sabato 3 novembre 2012

Pino Rauti e la destra diversa


Pino Rauti è stato il simbolo vivente della complessità della destra italiana. La scarsa dimestichezza del giornalismo politico del nostro Paese ad affrontare i personaggi «cruciali» della vita pubblica, soprattutto quando sono difficili da incasellare nelle gabbie ideologiche, lascia spazio all'incomprensione o, peggio, alla rimozione. È accaduto a Rauti, intellettuale di natura gramsciana (tanto per sfuggire alle definizioni scontate), che con la sua ostinata capacità di attirarsi i fulmini demolitori dell'establishment politico e mediatico, ha testimoniato il primato della cultura in politica a spese del piccolo cabotaggio elettoralistico e partitocratico. In questo senso egli ha riassunto la sua militanza per oltre sessant'anni finendo per rappresentare quella certa idea della destra che confonde gli osservatori non meno che la maggior parte di coloro che nella destra stessa pure si riconoscono o si sono riconosciuti. 

La sua fiera «diversità» Rauti l'ha dispiegata tutta nel perimetro dell'irregolarità, il ché gli ha procurato notevoli fraintendimenti che tuttavia non lo hanno mai fatto deflettere dalla convinzione maturata fin da giovanissimo: la necessità, cioè, di coniugare i valori tradizionali con la «questione sociale» in una sintesi che oggi potremmo arditamente definire «metapolitica» che immaginava a fondamento di una Repubblica pacificata e modellata secondo i criteri della partecipazione e del decisionismo. Si fa presto a liquidare Rauti come un «incendiario d'anime», per usare la forte e suggestiva espressione che la Pravda - niente di meno - coniò per lui nel 1979 quando perfino in Unione Sovietica ci si accorse che dalle idee rautiane, ben articolate nell'ambito di giovani politici che erano anche intellettuali, e veicolate da un giornale che egli aveva appena fondato, Linea, poteva venir fuori una destra non convenzionale, ma alternativa a quella stereotipata dei perbenismi in voga e un po' parruccona, funzionale ai ceti borghesi e rassicurante lo stesso sistema dei partiti. 

Una destra «rivoluzionaria», insomma, gravida di idee e capace di una suprema apostasia: la negazione delle virtù plebee in nome di una paradossale aristocraticità sociale, più vicina alla concezione di un George Sorel e del sindacalismo che ne discendeva che ad una destra tutta «legge e ordine» il cui conservatorismo si esauriva nel perimetro quieto dell'opposizione parlamentare. Rauti ha tentato, in parte riuscendoci, con le sue iniziative politiche e culturali, con le sue riviste, i suoi libri (comunque la si pensi resteranno fondamentali «Le idee che mossero il mondo» e la «Storia del fascismo» in cinque volumi scritta insieme con Rutilio Sermonti), i suoi centri di studio e di riflessione che raccolsero la gioventù più reattiva e anticonformista della destra dalla fine degli anni Sessanta in poi. La complessità di una destra che si richiamava non al fascismo in quanto tale, ma al più vasto mondo intellettuale tradizional-conservatore, le cui ascendenze evoliane innanzitutto erano innegabili, è testimoniata proprio dall'azione formatrice di Rauti per il quale le nuove scienze e l'ambientalismo, il radicalismo istituzionale ed il popolarismo localistico, le tematiche giovanili - dalla musica alternativa all'arte d'avanguardia, dalle problematiche femminili alla rilettura dei fenomeni aggregativi da cui discesero i famosi Campi Hobbit, dalla narrativa fantastica alla fumettistica che era appannaggio soltanto della sinistra, tanto per citare alcune espressioni che contribuirono a svecchiare la destra italiana - e la rivisitazione del solidarismo in una chiave che prevedeva il superamento della lotta di classe e la messa in discussione del capitalismo finanziario, fornirono al mondo che si ritrovava nel Movimento Sociale Italiano un vero e proprio arsenale di idee per combattere, come si diceva allora, la «buona battaglia». 

