giovedì 5 febbraio 2009

Io, “nazista” per colpa di Wikipedia

Lui, grazie a Wikipedia, si è preso del «fascista» e «nazista» da un deputato Idv che, per informarsi su chi fosse quel tale Buttafuoco Pietrangelo proposto ai vertici dell’Istituto del dramma antico di Siracusa, ha consultato le sue autorevoli fonti: la famosa enciclopedia web scritta da ignoti. Per tutta risposta Buttafuoco, giornalista e scrittore gli ha dato del «cretino». Seguirà disputa legale. Tutta colpa di quel curriculum approssimativo scritto da Wikipedia. Così superficiale, da meritare un premio giornalistico, il Premiolino.
Buttafuoco, evviva Wikipedia.
«Questo la dice lunga sull’autorevolezza di certi premi. Quel sito mi ha affibbiato due definizioni che mi porterebbero: in galera, alla morte civile, al sicuro licenziamento. Insomma, cose inaudite che sapevo fossero scritte lì».
Un grazie all’onorevole Pierfelice Zazzera allora.
«E certo, grazie a questo luminoso statista che offre come garanzie di informazione e di fonti un’immondizia recuperata su internet. Senza di lui non lo avrei mai saputo».
È peggio che Wikipedia scriva castronerie o che un parlamentare le prenda per oro colato?
«Se un deputato, che fa parte della Commissione cultura, e sottolineo Cultura!, ha come uniche fonti internet la dice lunga su chi siede in Parlamento. Però è internet che diffonde immondizia».
Se ci fosse stato lei nella giuria del Premiolino...
«Ma ormai nei premi giornalistici si procede con l’infausta logica della cosiddetta contaminazione».
Ovvero?
«Cioè li danno alle trasmissioni televisive, alle Iene, a Striscia la notizia...».
A Fabio Fazio.
«A Fazio, Dio ce ne scampi! Gli hanno dato il premio È giornalismo, vero?».
Quello. È giornalismo quello di Fazio?
«Minchia, bastava vedere l’ultima intervista a Carla Bruni... Ormai c’è un totale discredito della professione. Ma mi riprometto di sorridere all’idea che diano il Premiolino a Wikipedia».
Sorridere?
«Sì, perché fa parte dello spirito del tempo e dell’andazzo. La maggior parte dei giornalisti non fa altro che copiare e incollare da internet».
Riciclo di spazzatura?
«Mi sono accorto che in tutti i programmi tv dove sono ospite, le schede su di me vengono sempre raffazzonate da internet».
Tutte uguali?
«Dicono sempre: “Pietrangelo Buttafuoco, a cui piacciono donne e opera lirica”. E io ogni volta lì a chiedermi; ma com’è che sempre esce sta cosa?».
Risposta?
«Poi ho capito: loro facevano la schermata su internet dove c’era sta fesseria che era venuta fuori perché al Foglio avevo scritto il catalogo delle donne “madamine”. Quindi avevano fatto la veloce somma tra donne e Mozart».
Internet congiura contro di lei.
«Per carità, c’è da ridere. Ovviamente mi sono avvalso del contributo del mio avvocato per mettere un freno alle stupidaggini del signor Wikipedia. Grazie quindi anche al Premiolino perché abbiamo trovato la persona a cui recapitare l’azione legale o civile».
Sa chi ha scritto su Wikipedia che lei è un nazista?
«No, non c’è un autore, è una cosiddetta encliclopedia libera per cui qualsiasi scagnozzo può scrivere quel che vuole di un libero cittadino».
Ma poi hanno tolto quella frase su di lei?
«Sì, sarà intervenuta qualche manina. Si saranno spaventati perché la mia prima telefonata è stata alla polizia postale».
L’enciclopedia libera, la conoscenza democraticamente condivisa...
«Macché, per fare un’enciclopedia ci vogliono 80 lauree. Quella è un’autostrada per la diffamazione. Se uno domani scrive che sono pedofilo poi andiamo dalla giuria del Premiolino a sistemare il tutto...».
Lei detesta internet.
«Come dice il grande Roger Scruton: può essere considerato una fortuna perché stai sicuro che tutti i depravati sono seduti al computer e non per strada».
E la sua nomina all’Istituto del dramma antico di Siracusa?
«L’hanno votata».
Ufficiale?
«Sì, ma sia chiaro non sono in quota An, per carità».
Addirittura?
«Non c’entra niente con me. Piuttosto quota Stefania (Prestigiacomo, ndr), è molto più chic».
Ma c’è altro sul suo profilo Wikipedia che toglierebbe?
«Mai letto. Non guardo mai nulla che mi riguardi. Non mi rileggo mai e nemmeno mi riguardo in video».
Non rilegge nemmeno i suoi libri?
«No. Una volta stampato basta. È come se parlassi e mi riascoltassi. Da stupidi».
Su Wikipedia si dice che lei proviene dalla Destra, maiuscolo.
«Ma che, il partito di Storace?
Non si capisce.
«Ecco, un’altra minchiata».

