Bisanzio è assediata e la sinistra discute del sesso degli angeli, che nella società senza cielo sono i gay. Bisanzio brucia e la destra pensa a salvarsi
il sedere e dove esso si posa, ovvero i seggi per la modesta classe
dirigente. L'Italia affonda e nessuno rappresenta il suo corpo ferito e
la sua anima umiliata. Cosa può fare la cultura per il suo Paese? Poco,
molto poco. Ma deve farlo, quando il suo Paese rischia di morire. Cosa
può fare la cultura? Scrivere, testimoniare, rivolgere appelli, gridare
nel deserto, difendere la lingua, l'arte, la civiltà. Ma non basta, mi
rendo conto, non basta. Se cerca i mezzi per incidere con più efficacia
si dice che è venduta e asservita. Se non li cerca, o addirittura li
respinge, si dice che è rancorosa e sterile. Se sta nel mezzo finisce
come l'asino di Buridano. Se si ritira nei suoi libri e nei suoi
pensieri, riconoscendo che il cielo è la sua patria, si dice: ecco il
solito intellettuale, impotente e sacerdotale, ma di una religione dove
Dio si è spento.
L'unica cosa che resta da fare alla cultura è affrontare
il rischio e sfidare il potere, forte della sua assoluta debolezza,
ricca della sua inerme povertà, libera e folle. Non rinunciando alla
cultura ma al suo individualismo narcisista ed egocentrico. Non tocca
alla cultura mobilitare un popolo, governare un paese, non ne sarebbe
capace. Non è indole della cultura vera formare sette; ogni scrittore è
una casa a sé, non ha un partito suo. Eppure in tempi eccezionali deve
intervenire, pur non lasciando la sua occupazione principale che è
pensare e creare in solitudine; ma sapendo che nei tornanti della
Storia, ai giri di boa più decisivi, quando il fumo raggiunge anche il
suo studio, deve fare la sua parte, generosamente, e non ritrarsi.
Lasciar da parte i calcoli, anche i più nobili, e farlo per la gloria di
concorrere a salvare il suo paese. Cent'anni fa si chiamò interventismo
della cultura, e ci fu chi intervenne sul serio, chi rischiò davvero,
perfino chi dette la vita in guerra; ci fu chi combinò guai e pasticci,
chi si ritirò al momento della verità, dopo aver acceso gli animi.
Armiamoci e partite. Ma nel frangente, la cultura non deve defilarsi,
deve cimentarsi, provare le sue idee su strada.
Oggi alla cultura tocca
esprimere un pensiero divergente. Divergente non solo perché diverge e
dissente dal potere che è oggi anonimo, transnazionale, astratto come la
finanza. Ma deve coltivare un pensiero divergente perché deve esprimere
due esigenze opposte: quella di tornare alla realtà, mentre il potere
vive prigioniero di una bolla irreale, fatta di speculazione,
autoreferenzialità e indici astratti. E insieme deve essere com'è sua
natura lungimirante, esibire i principi e le idee, pur oscene, orientare
e indicare. In sintesi: tornare alla realtà, che è fatta anche di
ideali. Alla cultura oggi, pur così malmessa, tocca un compito non
secondario: suscitare, risvegliare dal sonno senza sogni questo Paese di
ombre viventi, che compensano la loro evanescenza con l'esercizio del
potere. È vero, sono finiti i tempi della cultura interventista, il
mondo è cambiato, la tecnica muove la vita con l'economia, la parola non
basta. Alla cultura tocca rispondere alla corruzione politica in un
solo modo: riscoprendo le motivazioni della politica, in assenza delle
quali dilaga il malaffare.
La cultura deve costringersi a farsi presente,
deve fare la sua parte, fino in fondo. Deve scrivere, progettare,
scendere per strada, mettere in relazione mondi diversi, parrocchie
conflittuali; deve farsi ostetrica, se non addirittura ingravidare. Deve
chiamare alla tradizione e reinterpretarla, ricordare il passato,
indicare l'avvenire. Deve dare poesia attiva, ispirare. E deve mantenere
la sua dignità anche se la chiameranno superbia, quella di chi dice: a
me non serve niente, non puoi comprarmi con i soldi, i seggi o roba
affine; non chiedo niente, mi declasserei se rinunciassi al mio compito
per fare, che so, il parlamentare o accaparrarmi un vitalizio o una casa
(rischio remoto, perché si gratificano i corpi seducenti e i servi, non
le intelligenze e le idee). La cultura è troppo orgogliosa per cedere a
così poco, e abdicare alla sua dignitosa solitudine in cambio di un
appannaggio. La cultura deve osare.
Il vero problema è come, con chi, a
chi rivolgere il discorso, dove trovare compagni d'armi e d'anima
disposti all'avventura. E come reggere al disgusto, allo sconforto, alla
«bassa marea» che la circonda, senza lasciarsi prendere dalla
tentazione di tornare soli. Prudenza, realismo, ponderatezza. Però si
deve osare. L'appello è a chi non esercita il potere e non fa parte
della cricca; a chi non sa che farsene di governi in apparenza affini
che poi non lasciano neanche un'impronta del loro passaggio. A quel
punto meglio la pura, impolitica testimonianza degli emarginati che
andare al potere e lasciar le cose al loro degrado. La cultura deve
farsi sentire, deve dire, pensare, agire, tracciare e lasciar traccia.
Perché anche la cultura ha le sue responsabilità, non può bamboleggiare
tra bizantinismi e ritrosie. Ci vuole uno stomaco di ferro per
cimentarsi e capisco la tentazione dell'eremo; la pratico, la condivido.
Anzi sono quasi convinto che alla fine non servirà a nulla: la voce
grida nel deserto, nessuno la raccoglie, se non per dirti di tacere. E
taceremo, non perché sottomessi, ma perché non abbiamo potere per
accendere i microfoni. Alla cultura si addice la contemplazione ma a
volte si richiede lo sforzo aggiuntivo, pur provvisorio, del movimento,
nelle forme che le sono congeniali; a volte tocca esporsi. Lo fece
Platone, lo fece Dante, lo fece mezzo Novecento eroico, figuriamoci se
non possiamo farlo noi.
(di Marcello Veneziani)
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