La Waterloo del Pd è il punto d’arrivo di una tormentata traversata del deserto. Percorso accidentato lungo il quale gli smarriti epigoni del Pci e i cattolici-democratici «margheritini» si sono incontrati per dar vita a un soggetto unitario il cui vizio d’origine è stata la «fusione a freddo»: il centrosinistra moribondo non è stato rivitalizzato da un’operazione abborracciata e contraddittoria. Questa esperienza, alla quale gli stessi protagonisti oggi guardano sgomenti, è stata segnata da diffidenze perfidamente coltivate e da risentimenti che hanno condizionato rapporti umani e strategie politiche. Una miscela esplosiva che più volte nel corso degli ultimi anni - a tacere dei fallimenti dell’Ulivo e dell’Unione prodiani - ha messo a repentaglio il Pd segnato da povertà ideale e culturale, molta supponenza e divorato da ambizioni inappagate di singoli e gruppi. La resa dei conti, sempre rimandata, tra le varie fazioni sedimentatesi nel partito fino a renderlo un vociante sinedrio nel quale il «tutti contro tutti» è stata l’unica regola osservata rigidamente, è avvenuta nel momento politicamente più complicato della vita della Repubblica. Si è, infatti, approfittato dell’estrema debolezza della politica, incapace di rinnovarsi e di fronteggiare crisi economica e malessere sociale, per scatenare l’inferno al proprio interno in occasione dell’elezione del capo dello Stato. A Montecitorio è come se i Democratici avessero celebrato il loro congresso piuttosto che concorrere all’individuazione di una personalità ampiamente condivisa da mandare al Quirinale.
Comunque si vorrà «leggere» l’autodistruzione del Pd, si converrà nel giudicare altamente irresponsabile l’atteggiamento di questo partito, guidato da una nomenklatura palesemente inadeguata e impresentabile, tale da costituire un serio problema per la nostra democrazia. Rifiutandosi di accettare il responso elettorale che suggeriva ben altro approccio alla crisi, Bersani, assecondato dai suoi più stretti collaboratori e da parlamentari «nuovisti» che nel vecchio Pci non avrebbero fatto neppure gli attacchini, in due mesi ha sfidato il buon senso e si messo sotto i piedi le regole più elementari della politica umiliando, oltretutto, le stesse istituzioni.
Animato dall’ostinazione di diventare premier senza avere i numeri per costituire una qualsivoglia maggioranza al Senato, ha blandito i «grillini» facendo eleggere presidenti dei due rami del Parlamento personaggi a loro graditi. Ha perso quaranta giorni prima di abbandonare l’illusione di prendere possesso di Palazzo Chigi producendo una rottura col presidente della Repubblica che è stato costretto a «inventarsi» i saggi per guadagnare tempo e arrivare all’elezione del suo successore. Su questo appuntamento «cruciale» Bersani è caduto definitivamente: ha corteggiato tutti, grillini, Pdl, Lega, Monti e ha bruciato in due giorni i padri fondatori del Pd stesso, Marini e Prodi. Adesso è nudo. La sua classe dirigente, apprese le sue dimissioni e quelle della Bindi, si è sbandata.
Dalle 19 di venerdì 19 aprile il Pd non c’è più. Sopravvive come sigla appiccicata su un contenitore vuoto. Della sua dissoluzione non porta la responsabilità soltanto Bersani, naturalmente. Anche Renzi, il furbetto del partitone, avrebbe qualcosa da spiegare. Ha lavorato per se stesso (s’era capito da subito) come un partitocrate d’antico stampo, alla faccia del rinnovamento. Cinicamente ha affondato Marini e forse Prodi dopo averlo proposto. Non creda di salvarsi dal naufragio.