Rauti è stato il motore di tutto questo fermento di innovazioni che neppure la più dura, accanita, mostruosa persecuzione politica e giudiziaria a cui è stato sottoposto per circa quarant'anni, ha frenato. E di questa pagina della storia personale di Rauti che s'intreccia con quelle più controverse e problematiche della storia repubblicana, un giorno si dovrà dare conto, partendo dall'assunto che le idee non si processano e non si possono costruire mostri funzionali ad una strategia elaborata in chissà quali santuari che avrebbe dovuto destabilizzare il sistema allo scopo di stabilizzare assetti di potere che si facevano la guerra con gli strumenti che purtroppo abbiamo conosciuto. Legioni di inquisitori e di pistaroli hanno provato a distruggere la credibilità di Rauti, la sua onorabilità, il suo stesso mondo politico, ma non ci sono riusciti. Gli innumerevoli processi che ha affrontato non soltanto non lo hanno piegato, ma lo hanno reso più forte: è sempre stato assolto, uscendo indenne dalle numerose inchieste che, come testimoniarono i suoi colleghi del Tempo, fin dal 1972, nulla avevano a che fare con un giornalista che amava l'impegno politico e lo interpretava come un assoluto dovere civile anche quando le «pericolose» o «rischiose» idee che professava potevano costargli caro. 

Nonostante tutto le innumerevoli volte che è stato eletto deputato, parlamentare europeo e rappresentante del nostro Paese nel Consiglio d'Europa, dimostrano che la fiducia che gli veniva accordata - condivisa peraltro da tutto il suo partito - era più forte dei pregiudizi. Rauti, comunque, è sempre stato un'anima inquieta. Fin da quando giovanissimo aderì alla Repubblica Sociale Italiana e fu poi imprigionato nei campi di concentramento nordafricani maturò la convinzione che il suo sarebbe stato il destino di un «agitatore». Tra i giovani aderenti al Msi della prima ora, mostrò immediatamente insofferenza anche verso un ritualismo neofascista nostalgico e privo di spessore spirituale, tanto da far parte del «commando» dei Far, occultamente diretto da Pino Romualdi, accusato di attentati sovversivi (per la cronaca, non un capello venne torto a nessuno) e mandato alla sbarra nel 1951 insieme con tanti altri rivoluzionari, il più illustre dei quali, si presentò al Palazzaccio in carrozzella, accompagnato e difeso gratuitamente dal più grande avvocato del Novecento, Francesco Carnelutti: era Julius Evola la cui «Autodifesa» resta tra i testi più significativi per comprendere la stagione dei vinti nella Repubblica democratica ed antifascista. In quelle circostanze, nel mentre la lotta politica si faceva più dura, Rauti maturò la convinzione che il parlamentarismo nel quale si stava confinando il Msi lo avrebbe condannato all'estinzione. 

Promosse il Centro Studi Ordine Nuovo, che, contrariamente ad una vulgata menzognera, nulla aveva di «sovversivo»; condusse parallelamente la polemica politica e indirizzò verso la formazione culturale numerosi giovani. Poi la riconciliazione con il Msi di Almirante e l'ambiziosa battaglia per «sfondare a sinistra» convinto che soltanto la destra nazionale e sociale poteva dare al Paese una conformazione nuova. Ne divenne segretario nel 1990, ma anche per giochi di potere interni la sua esperienza al vertice del partito durò poco. 

Molto ci sarebbe da dire di quella confusa stagione che, comunque, resta la più fervida dopo il tempo almirantiano segnato dalla Grande Destra. Rauti se n'è andato dopo i suoi amici con cui ha vissuto il sogno della rivoluzione impossibile: Giano Accame, Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi. Tutti protagonisti di una destra incompresa dalle riserve ancora ricche per chi volesse penetrarla ad là delle coltri nebbiose che impediscono una seria visione politica. Lo raccomandava Rauti soprattutto ai suoi giovani amici: non disperdere il raccolto di una storia poiché senza radici non vi può essere avvenire. È ciò che di più prezioso rimane di lui in chi lo ha ammirato, gli ha voluto bene e perfino in chi lo ha contestato. Comunque la si pensi, al suo cospetto, oggi si deve ammettere che Rauti è stato un uomo della destra complessa, appunto, non convenzionale, impastata di certezze e di contraddizioni e perciò viva, che, non merita di essere liquidata come il frutto di una marginale ideologia.

(di Gennaro Malgieri)

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