Comunque lo si guardi, è un disastro.
L'opposizione che si spacca nel momento in cui deve scegliere il suo
nuovo leader, la maggioranza di governo che vede la sua popolarità in
caduta libera e la sua linea economica sottoposta al fuoco di fila della
stampa liberista, continentale e insulare, leggi Germania e Gran
Bretagna e, quel che è peggio, delle agenzie internazionali di rating,
discutibili certo, ma non per questo ininfluenti.
A pochi mesi dalle presidenziali che
sancirono la sconfitta di Nicolas Sarkozy e la vittoria di François
Hollande, la Francia è insomma nel marasma e sempre più ci si rende
conto che non potendo nessuna nazione fare una politica nazionale, che
si vada da destra a sinistra, o viceversa, non cambia niente. Siamo
tutti prigionieri dell'Europa, anche quelli come i francesi che si
illudevano di fare parte dell'amministrazione carceraria.
Cominciamo dai guai in casa dell'Ump, il partito che dieci anni fa fu
chiamato a raccogliere liberal-gollisti, centristi e destra e portò poi
Sarkozy alla presidenza della Repubblica. Dopo la mancata rielezione di
quest'ultimo e il suo, più o meno forzato, ritiro dalla scena politica e
partitica, la corsa alla nuova leadership era ristretta a due nomi,
François Fillon, già primo ministro del presidente sconfitto, e Jean
François Copé, già segretario del partito. Ha vinto quest'ultimo, per
nemmeno cento voti (87.388 contro 87.290), ma la lotta è stata così
aspra, velenosa, con reciproche accuse di furti e di brogli - ubuesque
l'ha definita Le Monde rievocando quel Père Ubu di Jarry, simbolo di
grottesca pazzia - che molti si chiedono se l'Ump sopravviverà a sé
stesso. Oltretutto, Copé è accreditato di una linea politica più a
destra rispetto allo sfidante sconfitto, un po' nell'onda dell'ultimo
Sarkozy quando andò a cercare i voti lepenisti. Bisognerà però vedere
se, nei cinque anni che separano dalle prossime presidenziali, questa
«virata» dragherà consensi dal partito di Marine Le Pen o conforterà
l'elettorato nell'idea che se c'è già una destra estrema ormai
conquistata alla democrazia, tanto vale metterla alla prova e non
accontentarsi di un'imitazione.
Naturalmente, l'implosione dell'Ump è foriera di un possibile ritorno
sulla scena dello stesso Sarkozy, da alcuni osservatori considerato
paradossalmente il vincitore morale di una competizione fratricida.
Senza di lui, dicono, non c'è leader e rischia di non esserci nemmeno un
partito. Se sarà così, quel che è certo è che nei tempi lunghi gli
toccherà cercare di rimettere insieme i cocci di una spaccatura così
eclatante, ma intanto, nei tempi brevi, se la deve comunque vedere con
l'affaire Bettencourt, quel complicato intreccio di soldi privati e
malaffare pubblico e politico per il quale la procura di Bordeaux l'ha
chiamato a testimoniare.
Vediamo ora l'altro fronte, quello di chi governa. La popolarità di
Hollande è attualmente intorno al 35/36 per cento: solo Chirac riuscì a
fare di peggio, nel 1995, anche lui appena sei mesi dopo essere stato
eletto. I francesi rinfacciano al neo-presidente di aver firmato il
nuovo trattato sulla governance europea, di aver aumentato l'Iva e messo
nuove tasse nonostante le assicurazioni contrarie date in proposito. I
media tedeschi hanno preso a definire la Francia «il malato d'Europa»,
l'inglese Economist se n'è uscito mettendo in copertina una baguette
fasciata con il tricolore e sormontata da una miccia accesa: «La bomba a
orologeria nel cuore dell'Europa» era il titolo. Come se non bastasse,
ieri Moody's ha declassato la Francia, replicando in pratica ciò che
Standard and Poor's aveva fatto all'inizio dell'anno: dalla tripla A
l'ha fatta scendere a AA1, con previsione negativa per i mesi a venire.
Che cosa si rimprovera al governo di Hollande? «Perdita di
competitività, graduale ma continua, rigidità del mercato del lavoro,
dei beni e dei servizi, diminuzione della possibilità di resistere a
nuovi choc della zona euro», visti i suoi importanti legami commerciali e
bancari con i Paesi fragili dell'Unione monetaria.
Una volta all'Eliseo, insomma, Hollande ha dovuto prendere atto che i
margini di manovra politica da lui evocati in campagna elettorale, non
esistevano: sono i poteri finanziari ad avere in mano gli Stati
nazionali, e non c'è alternativa. Tanto era stato velleitario il
tentativo del suo predecessore di far passare l'immagine di un'Europa a
guida franco-tedesca, tanto si è rivelata falsa l'immagine della «forza
tranquilla» del successore che rimetteva al suo posto la tracotanza
della cancelliera Merkel.
Va del resto ricordato che sei mesi fa non fu Hollande a vincere le
elezioni presidenziali, quanto Sarkozy a perderle. Il primo in sostanza
divenne presidente per gli errori del secondo, caratteriali e politici,
un misto di egolatria e scarso senso di opportunità, la fuga in avanti
nella politica estera (la sciagurata guerra di Libia), come diversivo di
una politica interna che non andava da nessuna parte, il combinato
disposto di una volontà di potenza megalomane quanto deficitaria. Un
leader incapace, vanitoso e arrogante, questo si rivelò Sarkozy.
Hollande, al contrario, era un buon burocrate, a proprio agio nei di
corridoi di partito, tenace, carrierista, ma non decisionista, un uomo
senza spigoli e quindi in grado di assorbire i colpi, ma allo stesso
tempo incapace di sferrarne di decisivi. Un politico di transizione,
insomma, non di rottura, adatto per delle rotte tranquille, quelle nelle
quali il comandante di una nave si limita a far osservare ai suoi
passeggeri le più elementari norme di sicurezza e intanto li invita a
guardare lo splendore dei tramonti dal ponte di coperta. Oggi che tutta l'Europa è in tempesta, serve altro, soprattutto servirebbe qualcuno in grado cambiare rotta.
(di Stenio Solinas)
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