Il giornalista Stenio Solinas, classe 1951, una giovinezza nella nuova destra e oggi inviato del Giornale dopo esserne stato per anni il responsabile delle pagine culturali, ha la sua idea letteraria, ma non per questo meno concreta, di che cosa sia il fallimento di una generazione. Per spiegarcelo, deve tornare “grosso modo fino all’età che ha oggi Renzi, quando vivevo la sindrome che chiamerei ‘di Fabrizio del Dongo’. E’ il personaggio della ‘Certosa di Parma’ di Stendhal che a diciassette anni si innamora di Napoleone non più imperatore e partecipa alla battaglia di Waterloo, dove vede Bonaparte passare al galoppo. Non capisce nemmeno che cosa stia succedendo, ma basta quel momento – non di gloria ma di partecipazione a qualcosa più grande di lui – a farne un disadattato nel mondo che si prepara; continua ad agire nell’Europa della Restaurazione come se fosse nel tempo, che per l’età gli era stato precluso, delle grandi imprese e dei grandi ideali. E’ il vinto di una guerra che non ha nemmeno vissuto, e che non si accorge di essere un vinto. Io sono stato questo. Non c’era nulla dei gusti e delle preferenze di miei coetanei che mi interessasse, quando avevo vent’anni: Re nudo, i macondini, cultura psichedelica, rock… Non avevo pianto per i Kennedy o per Papa Giovanni, mi annoiavano lo strutturalismo e la narrativa ispano americana, l’impegno nel cinema mi suonava falso, la sperimentazione teatrale sembrava una punizione più che un piacere. Mi sembrava che tra le due guerre fosse già stato detto tutto, mentre l’Italia dei miei vent’anni – l’Italia ‘antifascista’, di cui non facevo parte – mi sembrava ridicola, macchiettistica.
Per esorcizzare il dramma dell’8 settembre ci siamo specializzati nella farsa, in una visione dell’Italia come paese senza ambizioni nazionali ma faticatore, un po’ Arlecchino un po’ Pulcinella. Un simpatico paese senza carattere, governato da un partito che prendeva ordini dal Vaticano e da un altro che prendeva ordini da Mosca, e dove era più importante gestirte il ministero delle Poste che quello degli Esteri. Nel fallimento della Prima Repubblica io non mi sono mai sentito coinvolto, perché riguardava un’Italia fatta dagli altri”.
Il fallimento imputato ai baby boomer riguarda quindi solo la sinistra? “Ho accarezzato l’illusione che dal ’93 ci fosse l’opportunità di rifondare un paese, e che il crollo delle ideologie potesse eliminare certi pregiudizi. E invece il disastro è stato assoluto. Mi sono trovato circondato da quei personaggi che Chateubriand nelle ‘Memorie d’oltretomba’ descrive come coloro che non hanno dimenticato nulla e non hanno imparato nulla. Il mondo degli ex esclusi, nell’ansia di recuperare, ha fattopeggio di chi ha governato nel trentennio precedente, e illumina il paradosso di una destra che, in Italia, non è mai esistita”.
Nonostante questo giudizio tombale su quanto è avvenuto negli ultimi vent’anni, Stenio Solinas ritiene “insidiosi e per forza approssimativi i discorsi sui fallimenti generazionali. Posso dire che, così come la “sindrome del Dongo’ è stata sintomatica per la generazione della mia parte politica, dall’altra parte penso sia utile rileggersi l’‘Educazione sentimentale’. Flaubert raccontava nel 1869 una storia del 1848, ai tempi della rivoluzione borghese di Luigi Filippo. Rappresenta le frustrazioni, le stupidità, le illusioni che ruotano intorno a quella rivoluzione, dove i protagonisti (i Deslauriers, i Regimbart, i Sénécal) che credono di governare gli eventi sono semplici pupazzi. Il loro massimo rappresentante è Monsieur Homais, il farmacista velleitario e cinico di ‘Madame Bovary’, prototipo del moderno ed eterno cretino di sinistra. Deslauriers ha invece la sindrome del redattore capo, che ordina gli articoli per la gioia di tagliarli e rifiutarli. Si esalta per ogni rivoluzione ma farà il suo matrimonio d’interesse e finirà per fare il segretario di un sultano. Il fallimento è questo: chi doveva bruciare il Palazzo d’inverno, oggi ci sta seduto dentro”. Ma, per arrivare ai “rottamatori”, dice Solinas, “e al di là dei loro buoni propositi, non credo che la classe politica alla quale appartiene Matteo Renzi andrà da nessuna parte. Ci aspetta una copia del presente con un po’ di populismo in meno, un po’ di ritorno della Prima Repubblica in più, una sorta di centro che giocherà su più aggregati. La crisi che stiamo vivendo è molto più grande rispetto alle dimensioni – e alle colpe – anagrafiche.
