giovedì 29 novembre 2012

Così il fascismo sopravvisse al Duce


Ci fu un tempo in cui la politica era scontro di passioni e confronto di visioni; ci fu un tempo in cui i militanti sacrificavano volentieri al partito tempo e denaro; ci fu un tempo in cui la ricchezza delle idee era inversamente proporzionale alla disponibilità di mezzi. 

Anche a quel tempo l'impegno politico poteva aprire le porte della galera, ma solo per reati d'opinione o in conseguenza di una militanza troppo vivace e certamente non per furto, appropriazione indebita o truffa. Sembrano tempi lontanissimi, o forse addirittura mai esistiti, eppure la storia della politica italiana del dopoguerra parte proprio da lì, dall'accesa partecipazione delle masse alla vita politica prima che la politica, per dirla con Guccini, diventasse solo «far carriera». La militanza politica era vissuta con disinteresse e spirito di sacrificio, come ricordano a esempio le storiche divisioni tra democristiani e comunisti immortalate da Guareschi che però trascura un terzo protagonista della politica di allora: i neofascisti, tanto determinati e appassionati quanto ignorati.

Un prezioso aiuto a capire il tempo che fu ci viene da uno studio di Elisabetta Cassina Wolff, docente di Storia contemporanea all'Università di Oslo, la quale, grazie a un contributo dell'università norvegese, ha pubblicato per Mursia un saggio dedicato ai giornali e alle idee dei reduci della Repubblica Sociale Italiana: L'inchiostro dei vinti. Stampa e ideologia neofascista 1945-1953 (pagg. 394, euro 18).

Pur essendo una pubblicazione accademica, il libro è scorrevole e appassionante e arricchisce la conoscenza del mondo degli «esuli in patria», aggiungendosi agli studi di Giuseppe Parlato e ai saggi di Antonio Carioti che in anni recenti hanno fatto luce sul mondo, a lungo negletto, dei fascisti dopo Mussolini. Privi di rappresentanza politica ma ricchi di idee e passione, i neofascisti sopravvissuti alla catastrofe, prima di organizzarsi in un partito politico si confrontano e si aggregano su una miriade di riviste, ricche di appassionati dibattiti ideologici che la Wolff ha pazientemente ricostruito. Sono esaminate raccolte di pubblicazioni rarissime e spesso ignorate dagli storici, che vanno da La Rivolta Ideale a Lotta politica, da Rataplan a Asso di bastoni, da Imperium a Meridiano d'Italia, da Il Rosso e il Nero a Tabula Rasa a tutte le altre che si richiamano esplicitamente all'esperienza fascista, ragione per la quale sono stati esclusi pur interessanti periodici come Pensiero Nazionale del fascista rosso Stanis Ruinas e Pagine Libere degli epigoni dei sindacalisti rivoluzionari.

Nel variegato schieramento neofascista emergono le tre grandi correnti proposte inizialmente da Giorgio Pini e ormai accettate dalla storiografia ufficiale: quella dei «socializzatori», rivoluzionari e di sinistra; quella dei «corporativisti», sostanzialmente conservatori; e infine quella dei «tradizionalisti», seguaci di Evola e ironicamente definiti «figli del Sole».

A giudicare da come sia finita l'esperienza neofascista - seppellita con Rauti tra sputi e schiaffi - si stenta a credere che invece sia nata in mezzo a grandi slanci ideali e solide basi ideali. Il dibattito tra le diverse anime del neofascismo è acceso ma alto, e sin dall'inizio fa piazza pulita dei luoghi comuni che vedono il fascismo come una dittatura totalitaria che si impose con la violenza per agire come braccio armato del capitalismo. Il fascismo è una parte integrante della storia italiana, il tentativo di raggiungere l'effettiva indipendenza nazionale con tutte le forze disponibili e soprattutto con la partecipazione responsabile di tutti gli italiani, senza alcuna differenza, alla costruzione della casa comune. Quanto poi ai contenuti effettivi di questa rivoluzione mancata, non può che stupire il livello elevato del dibattito tra idealisti gentiliani, corporativisti conservatori e tradizionalisti evoliani. Il neofascismo, insomma, seppe andare oltre la rivendicazione del proprio passato e offrì critiche efficaci e proposte interessanti alla democrazia parlamentare di cui profeticamente denunciava l'inevitabile trasformazione in partitocrazia corrotta.

Il dibattito ideologico tra le varie anime fu intenso, esplicito e spesso sincero fino alla brutalità, come dimostra la critica di Julius Evola verso l'eccessivo opportunismo del Msi, che già nel 1953 era guidato, secondo il filosofo, da politicanti incapaci di guardare aldilà di mete contingenti. Il modello da seguire, suggeriva l'autore del celebre Gli uomini e le rovine, doveva invece essere il Partito Comunista Italiano, una forza organizzata dotata di mezzi e denaro, con un notevole peso elettorale e soprattutto una chiara e precisa visione del mondo che pretendeva, e otteneva, una granitica e intransigente fedeltà alle idee professate. Altri tempi, altri uomini, stesse rovine.

(di Luca Gallesi)

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