mercoledì 4 febbraio 2009

I fedeli di Tiscali finiti in Regione

Fondata da un guru della «new economy» come Renato Soru, Tiscali è una vera fucina di talenti di cui il governatore dimissionario della Sardegna non può privarsi nemmeno ora che ha lasciato la guida operativa della «web company» cagliaritana. È il caso di due professionisti noti e stimati, con un notevole bagaglio di esperienza e un ricco curriculum professionale, iscritti al registro dei revisori contabili. Piero Maccioni, di Cagliari, e Rita Casu, di Oristano, siedono entrambi da anni nel collegio sindacale dell’azienda di telecomunicazioni di Sa Illetta. Maccioni, in particolare, vanta un’eccellente carriera: ex procuratore della società di revisione Grant Thornton (che oggi ha cambiato nome dopo il coinvolgimento nel crac Parmalat), ex dipendente della Price Waterhouse, collaboratore della Deloitte & Touche e fondatore della Auditors Associati, prima società di revisione contabile dell’isola.
Da un decennio viene rinnovata la nomina di Maccioni e Casu nel collegio sindacale di Tiscali, il primo come membro effettivo mentre la seconda come supplente. Ambedue riscuotono la piena fiducia di Soru; è lui infatti a proporli in una delle due liste dalle quali vengono designati i controllori dei conti della società.Ma da quando il fondatore e primo azionista di Tiscali è anche governatore della Sardegna, i loro nomi compaiono con una certa frequenza tra i professionisti che ricevono incarichi dalla Regione. Nel luglio 2007, Maccioni è stato nominato presidente del collegio dei revisori dei conti dell’agenzia Agris per la ricerca in agricoltura. Al momento del voto, la funzione di presidente della giunta è stata assunta dall’assessore Secci.
Più nutrito il portafoglio di incarichi di Rita Casu. Negli ultimi anni è stata nominata dalla giunta Soru sindaco supplente del collegio dei revisori della finanziaria regionale Sfirs (16 maggio 2007), sindaco supplente della società Sardegna It (22 gennaio 2008 in sostituzione di un dimissionario, incarico riconfermato il successivo 10 giugno), revisore dei conti supplente dell’agenzia regionale Sardegna Promozione (8 aprile 2008). In precedenza, il sindaco supplente di Tiscali era stata nominata liquidatore di due società che la giunta regionale aveva deciso di sciogliere: la finanziaria Sigma Invest (2004) e la Porto Terminal Mediterraneo (2005).
Un piccolo giallo, raccontato dall’Unione Sarda, ha accompagnato la nomina di Casu alla Sfirs. La prima delibera inserita sul sito internet della Regione riportava un nome diverso come sindaco supplente, quello di Piero Tamponi. Subito dopo il documento è stato bloccato e non risultava consultabile. Un paio d’ore dopo la delibera di giunta è tornata «on line» con la designazione di Rita Casu.

