Stiamo confondendo la nostra vecchiaia con 
la fine dei tempi? Ovvero sta finendo il nostro tempo e pensiamo - figli
 di un'epoca egocentrica - che finisca il Tempo e arrivi l'Apocalisse? 
Ho avuto questo pensiero irriverente dopo aver letto due libri gemelli 
(eterozigoti) dedicati al Katechon. 
 Li hanno scritti due maturi filosofi, 
Giorgio Agamben - Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi
 (Laterza, pagg. 68, euro 7) - e Massimo Cacciari - Il potere che frena 
(Adelphi, pagg. 211, euro 13). Agamben e Cacciari proseguono da tempo 
due cammini paralleli: uscirono in sincronia con due libri francescani, 
prima che sorgesse un Papa di nome Francesco. Si ispirano ambedue a San 
Paolo e a Carl Schmitt nella sua teologia politica. Affrontano entrambi,
 fuori dalla fede, il doppio tema della Chiesa di Cristo e del Potere 
temporale: il potere che seduce e induce all'Anticristo e il potere che 
frena, ritarda o trattiene dalla rovina, cioè il Katechon. Si pongono 
entrambi il problema della fine dei tempi, il mysterium iniquitatis e 
l'avvento dell'Anticristo che verrà a sedurre coloro che sono morti 
nell'Anima. E si pongono entrambi, senza dare risposte salvifiche, il 
grande tema escatologico, la via della salvezza. Siamo davvero alla fine
 dei tempi o questa percezione già in altre epoche ha pervaso lo spirito
 del tempo e si affaccia a ogni giro di boa?
Vero è che Agamben avverte: l'ultimo giorno è ogni giorno, non solo 
ora, e dunque non solo quest'epoca che stiamo vivendo. La stessa cosa, 
in fondo, suggerisce Cacciari sottolineando che non è solo la condizione
 storica che stiamo vivendo a indurci alla riflessione escatologica, ma 
più radicalmente è la condizione umana, tragica in sé e non solo adesso.
La visione escatologica si nutre però degli eventi eccezionali che 
hanno scosso di recente la Chiesa; le dimissioni del papa teologo, la 
profezia di Celestino, poi l'avvento del papa francescano, la 
compresenza dei due papi nel Vaticano, i tormenti della fede. Agamben 
considera un atto di coraggio le dimissioni di Ratzinger, ma alla fine 
argomenta in modo laico, mediante le categorie di legalità e 
legittimità, filtrate da Schmitt, che servono a delineare il potere e le
 sue fonti, ma sono estranee alla missione evangelica e pastorale di un 
pontefice, non affrontano l'irrevocabilità del ruolo di Santo Padre e 
non considerano il significato religioso e spirituale della Tradizione. 
Agamben oppone la Chiesa escatologica alla Chiesa immersa nella storia, o
 come egli scrive, nell'economia. E giudica la rinuncia di Ratzinger 
come un'affermazione della prima contro la seconda. In realtà, lo stesso
 Schmitt, così citato da Agamben come da Cacciari, ci ricorda la 
visibilità della Chiesa romana, e non oppone la prima alla seconda ma 
considera la Chiesa spirituale incarnata nel suo corpo storico e 
istituzionale.
Agamben invece sostiene che la Chiesa abbia una struttura bipartita, 
metà «decora», appartenente a Cristo, e metà «fusca», appartenente al 
diavolo. È una visione gnostica della Chiesa, il cui corpo ecclesiale 
diventa tomba della sua spiritualità, non sposa di Cristo ma del funesto
 demiurgo. Liberandosi del corpo ecclesiale, Ratzinger ha avuto «il 
coraggio di mantenersi in relazione con la propria fine». Ma può farlo 
un cattolico investito dal Santo Apostolato di guidare la Chiesa? È una 
scelta ascetica e monacale, si dirà. Ma non c'è il rischio che per un 
Papa suoni come una scelta di tipo protestante, abdicare al pontificato 
per dedicarsi al soliloquio interiore con la propria coscienza, anziché 
restare nella Comunità ecclesiale, alla guida della Chiesa visibile? Per
 Agamben quello di Ratzinger è coraggio escatologico, in cui la verità 
spirituale coincide con la sua morte al mondo, e dunque con la rinuncia 
al ruolo pastorale. Da qui la visione apocalittica della Chiesa, viva 
solo in punto di morte, nell'Ultimo Giorno. Non soffia in Agamben come 
in Cacciari una versione mistica del nichilismo contemporaneo? Non il 
nichilismo gaio del nostro tempo ma un nichilismo profetico e 
apocalittico, che trae luce dalla notte e cerca la salvezza nel suo 
annichilirsi, dove la vita eterna coincide con l'essere per la morte. 
Non San Paolo ma Martin Heidegger sembra l'Apostolo di questa profezia.
Ma la prospettiva dell'apocalisse nasce solo nell'ambito della Chiesa
 e della Cristianità? È percepita solo in chiave religiosa come la sfida
 estrema tra il Katechon e la Bestia, tra Cristo e Anticristo? In realtà
 la diffusa percezione della fine dei giorni sorge dall'espansione 
infinita della tecnica, dell'economia, dei mezzi di distruzione e anche 
di salvezza, offerti dalla tecnica. E a quest'apocalisse tutta mondana 
corrisponde un Katechon mondano, un potere che frena e trattiene dalla 
morte e dalla vecchiaia, dal dolore e dall'impotenza, che coincide 
ancora con la tecnica e i suoi portentosi mezzi di salvezza temporale, 
di prolungamento artificiale. Se la convinzione religiosa di essere alle
 soglie dell'Ultimo Giorno è ricorrente nella storia universale, legata a
 date, profezie, eventi catastrofici, avventi mostruosi al potere, la 
percezione odierna della fine del mondo è legata a fattori inediti nella
 storia dell'umanità: mai era successo che gli uomini sulla terra si 
moltiplicassero fino a superare i sette miliardi, mai era accaduto a tal
 punto lo sfruttamento tecnologico dell'universo, l'inquinamento, la 
produzione senza precedenti di consumi e rifiuti, il possesso di armi di
 distruzione, il prolungarsi della vita. E si potrebbe continuare.
L'idea
 di essere alla fine del mondo è ciclicamente emersa nella storia 
dell'uomo ma i fattori su cui questa volta si fonda non hanno precedenti
 e non hanno una diretta attinenza religiosa, escatologica. Certo, si 
potrebbe dimostrare che l'espansione universale della Tecnica sorge 
sulla contrazione della Spiritualità.
Ma è difficile poi andare oltre. Cosa dovrebbe fare il pensiero? 
Aspettare e propiziare il Katechon o auspicare che s'affretti la fine 
del mondo? E senza la prospettiva trascendente il Katechon non rischia 
di essere risolto nella tecnica che salva nel tempo a prezzo di 
rinunciare al destino? Non è la tecnica, del resto, che sostituendosi a 
Dio, ha sottratto il potere dalle mani dell'uomo? Non è l'automatismo il
 nuovo dispotismo e la reazione a catena, come scriveva Schmitt nel suo 
Dialogo sul potere, il suo motore? Per attraversare la linea occorre 
aprirsi alla luce sorgiva dell'essere, altrimenti si resta avvolti nella
 notte del nichilismo. C'è o non c'è Dio alla fine dei tempi? È 
necessario pensarlo per decidere come predisporsi all'uscita.
(di Marcello Veneziani)
 

 
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