitarie, i diritti dei lavoratori salariati non appaiono più primari rispetto a quelli delle coppie gay, i migranti sono l’unico proletariato a cui si guarda. E passare da Karl Marx a Bernard-Henri Lévy non è un buon segno…»

Passiamo al campo opposto: lei ha ripetutamente sostenuto che un fenomeno come quello della Nuova Destra è ormai acqua passata. Oggi si dovrebbe parlare di ricerca di nuove sintesi, al di là della destra e della sinistra, come già ipotizzato da Sternhell? E in compagnia di chi?

«Per pensare sinteticamente, non c’è bisogno di alleati o di riconoscimenti esterni. È sufficiente sentirsi insoddisfatti del pensiero binario, sentirne i condizionamenti come un limite inaccettabile della libertà di pensare orizzonti diversi da quelli del sistema culturale, sociale, politico ed economico nel quale oggi viviamo. Sternhell si è occupato del panorama politico-intellettuale di fine Ottocentoprimi decenni del Novecento e ha scritto opere di eccellente qualità; per questo l’ho tradotto e fatto pubblicare prima che fosse scoperto da altri editori. Ma qui stiamo parlando di scenari attuali. Non essere prigionieri dei riflessi condizionati dettati dall’appartenenza ad una categoria politica preconfezionata significa, in primo luogo, tener fede alla visione del mondo che si coltiva e favorire la diffusione delle credenze e delle opinioni che ne derivano senza preoccuparsi delle convenienze. Le culture politiche riferibili ai concetti di sinistra e destra hanno lasciato, oltre a parecchi detriti, un buon numero di spunti utili a misurarsi positivamente con i grandi problemi del nostro tempo. Raccoglierli, metterne uno accanto all’altro, aggiornarli e sistematizzarli, senza escluderne affatto l’integrazione con riflessioni originali dettate dall’attualità, mi pare un compito né ozioso né sgradevole. Allinearsi, magari con forti disagi, alle parole d’ordine del campo a cui si è scelto di appartenere, a mio avviso è un destino molto più gramo. Anche se può avere ricadute utili dal punto di vista del tornaconto personale. Ah, a proposito, e senza eccessi polemici: il progetto delle nuove sintesi non nasce su un campo opposto a quello della sinistra o della destra. La contraddizione logica non lo consentirebbe».

Parliamoci chiaro: di cultura politica si può discutere all’infinito, poi a ritmi più o meno cadenzati c’è l’appuntamento con la scheda elettorale. Che prospettive avrebbe un elettore disgustato dall’attuale centrodestra pidiellino, dal centrosinistra frutto della fusione fra mezzi democristiani e mezzi comunisti o dal presunto terzo polo che non fa impazzire di gioia gli elettori?

«Mi permetto un’obiezione. Occuparsi di cultura politica non significa discutere all’infinito, magari del famoso sesso degli angeli, ma cercare di creare anche solide basi per agire nella realtà. Perché se non si influisce sulla mentalità delle persone, non si otterrà mai uno stabile consenso verso i programmi e le tesi che si difendono in ambito politico. La destra, su questo monito, farebbe bene a ragionare a lungo e profondamente, ammesso che ne sia capace. Ovviamente, se ci si accontenta di guadagnare voti, seggi e stipendi per realizzare le proprie ambizioni, di cultura non c’è il benché minimo bisogno. Anzi. Demagogia, doti seduttive personali, risorse economiche e massmediali possono bastare. Se la si vede così, però, limitiamoci ai manuali di marketing, anche politico. Se comunque vogliamo scendere sul terreno delle scelte politiche, chi pensa che il suo voto incida sulle scelte dei governi, nazionali e locali, può stabilire da solo quale grado di compatibilità partiti, candidati e programmi abbiano con il suo modo di vedere le cose e auspicare soluzioni ai problemi. C’è chi ne fa una questione di coerenza, chi di convenienza; c’è il voto espressivo e quello utile. Ma non vedo perché si debbano per forza digerire pillole amare se non si è affetti da particolari malattie. Personalmente, ho spesso preferito astenermi piuttosto che dare voti di cui mi sarei dovuto pentire, sentendomi corresponsabile di scelte e comportamenti deplorevoli. A volte ho, come molti, votato contro chi mi sembrava più detestabile, ma a posteriori non ripeterei l’errore. Talvolta ho individuato un soggetto politico che collimava con qualcuna delle opinioni che coltivo e l’ho sostenuto. In genere, chi dà fastidio al sistema vigente mi suscita simpatia».