Così Soru butta i soldi: 850 stipendi per un fallimento

La Sfirs è una impronunciabile sigla che indica l’Iri della Sardegna. Significa Società finanziaria industriale rinascita Sardegna. Fu fondata nel 1966, il 93 per cento del capitale è della Regione, il che «garantisce interventi che non mirano alla speculazione ma alla condivisione del rischio». Agisce «come finanziaria di investimento», «socio chiave di imprese manifatturiere e di servizi che creano lavoro, ricchezza e innovazione tecnologica». È proprio così?
Negli anni in cui Renato Soru è stato governatore, tra le società di cui il suo braccio finanziario è stato «socio chiave» c’era una famosa azienda tessile, la Legler, nata nel 1863 da una dinastia di industriali svizzeri a Ponte San Pietro (Bergamo). Negli Anni 60 i Legler importarono per primi in Italia il denim, cioè il tessuto per i jeans; lanciarono le vendite per corrispondenza (Vestro) e il marchio Prenatal. Nel 1989 subentrò la famiglia Polli. Oltre a quello bergamasco, la Legler aveva tre stabilimenti nel Nuorese, a Macomer, Ottana e Siniscola, con 850 dipendenti. Della fabbrica di Ottana la Sfirs deteneva il 40 per cento dal 1994.
Le cose cominciarono ad andar male con l’arrivo della concorrenza cinese. La Legler perse grandi quote di mercato. Nel 2006 chiese al ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani il sostegno del Fondo di salvataggio per le aziende in crisi, ma il prestito fu bocciato dalla Commissione europea come aiuto di Stato. Soru decise allora di far intervenire più massicciamente la Sfirs, che acquistò il 49 per cento del gruppo, compreso dunque lo stabilimento principale di Ponte San Pietro. Si sprecarono le ironie sul governatore sardo che dava una mano a un’azienda lombarda.La finanziaria preparò un piano di ristrutturazione da 39,2 milioni di euro: un terzo come garanzia, un terzo a fondo perduto, l’ultima tranche come conversione in capitale del debito (pari a 50 milioni di euro) maturato dalla Legler verso la stessa Sfirs. Dal 1° giugno 2007 l’Iri sardo divenne il principale azionista dell’azienda tessile, che nel frattempo aveva messo gli operai in cassa integrazione.
Soru ha sempre difeso l’operazione a spada tratta. «Abbiamo voluto dire che dev’essere fatto anche l’impossibile per salvare lo sviluppo tessile in Sardegna - disse durante un incontro con gli industriali -. Magari non ci riusciremo, ma avremo la consapevolezza di aver tentato il tutto per tutto». La relazione al bilancio 2007 della Sfirs spiega che l’intento era «contribuire per quanto possibile al superamento dello stato di crisi nella prospettiva anche di vedere soddisfatto seppure parzialmente il proprio credito». La finanziaria regionale si riprometteva di vendere tutto al più presto.
Ma sulla Sfirs si è abbattuta la censura della Banca d’Italia al termine di un’ispezione. La Legler, «oggetto nel tempo di investimenti per complessivi 26,1 milioni di euro rivelatisi perdenti per circa il 90 per cento», è stato un fallimento, un affare «anomalo per la presenza di elementi di contraddittorietà», effettuato «in assenza di un’istruttoria adeguatamente ampia e approfondita», caratterizzato dall’«assunzione del controllo di fatto e di un significativo ruolo gestionale» della Sfirs mentre «si sarebbe dovuta lasciare in capo ai soci originari la responsabilità imprenditoriale e gestoria».
Anche la Commissione Ue ha criticato l’operato del braccio finanziario di Soru: l’azione della Sfirs non ha procurato all’impresa «alcun vantaggio poiché un investitore privato avrebbe potuto procedere alla medesima operazione per evitare il fallimento e recuperare i suoi crediti in maniera più efficace». E si dubitava che il previsto piano di ristrutturazione (106 milioni di euro tra il 2007 e il 2012) fosse in grado di «ripristinare la redditività».
Intanto tra i sindacati cresceva il sospetto che il fine dell’operazione non fosse salvaguardare gli 850 posti di lavoro, ma mostrare l’attivismo della Regione. «Soru ha venduto fumo, Regione e Sfirs vogliono scaricarsi un peso, con un’operazione che porterà alla cancellazione definitiva delle nostre fabbriche», disse Franceschino Spanu dell’Ugl. Che fu facile profeta. Un anno fa l’azienda fu svenduta per non più di cinque milioni di euro alla Ferratex. Ora la Legler, che nel frattempo ha mutato nome in Texfer, è in amministrazione straordinaria, anticamera del fallimento. L’intervento della Sfirs si è tradotto in uno spreco di soldi pubblici che non servirà a garantire i posti di lavoro. A quanto risulta al consigliere regionale Paolo Maninchedda (Partito sardo d’azione), Bankitalia avrebbe multato alcuni membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della Sfirs. I multati avrebbero presentato ricorso alla corte d’appello di Roma.

