Ci fu un tempo in cui la politica era
scontro di passioni e confronto di visioni; ci fu un tempo in cui i
militanti sacrificavano volentieri al partito tempo e denaro; ci fu un
tempo in cui la ricchezza delle idee era inversamente proporzionale alla
disponibilità di mezzi.
Anche a quel tempo l'impegno politico
poteva aprire le porte della galera, ma solo per reati d'opinione o in
conseguenza di una militanza troppo vivace e certamente non per furto,
appropriazione indebita o truffa. Sembrano tempi lontanissimi, o forse
addirittura mai esistiti, eppure la storia della politica italiana del
dopoguerra parte proprio da lì, dall'accesa partecipazione delle masse
alla vita politica prima che la politica, per dirla con Guccini,
diventasse solo «far carriera». La militanza politica era vissuta con
disinteresse e spirito di sacrificio, come ricordano a esempio le
storiche divisioni tra democristiani e comunisti immortalate da
Guareschi che però trascura un terzo protagonista della politica di
allora: i neofascisti, tanto determinati e appassionati quanto ignorati.
Un prezioso aiuto a capire il tempo che fu ci viene da uno studio di
Elisabetta Cassina Wolff, docente di Storia contemporanea all'Università
di Oslo, la quale, grazie a un contributo dell'università norvegese, ha
pubblicato per Mursia un saggio dedicato ai giornali e alle idee dei
reduci della Repubblica Sociale Italiana: L'inchiostro dei vinti. Stampa
e ideologia neofascista 1945-1953 (pagg. 394, euro 18).
Pur essendo una pubblicazione accademica, il libro è scorrevole e
appassionante e arricchisce la conoscenza del mondo degli «esuli in
patria», aggiungendosi agli studi di Giuseppe Parlato e ai saggi di
Antonio Carioti che in anni recenti hanno fatto luce sul mondo, a lungo
negletto, dei fascisti dopo Mussolini. Privi di rappresentanza politica
ma ricchi di idee e passione, i neofascisti sopravvissuti alla
catastrofe, prima di organizzarsi in un partito politico si confrontano e
si aggregano su una miriade di riviste, ricche di appassionati
dibattiti ideologici che la Wolff ha pazientemente ricostruito. Sono
esaminate raccolte di pubblicazioni rarissime e spesso ignorate dagli
storici, che vanno da La Rivolta Ideale a Lotta politica, da Rataplan a
Asso di bastoni, da Imperium a Meridiano d'Italia, da Il Rosso e il Nero
a Tabula Rasa a tutte le altre che si richiamano esplicitamente
all'esperienza fascista, ragione per la quale sono stati esclusi pur
interessanti periodici come Pensiero Nazionale del fascista rosso Stanis
Ruinas e Pagine Libere degli epigoni dei sindacalisti rivoluzionari.
Nel variegato schieramento neofascista emergono le tre grandi
correnti proposte inizialmente da Giorgio Pini e ormai accettate dalla
storiografia ufficiale: quella dei «socializzatori», rivoluzionari e di
sinistra; quella dei «corporativisti», sostanzialmente conservatori; e
infine quella dei «tradizionalisti», seguaci di Evola e ironicamente
definiti «figli del Sole».
A giudicare da come sia finita l'esperienza neofascista - seppellita
con Rauti tra sputi e schiaffi - si stenta a credere che invece sia nata
in mezzo a grandi slanci ideali e solide basi ideali. Il dibattito tra
le diverse anime del neofascismo è acceso ma alto, e sin dall'inizio fa
piazza pulita dei luoghi comuni che vedono il fascismo come una
dittatura totalitaria che si impose con la violenza per agire come
braccio armato del capitalismo. Il fascismo è una parte integrante della
storia italiana, il tentativo di raggiungere l'effettiva indipendenza
nazionale con tutte le forze disponibili e soprattutto con la
partecipazione responsabile di tutti gli italiani, senza alcuna
differenza, alla costruzione della casa comune. Quanto poi ai contenuti
effettivi di questa rivoluzione mancata, non può che stupire il livello
elevato del dibattito tra idealisti gentiliani, corporativisti
conservatori e tradizionalisti evoliani. Il neofascismo, insomma, seppe
andare oltre la rivendicazione del proprio passato e offrì critiche
efficaci e proposte interessanti alla democrazia parlamentare di cui
profeticamente denunciava l'inevitabile trasformazione in partitocrazia
corrotta.
Il dibattito ideologico tra le varie anime fu intenso, esplicito e
spesso sincero fino alla brutalità, come dimostra la critica di Julius
Evola verso l'eccessivo opportunismo del Msi, che già nel 1953 era
guidato, secondo il filosofo, da politicanti incapaci di guardare aldilà
di mete contingenti. Il modello da seguire, suggeriva l'autore del
celebre Gli uomini e le rovine, doveva invece essere il Partito
Comunista Italiano, una forza organizzata dotata di mezzi e denaro, con
un notevole peso elettorale e soprattutto una chiara e precisa visione
del mondo che pretendeva, e otteneva, una granitica e intransigente
fedeltà alle idee professate. Altri tempi, altri uomini, stesse rovine.
(di Luca Gallesi)
Nessun commento:
Posta un commento