martedì 21 maggio 2013

Romualdi e Almirante, morti 25 anni fa. Berlusconi ha divorato l'identità della destra


Venticinque anni fa, a distanza di poche ore, si spengono Pino Romualdi il 21 maggio ed il giorno dopo Giorgio Almirante. La destra italiana perde simultaneamente i suoi riferimenti carismatici. Ma non si sente orfana e nessuno pensa che con la loro scomparsa sia destinata all’estinzione.

Entrambi erano stati i fondatori del Msi nel dicembre 1946, avevano con alterne fortune guidato il partito tra i marosi dell’antifascismo militante, lo avevano fatto diventare un soggetto politico di ragguardevole consistenza elettorale e si erano intestato il suo «rinnovamento» mettendolo, un anno prima, nelle mani del giovane Gianfranco Fini, consapevoli che era venuto il momento di liberare il partito dalle scorie del nostalgismo.

Romualdi ed Almirante erano più avanti della classe dirigente missina al punto di «saltare» due generazioni per assicurare un futuro non marginale alla loro creatura. Ovviamente non avrebbero mai immaginato che in un quarto di secolo l’eredità di quel Movimento sociale si sarebbe dissolta come neve al sole, finendo prima fagocitata da un alleato onnivoro al quale non ha saputo opporre la legittima resistenza che pure ci si attendeva e poi irretita dall’impoliticità di un leader che avrebbe dovuto costruire la nuova destra all’interno del vasto e «plurale» contenitore berlusconiano.

Oggi non rimane più niente del sogno di Pino Romualdi e Giorgio Almirante. A destra c’è il nulla o poco più. In un ventennio, lo spazio di potere dilatatosi davanti ad essa, non è stato riempito di nessun contenuto politico, tanto che al crepuscolo della parabola berlusconiana è più probabile che si ricomponga un centro, vagamente di ispirazione democristiana, che una destra nazionale, solidarista, conservatrice, di stampo europeo.

È mancato quell’interventismo di carattere ideale e culturale, che pure ci si attendeva, da parte di chi aveva dato vita ad Alleanza nazionale, un movimento ambizioso e con le carte in regola per aspirare alla guida del Paese, mettendo le idee a posto, ma senza rinnegare i principi ed i valori fondanti la sua presenza nel panorama politico italiano.

A riprova che privi di cultura politica i partiti possono vivacchiare, agevolati anche dalle favorevoli circostanze, ma poi, in assenza di un progetto identitario forte e riconoscibile sono destinati a scomparire.

Per ciò che concerne la destra, paradossalmente, essa non c’è, eppure c’è. Nel senso che se dal punto di vista parlamentare è irrilevante, esiste nel Paese come un diffuso sentimento politico che attende di essere convogliato in un contenitore che abbia caratteristiche tali da offrire ai contenuti più che un «ricovero» un approdo dal quale ripartire.

È la speranza di molti e, probabilmente, è anche il solo modo per impegnare in «nuovo inizio» gli elementi della diaspora che faticosamente tentano di rimettere insieme ciò che è andato in frantumi. Operazione ad alto rischio con elevatissime probabilità di suscitare aspettative che potrebbero andare deluse, ma che pure va tentata come sostengono coloro che «abitano» le destre e vorrebbero ridurle ad unità superando personalismi e idiosincrasie, consapevoli che la pur problematica ricomposizione non potrebbe prescindere dall’inclusione di tutti coloro che, a diverso titolo, vi si riconoscono.

Non è soltanto un problema di «appartenenza», ma di democrazia. Curiosamente, Romualdi in un articolo sul Secolo d’Italia, ap- parso il 28 agosto 1986, osservava che «non la sinistra è mancata al funzionamento della nostra democrazia, ma la destra. Di sinistra in Italia ce n’è stata e ce n’è fin troppa… È la destra che non c’è».

E concludendo si augurava che essa «deve essere una vera forza politica, capace di essere in concreto una grande e determinante forza di opposizione, ma nello stesso tempo, e non a parole, una vera forza di alternativa». Non immaginava Romualdi che sarebbe diventata pure forza di governo, ma con quali risultati?

Troppo comodo attribuire alla sciagurata scelta di Fini i rovesci della sua parte politica. Tutti sono stati in qualche modo responsabili, a cominciare da coloro che hanno avallato e sostenuto la «fusione a freddo», senza neppure immaginare che operazioni del genere vanno preparate con cura e fatte sedimentare tra gli elettori, tra i militanti e per di più necessitano di giustificazioni culturali che francamente non vi sono state a seguito del discorso del predellino.

L’amalgama tra esperienze diverse riuscì quando si costituì An; ma poi che cosa è stato di quel progetto riformista in senso presidenzialista, delle tendenze statualiste che arditamente s’immaginava che potessero convivere con l’economia sociale di mercato, della partecipazione politica e sociale, del sovranismo e dell’etica della comunità fondata sulla identità nazionale, tematiche agitate a Fiuggi ed accolte coninteresse anche dagli avversari?

Niente di tutto ciò è stato trasformato in organica proposta politica. E poco per volta è sbiadito fino a scomparire. Venticinque anni dopo la morte di Romualdi e di Almirante, la destra si guarda attorno e non si ritrova. O meglio sa che c’è, ma non ha una casa. È tempo che la cerchi cominciando col riannodare i fili di una storia che s’intreccia con quella della nazione. La sua assenza rende oggettivamente più povera la nostra democrazia che non ha bisogno di reduci politici, ma di costruttori di un avvenire possibile.

(di Gennaro Malgieri)

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