martedì 3 febbraio 2009

D’Annunzio pagano… e la pazza del Bargello…

Come sappiamo, nella cultura europea a cavallo tra Otto e Novecento - corrosa dal degrado positivista - D’Annunzio ha significato la rivolta romantica e dionisiaca del gesto audace, dell’istinto vittorioso, dell’immersione nella sensualità selvatica. Era la rivendicazione di un patrimonio di atavismi che il razionalismo moderno stava spegnendo con la sua violenta irruzione nei mondi della tradizione: di qui l’amore per la bellezza dorica - che l’Immaginifico assaporò nella sua crociera greca del 1895 -, per il lusso dell’estetica, per la volontà di potenza che crea il Superuomo.In D’Annunzio c’è la sintesi del volontarismo di Nietzsche, dello slancio vitale di Bergson e della filosofia dell’azione di Blondel: in lui dunque si riassumono al meglio - nella poesia, nella narrativa, nella vita vissuta e poi nell’interventismo eroico del “poeta-soldato” - tutti i patrimoni culturali e ideologici che la vecchia Europa rilancerà in chiave tradizionale e anti-modernista. E con D’Annunzio, infatti, avremo il tipico rappresentante di quella figura di esteta armato che dominerà gli eventi a partire dalla guerra del 1914: da Jünger a Marinetti, da Soffici a Péguy ai vorticisti inglesi.I messaggi di egualitarismo democratico e di individualismo borghese con cui il progressismo stava già allora sfibrando le radici europee, vennero rovesciati con una rivolta neo-pagana, nuova e antica, intesa a impugnare l’identità arcaica come un’arma estetica, letteraria e, infine, anche politica. Nel tardo Ottocento, D’Annunzio è già una guida per queste energie antagoniste, che saranno l’avanguardia europea delle future rivoluzioni nazionali del XX secolo.Incastonato tra La Vergine delle rocce del 1895 e Il Fuoco del 1900, cioè i due bastioni del sovrumanismo nietzscheano rielaborato da D’Annunzio, c’è un piccolo capolavoro di solito trascurato dagli esegeti - forse perché al frivolo pubblico parigino dell’epoca non piacque il suo andamento sofoclèo e a quelli di oggi giunge estranea ogni forma di pensiero mitico -, ma che ben si inserisce nel filone neo-pagano, che è il fulcro di tutta l’opera dell’Inimitabile. Alludiamo al Sogno di un mattino di primavera, dramma “rinascimentale” buttato giù alla svelta nel 1897, nello spazio di pochi giorni, per placare il dispetto di Eleonora Duse [nel ritratto sotto a sinistra], cui pochi mesi prima era stata preferita Sarah Bernhardt nel ruolo di protagonista della Città morta.In questo apice di vis tragica che è il Sogno, D’Annunzio dà fondo alla sua inesauribile vena visionaria. Del personaggio principale, Donna Isabella, la Demente, impazzita per essersi vista uccidere dal marito l’amante stretto tra le braccia, egli fa un’icona dell’uscita dalla normalità attraverso il più atroce dolore. E dell’ingresso in quell’arcano spazio aperto che è la follia, la grande follia. D’Annunzio scrisse il Sogno di un mattino di primavera in piena febbre nietzscheana: aveva da poco scoperto la grandezza recondita del Solitario, fu anzi tra i primi in Europa a capirne e divulgarne il genio rivoluzionario, ne rimase impregnato e ne impregnò molta parte della sua opera: pensiamo al Trionfo della morte, del 1894, in cui il “superuomo” Giorgio Aurispa esalta il «sentimento della potenza, l’istinto di lotta e di predominio, l’eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell’uomo dionisiaco».E proprio nel Sogno noi ritroviamo, schermati dietro il tragico destino individuale della pazza Isabella, questi stessi valori. Ciò che D’Annunzio definiva essenzialmente come la «giustizia dell’ineguaglianza». La Demente - creatura per definizione ineguale, inassimilabile alla normalità che appiattisce e livella - diventa il lato femminile e notturno del suprematismo virile e attivo proclamato da D’Annunzio. Chiusa in un micromondo claustrale, circondata dalle attenzioni cliniche dei “normali”, la pazza d’amore è lo specchio teatrale della follia vera in cui si rinchiuse Nietzsche. Ricordiamo che quando D’Annunzio scriveva questa sua prosa tragica, Nietzsche era ancora vivo, ma già da anni tutto avvolto da una pazzia inespressiva, che aveva ormai già dato tutto, e che era il prezzo che dovette pagare per aver troppo a lungo fissato le voragini della mente. Come l’Isabella di D’Annunzio, Nietzsche visse i suoi ultimi anni sorvegliato a vista dai “vivi”, per