Lei vive lontano dalla politica di partito da un trentennio abbondante. Guardiamo altrove. Dai Campi Hobbit in poi e per un certo periodo è nata la prospettiva di una rivoluzione impossibile, cito il titolo di un suo recente volume. Però la riflessione fra le esperienze non conformiste a sinistra o a destra non ha portato da nessuna parte. Perché? Eppure oggi più che mai c’è bisogno di aria nuova, di un rinnovato elogio delle differenze.

«Se ho considerato impossibile la rivoluzione ipotizzata e agognata dai protagonisti di quelle esperienze, è proprio perché l’ambiente in cui se ne coltivava il sogno era inadatto a recepirlo e concretizzarlo. Me ne sono reso conto e l’ho affermato nettamente, trent’anni fa. E ho cercato, con un nucleo di amici e di simpatizzanti, di seguire un’altra via. Come, appunto, ho argomentato nelle centoventi pagine dei saggi introduttivo e conclusivo del libro che lei cita, edito da Vallecchi. Ho voluto pubblicare quel libro per intenti tutt’altro che celebrativi. L’analisi che vi ho svolto è impietosa ma, nei miei intendimenti, costruttiva. Quel che sostengo è che, se i risultati cui lei fa cenno sono mancati, lo si è dovuto alla mancanza di coraggio di chi, dovendo affrontare la severa prova dell’impegno metapolitico, sul terreno della diffusione delle idee, con scarsissimi mezzi materiali, ha preferito rintanarsi nella calda nicchia della routine di partito, limitandosi alla politica politicante, come allora la chiamavamo. Non so come sarebbero andate le cose se ai tempi in cui la Nuova Destra seppe conquistarsi una visibilità pubblica non trascurabile fosse esistito internet. Le comunicazioni del nucleo territorialmente sparso degli animatori sarebbero state molto più agevoli, gli strumenti per rilanciare iniziative e parole d’ordine assai più efficaci, e non sarebbe mancata l’istantaneità nel fornire notizie e far circolare opinioni. Ma con i se si costruisce poco. Resta il fatto che di risultati ce ne sono stati, eccome. Non in senso micropolitico, questo è certo, anche se alcuni dei coprotagonisti o degli attori secondari di quell’esperienza, da cui si erano congedati anzitempo, hanno tentato di farsene tre decenni dopo un titolo di merito, soprattutto in occasione della scissione finiana dal Pdl, presentandosi come innovatori di lungo corso e contestatori ante litteram di scelte che, viceversa, in sede politica hanno ampiamente e tenacemente sottoscritto. Ma in una prospettiva più ampia, se nel dibattito pubblico si vuol sostenere che da destra sono scaturite idee non banali e non conformiste, è sempre alla stagione prima dei Campi Hobbit e poi della Nuova Destra che si fa ricorso».

Torniamo, in Italia, dove imperversano i grillismi. È solo degenerazione della politica o siamo di fronte ad una rivoluzione sociale che nasce dal basso?
«Avrà capito che io non ho di Beppe Grillo, pur nella piena consapevolezza dei suoi limiti, l’opinione demonizzante e l’atteggiamento di esorcismo o di scherno di altri commentatori. Le sue provocazioni, ad onta dei toni, sfidano non pochi dei luoghi comuni del nostro tempo. Di fronte ad una politica che da decenni dà il peggio di sé e a un panorama partitico deprimente, novità come questa mi sollevano un misto di interesse e curiosità. Speranza sarebbe una parola troppo grossa, così come lo è rivoluzione. Mi limito all’attenzione, senza antipatia. Anche perché, dal prevedibile esaurimento del «grillismo», potrebbero nascere fermenti ulteriori. Di nuovo, senza coltivare illusioni».

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