Noi che eravamo bambini negli anni Cinquanta abbiamo vissuto la dolcezza del vivere, ma era un frutto di quel che c’era stato prima. Reggeva ancora un’idea di stato, in una logica in cui la guerra perduta era qualcosa di abbastanza recente da impedire che qualcuno potesse trasformare un’accusa politica in accusa morale, come invece succederà dopo la fine degli anni Sessanta. La letale divisione tra buoni e cattivi si è protratta e non credo che la rottamazione generazionale potrà cambiare alcunché. Il fallimento della generazione di cui si sta parlando lo vedo nell’essersi scelta questa visione dell’Italia divisa in buoni e cattivi, o comunque divisa tra Arlecchino e Pulcinella, perché terrorizzata dal fatto che prima ci fossero stati l’Uomo Nero e Capitan Fracassa. Scegliersi il servo per paura del dittatore non si è rivelato un grande affare. Il fallimento nasce da più lontano, dall’idea che dovessimo farci dimenticare come nazione. Berlusconi non è stato altro che il protagonista del ‘Sorpasso’ che arriva al potere politico. E anche Renzi, mi ricorda Calandrino, una maschera da commedia all’italiana”.
Per esorcizzare il dramma dell’8 settembre ci siamo specializzati nella farsa, in una visione dell’Italia come paese senza ambizioni nazionali ma faticatore, un po’ Arlecchino un po’ Pulcinella. Un simpatico paese senza carattere, governato da un partito che prendeva ordini dal Vaticano e da un altro che prendeva ordini da Mosca, e dove era più importante gestirte il ministero delle Poste che quello degli Esteri. Nel fallimento della Prima Repubblica io non mi sono mai sentito coinvolto, perché riguardava un’Italia fatta dagli altri”.
Il fallimento imputato ai baby boomer riguarda quindi solo la sinistra? “Ho accarezzato l’illusione che dal ’93 ci fosse l’opportunità di rifondare un paese, e che il crollo delle ideologie potesse eliminare certi pregiudizi. E invece il disastro è stato assoluto. Mi sono trovato circondato da quei personaggi che Chateubriand nelle ‘Memorie d’oltretomba’ descrive come coloro che non hanno dimenticato nulla e non hanno imparato nulla. Il mondo degli ex esclusi, nell’ansia di recuperare, ha fattopeggio di chi ha governato nel trentennio precedente, e illumina il paradosso di una destra che, in Italia, non è mai esistita”.
Nonostante questo giudizio tombale su quanto è avvenuto negli ultimi vent’anni, Stenio Solinas ritiene “insidiosi e per forza approssimativi i discorsi sui fallimenti generazionali. Posso dire che, così come la “sindrome del Dongo’ è stata sintomatica per la generazione della mia parte politica, dall’altra parte penso sia utile rileggersi l’‘Educazione sentimentale’. Flaubert raccontava nel 1869 una storia del 1848, ai tempi della rivoluzione borghese di Luigi Filippo. Rappresenta le frustrazioni, le stupidità, le illusioni che ruotano intorno a quella rivoluzione, dove i protagonisti (i Deslauriers, i Regimbart, i Sénécal) che credono di governare gli eventi sono semplici pupazzi. Il loro massimo rappresentante è Monsieur Homais, il farmacista velleitario e cinico di ‘Madame Bovary’, prototipo del moderno ed eterno cretino di sinistra. Deslauriers ha invece la sindrome del redattore capo, che ordina gli articoli per la gioia di tagliarli e rifiutarli. Si esalta per ogni rivoluzione ma farà il suo matrimonio d’interesse e finirà per fare il segretario di un sultano. Il fallimento è questo: chi doveva bruciare il Palazzo d’inverno, oggi ci sta seduto dentro”. Ma, per arrivare ai “rottamatori”, dice Solinas, “e al di là dei loro buoni propositi, non credo che la classe politica alla quale appartiene Matteo Renzi andrà da nessuna parte. Ci aspetta una copia del presente con un po’ di populismo in meno, un po’ di ritorno della Prima Repubblica in più, una sorta di centro che giocherà su più aggregati. La crisi che stiamo vivendo è molto più grande rispetto alle dimensioni – e alle colpe – anagrafiche.
Noi che eravamo bambini negli anni Cinquanta abbiamo vissuto la dolcezza del vivere, ma era un frutto di quel che c’era stato prima. Reggeva ancora un’idea di stato, in una logica in cui la guerra perduta era qualcosa di abbastanza recente da impedire che qualcuno potesse trasformare un’accusa politica in accusa morale, come invece succederà dopo la fine degli anni Sessanta. La letale divisione tra buoni e cattivi si è protratta e non credo che la rottamazione generazionale potrà cambiare alcunché. Il fallimento della generazione di cui si sta parlando lo vedo nell’essersi scelta questa visione dell’Italia divisa in buoni e cattivi, o comunque divisa tra Arlecchino e Pulcinella, perché terrorizzata dal fatto che prima ci fossero stati l’Uomo Nero e Capitan Fracassa. Scegliersi il servo per paura del dittatore non si è rivelato un grande affare. Il fallimento nasce da più lontano, dall’idea che dovessimo farci dimenticare come nazione. Berlusconi non è stato altro che il protagonista del ‘Sorpasso’ che arriva al potere politico. E anche Renzi, mi ricorda Calandrino, una maschera da commedia all’italiana”.
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