lo più ignari di quale profonda sapienza ci possa essere in simili fughe dalla “normalità”.Bisogna tornare più spesso al D’Annunzio “minore”, a quello del Libro ascetico della Giovane Italia, dei Taccuini, della Vita di Cola di Rienzo… e a quello del Sogno di un mattino di primavera. Quando ripenso al D’Annunzio folgorale e insieme notturnale, alla sua capacità medianica di trasferire nei posteri i suoi mondi di apparizioni e di presenze arcane attraverso sedute di veri e propri transfert scenici, mi torna alla mente una rappresentazione del Sogno a cui ebbi modo di assistere anni fa, nel cortile del Palazzo del Bargello di Firenze. Qui prese corpo, dapprima lentamente, poi in maniera trascinante, la rarissima sintesi tra l’eloquenza traboccante della parola dannunziana e l’eloquenza muta dell’antica pietra squadrata: il Bargello, austero palazzo medievale. Questo prezioso vestigio della Firenze gotica e ghibellina, spazio di severità duecentesca un tempo sacrario del potere popolare, sede del Podestà e della Guardia del Capitano del Popolo, eretto da un Lapo Tedesco che fu forse il padre di Arnolfo di Cambio, è il luogo che meglio si prestava alla congiura dannunziana tra raffinatezza dei sensi e rigore della volontà politica. Qui D’Annunzio soleva venire e tornare, fermandosi davanti alle opere del Verrocchio, di Benedetto da Maiano, del Laurana…dai suoi Taccuini sappiamo che fu più volte al Bargello negli anni della sua residenza alla Capponcina di Firenze: aggirandosi tra quei capolavori, gli venne l’idea di fare una delle sue coltissime citazioni. E nel Sogno fa dire a Isabella di un busto di Desiderio da Settignano che lei teneva amorevolmente sulle ginocchia, consumandolo di pianto e di carezze.Il Sogno di un mattino di primavera è un cammeo di prodigi. Qui D’Annunzio l’occulto, l’uomo d’arme che conosceva le tecniche dell’estasi, che invocava gli attimi visionari, che era sciamano, taumaturgo e profeta, ci mette a contatto con una creatura esiliata dalla vita, ma aperta a valori di eccezionale trascendenza. La Pazza si è fatta fare una veste verde, vuole diventare natura, vuole essere selva: «Ora potrò distendermi sotto gli alberi…non s’accorgeranno di me…sarò come l’erba umile ai loro piedi…vedo verde, come se le mie palpebre fossero due foglie trasparenti…io potrò dunque con gli alberi, con i cespugli, con l’erba essere una cosa sola…». E si fa guanti di rami, stringe ghirlande, si fascia di fili d’erba, aspetta di farsi bosco per rivivere in natura la natura selvaggia del suo amore. Impossibile non riandare, davanti a tali celebrazioni, a quella passione per la dimensione dionisiaca e panteista che, ad esempio, traspare in certe inquadrature del Trionfo della morte: l’epopea del «dominatore coronato da quella corona di rose ridenti di cui parla Zarathustra…». Qualcosa che ricorre di nuovo quando Giorgio Aurispa il solitario, nell’osservare il tramonto, sente pulsare gli annunci di Zarathustra nel trionfo di una natura esuberante, irta di colori che eccitano l’animo e fondono l’uomo con le più enigmatiche energie del creato. Perfetta creazione silvestre, simbolo compiuto di pagana immersione nella natura pànica, l’Isabella del Sogno reca anche archetipi di morte, di sangue e di scatenata sensualità.Essa ci rimanda con naturale similitudine alla Wildfrau nordica, la “vergine selvatica” che percuote le notti durante la caccia selvaggia di Wotan, così come compare nel mito indoeuropeo della ridda, che accomuna mistero, magia e ancestrali terrori, giacenti nella sfera della natura barbarica e nel subconscio atavico dell’uomo: purissimo scrigno da cui sale - quando la si sa udire - la voce del sangue primordiale. Come spesso accade alla tregenda pagana, la morte e il dolore non sono tuttavia disgiunti da una sensualità istintuale. E, infatti, profondamente sensuale è il contatto di Isabella col corpo dell’amato morente, da cui sgorga sangue come da una fonte inesauribile. Il suo trauma si muta allora in una sorta di allucinazione orgasmica:«…La sua bocca mi versava tutto il sangue del suo cuore, che mi soffocava; e i miei capelli n’erano intrisi; e il mio petto inondato; e tutta quanta io ero immersa in quel flutto…com’erano piene le sue vene e di che ardore! Tutto l’ho ricevuto sopra di me, fino all’ultima stilla; e gli urli selvaggi che mi salivano alla bocca io li ho rotti coi miei denti che stridevano, perché