La crisi del Pd, culturale e politica, è irrimediabile col personale che si ritrova. Va rifondato come soggetto di sinistra passando attraverso una salutare scissione che, peraltro, è nell’ordine delle cose. Si è capito che post-comunisti e post-democristiani, lacerati nelle rispettive file da opzioni contrastanti e da personalismi insanabili, non sono più in grado di riattaccare i cocci. Un «nuovo inizio» s’impone. Sarà Fabrizio Barca, certamente il più dotato intellettualmente e politicamente tra coloro che non portano nessuna responsabilità nella disfatta, a costruire il soggetto della sinistra, fondato su una chiara linea strategica? Tutto lo fa pensare. Certo è che un’altra traversata del deserto si profila davanti a quel che resta del Pd. Intanto il Paese non può aspettare. Si facciano, dunque, da parte rottamati e rottamatori. Una storia è finita. E resta ben poco da «narrare», se non lo sconcerto degli italiani e la figuraccia esportata in tutto il mondo.
Comunque si vorrà «leggere» l’autodistruzione del Pd, si converrà nel giudicare altamente irresponsabile l’atteggiamento di questo partito, guidato da una nomenklatura palesemente inadeguata e impresentabile, tale da costituire un serio problema per la nostra democrazia. Rifiutandosi di accettare il responso elettorale che suggeriva ben altro approccio alla crisi, Bersani, assecondato dai suoi più stretti collaboratori e da parlamentari «nuovisti» che nel vecchio Pci non avrebbero fatto neppure gli attacchini, in due mesi ha sfidato il buon senso e si messo sotto i piedi le regole più elementari della politica umiliando, oltretutto, le stesse istituzioni.
Animato dall’ostinazione di diventare premier senza avere i numeri per costituire una qualsivoglia maggioranza al Senato, ha blandito i «grillini» facendo eleggere presidenti dei due rami del Parlamento personaggi a loro graditi. Ha perso quaranta giorni prima di abbandonare l’illusione di prendere possesso di Palazzo Chigi producendo una rottura col presidente della Repubblica che è stato costretto a «inventarsi» i saggi per guadagnare tempo e arrivare all’elezione del suo successore. Su questo appuntamento «cruciale» Bersani è caduto definitivamente: ha corteggiato tutti, grillini, Pdl, Lega, Monti e ha bruciato in due giorni i padri fondatori del Pd stesso, Marini e Prodi. Adesso è nudo. La sua classe dirigente, apprese le sue dimissioni e quelle della Bindi, si è sbandata.
Dalle 19 di venerdì 19 aprile il Pd non c’è più. Sopravvive come sigla appiccicata su un contenitore vuoto. Della sua dissoluzione non porta la responsabilità soltanto Bersani, naturalmente. Anche Renzi, il furbetto del partitone, avrebbe qualcosa da spiegare. Ha lavorato per se stesso (s’era capito da subito) come un partitocrate d’antico stampo, alla faccia del rinnovamento. Cinicamente ha affondato Marini e forse Prodi dopo averlo proposto. Non creda di salvarsi dal naufragio.
La crisi del Pd, culturale e politica, è irrimediabile col personale che si ritrova. Va rifondato come soggetto di sinistra passando attraverso una salutare scissione che, peraltro, è nell’ordine delle cose. Si è capito che post-comunisti e post-democristiani, lacerati nelle rispettive file da opzioni contrastanti e da personalismi insanabili, non sono più in grado di riattaccare i cocci. Un «nuovo inizio» s’impone. Sarà Fabrizio Barca, certamente il più dotato intellettualmente e politicamente tra coloro che non portano nessuna responsabilità nella disfatta, a costruire il soggetto della sinistra, fondato su una chiara linea strategica? Tutto lo fa pensare. Certo è che un’altra traversata del deserto si profila davanti a quel che resta del Pd. Intanto il Paese non può aspettare. Si facciano, dunque, da parte rottamati e rottamatori. Una storia è finita. E resta ben poco da «narrare», se non lo sconcerto degli italiani e la figuraccia esportata in tutto il mondo.
(di Gennaro Malgieri)
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