nessuno li udisse…».In brani di rapimento erotico come questo - in cui, tra l’altro, non si è lontani neppure dagli estatici abbandoni alla voluttà del sangue presenti, ad esempio, nelle lettere di Santa Caterina da Siena: «Annegatevi nel sangue del Cristo crocifisso, bagnatevi nel sangue, saziatevi di sangue…» -, noi riconosciamo una miriade di rimandi alla sacralità pagana e neo-pagana del sangue, ai suoi occulti poteri fecondanti, alle sue qualità misteriche di infondere vita ulteriore, e proprio quando fuoriesce in fiotti, come seme di vita, da un corpo in travaglio di morte.Basterà ricordare la libido di sangue ossessivamente presente nella tragedia greca, capace di celebrare l’amore di rango come una lotta spasmodica che non fa più differenza tra la vita e la morte, che riconosce nella carne viva, nel segno sensuale, un universo infinito, confine tra saggezza e follia scatenante: Pentesilea, ad esempio, di cui Kleist fece un superbo affresco del dramma romantico…ferro di lame e di scudi, ma anche di cuori. Tutto questo ebbe riverberi nella nostra poesia nazionalista dei poeti-soldati volontari nella Grande Guerra: amore e lotta celebrati in nozze mistiche di sangue. Ad esempio, in Vittorio Locchi o in Giosuè Borsi, il sangue dell’eroe caduto e riverso al suolo, con la bocca a toccare il terreno come in un bacio, diviene seme generatore, potenza che feconda la terra redenta, paragonata a una sposa che si lasci inondare il grembo dal flusso ancora caldo dello sposo morente. Nel poemetto di Locchi, un tempo famoso, intitolato La sagra di Santa Gorizia, la città da liberare attende il suo eroe come un’amante fremente: «Amore, amore dolce, mi vedi? Amore dolce, mi senti? - chiede l’amata - Quanti tormenti ancora, quanti tormenti prima degli sponsali?». È un misticismo di visionaria trance erotico-guerriera, che certo rinnova esplicitamente gli arcaici connubi di Eros e Thànatos. Ed è in un trionfo di celebrazioni al benigno destino, alla vita che vince la morte, alle armi che liberano lo spirito, che avviene alla fine l’apoteosi trasfiguratrice dell’unione tra la città-femmina, finalmente liberata, e il vittorioso eroe liberatore.L’amore - ma non solo quello letterario, proprio quello vero…ma certo non quello “comune”…- è sempre a un passo dalla pazzia: c’è un frammento del Sogno, in cui Isabella viene assalita da gelido terrore nel vedere una coccinella posatasi sul suo candido braccio e da lei creduta una goccia di sangue: esatta trasposizione della demenza che impietrisce Parsifal nell’osservare la rossa goccia di sangue di un passero sulla neve immacolata…Detto per inciso, sottesa al Sogno leggiamo una - certo non casuale - combinazione di fine simbolismo cromatico: il bianco dei lunghi capelli e dello spettrale volto di Isabella, il verde della sua mimesis selvatica e il rosso del sangue dell’amato: ed ecco qua i tre colori per i quali l’Orbo Veggente andrà a rischiare la vita, ormai anziano, sui fronti della Grande Guerra…È in situazioni come queste che noi, più che altrove, apprezziamo la fantastica capacità dannunziana di intrecciare una raffinata sensibilità con il primario istinto di vita. Se c’è un luogo in cui la follia diventa mistica percezione dell’Altrove, magia di poteri visionari, potenza che fonde in un unico rogo il dolore e la gioia, questo è l’amore pazzo e disperato: quello profondamente filosofico di Nietzsche, come quello semplicemente umano di Isabella. D’Annunzio, alla sua maniera di grande sensitivo, li visse e li rappresentò entrambi.E li rappresentò anche nella vita vera vissuta, magari alla maniera di un sacerdote pagano che solennizzasse i riti della terra e del sangue. Tra i suoi amori folli, c’era infatti, e non minore, anche quello per l’Italia. Un suo legionario ricordò un giorno di come, già vecchio e cadente, al Vittoriale ogni tanto il Comandante amasse celebrare occulte comunioni insieme ai suoi fedelissimi: «sovente, la notte, adunato un piccolo numero di fedeli, alla rossastra luce fantastica di torce resinose, parla della nostra terra e della nostra stirpe, della nostra guerra e dei nostri Morti, dei nostri mari e delle nostre glorie; qui i compagni lo ritrovano, lo rivedono e lo risentono, come in trincea e come a Fiume». Una liturgia nibelungica per eredi della razza di Roma: esisteranno ancora da qualche parte, dispersi, solitari, silenziosi, uomini simili?

di Luca Leonello Rimbotti (www.mirorenzaglia.org)

lunedì 2 febbraio 2009

Tutti gli "aiutini" di Soru ai costruttori amici

Aspra, verde, muta, l’isola di Caprera è come Renato Soru. Interamente protetta dal parco nazionale della Maddalena, e doppiamente vincolata dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) voluto dal governatore dimissionario. Due-case-due nella contrada di Stagnali. Un’unica strada dove vige il limite dei 30 all’ora. Un unico cartello stradale: attenzione ai cinghiali. Unica attrazione turistica, un cimitero: la tomba di Garibaldi. Ruderi, alberi, arbusti, un silenzio irreale. E un Club Med. Il villaggio è un’oasi di Polinesia, con i suoi bungalow dai tetti conici di paglia e i bagni in comune. Una bellezza selvaggia e spartana, quella che Soru sognava per la Sardegna quando vietò nuove costruzioni su coste ed entroterra.
Quest’angolo esclusivo è chiuso da anni e il Club Med voleva riaprirlo, ristrutturandolo. L’intervento di riqualificazione prevedeva di sostituire le attuali 274 capanne con 300 villette di lusso e un aumento di volumetria (40mila metri cubi, più 28 per cento) per 1.230 posti letto. E quindi camion, gru, scavi, ponteggi, eccetera. Una boccata d’ossigeno per il turismo dell’arcipelago, ma come la mettiamo con il vincolo di assoluta inedificabilità posto da comune, parco, regione, Unione europea?
Niente paura, la via d’uscita c’è. Si chiama intesa. È il grimaldello per forzare i divieti del Ppr. L’intesa è un tavolo tra le parti e la regione. Chi vuole costruire tratta direttamente con la giunta. Decide Soru, anche se l’ente locale è sfavorevole. Nel caso specifico, il comune di La Maddalena aveva depositato un’istruttoria tecnica contrarissima agli interventi; la regione ha invece chiesto qualche correttivo (incremento della cubatura del 25 anziché 28 per cento, case lontane almeno 150 metri dal mare e a piano unico) sollecitando - fa sapere il Club Med - «l’apertura nel villaggio di stand sull’artigianato artistico sardo nonché l’utilizzo nelle strutture di prodotti tipici locali». L’intesa è stata accordata, con il benestare anche del comune.
Soru ha spiegato che cosa intenda per tutela ambientale infinite volte. L’Ansa del 25 novembre 2003, per esempio, riferisce queste sue parole: «Bisogna ripensare il turismo, riempire gli alberghi che ci sono e non costruirne di nuovi. Bisogna finirla con il ricatto, un posto di lavoro uguale un albergo. Non so come si possa pensare di lasciare ai figli casa e garage e non un ambiente intatto». A un convegno l’8 marzo 2004 vaticinava: «Se oggi, per assurdo, le nostre coste fossero disabitate, in realtà non saremmo più poveri, ma più ricchi». Si potrebbero riempire intere paginate.
Stop al cemento. Il Ppr doveva applicare questi ideali del guru internettian-ecologista tutto d’un pezzo. Eppure la sua applicazione in questi anni è lastricata di deroghe come quella di Caprera. Qualche settimana fa il presidente del consiglio regionale sardo, Giacomo Spissu (Ds), ha fatto sapere che «sulla base del Ppr, la giunta ha stipulato 120 intese con i comuni per concedere nuove volumetrie, quasi tutte nelle coste, e altre 80 intese sono in preparazione».E chi ne beneficia? I «soliti noti». Tra Collinas, Villanovaforru e Lunamatrona, a una dozzina di chilometri da Sanluri (patria di Soru), l’imprenditore irlandese Thomas F. Kane e il suo avvocato di fiducia Paolo Fresco, ex presidente Fiat, prevedono di realizzare campi di golf, alberghi a 5 stelle, piscine, 716 villette, beauty farm: il benestare giunge sotto forma di «accordo di programma». A Pula, a sud di Cagliari, lo strumento dell’intesa consentirà al gruppo Immsi di Roberto Colaninno di attuare un progetto da 115 milioni di euro firmato da Massimiliano Fuksas, con 400mila metri cubi di cemento su una superficie di 150 ettari. Ad Arbatax, sulla costa orientale, è invece un «programma integrato» a favorire la società Bilancia che fa capo a Giorgio Mazzella, imprenditore turistico molto amico di Soru nonché presidente del Credito industriale sardo e proprietario dell’emittente tv Sardegna 1: con il progetto Janas realizzerà una volumetria di 182mila metri cubi per centinaia di unità abitative e 1700 posti letto, con centro congressi e zona commerciale.

Il cronista che si innamorò della Storia

Ho conosciuto Antonio Spinosa, come autore, tanti anni fa, quando pubblicò L’ABC dello snobismo, un libro che metteva in risalto la sua grazia di uomo ironico e mai greve: «Se lo snobismo nasconde un’ambizione, il dandismo può addirittura celare una rinuncia» è una frase da manuale. Prima ancora mi godevo i suoi articoli di inviato del Corriere della Sera, poi del Giornale diretto da Montanelli: elzeviri, interviste e cronache sempre freschi e nitidi.
Mai avrei pensato, allora, che ne sarei diventato prima editore, poi amico. Nel 1981 la sua biografia di Achille Starace, uscita da Rizzoli, aveva avuto un enorme successo rivelando lo stile che l’avrebbe reso famoso: quello di un biografo che riusciva sempre a far emergere la persona dietro il personaggio. Non amato dagli storici professionisti, lui stesso preferiva definirsi «narratore di storia». E tale era. I suoi personaggi, perfettamente ambientati nell’epoca loro – quale che fosse – venivano raccontati come solo potrebbe fare un uomo curioso che capisce l’animo umano. Quando diventai direttore editoriale della Mondadori, nel 1986, fu uno dei primi autori che cercai di strappare alla concorrenza. Ci riuscii perché, chiacchierando, gli dimostrai di conoscere i suoi libri e di apprezzare le sue qualità di divulgatore. È rimasto alla Mondadori fino alla morte, un successo dietro l’altro.
Quasi dieci anni dopo fu lui a ingaggiarmi, con un’alzata di fantasia. Dirigeva Videosapere (che adesso si chiama, diseducativamente, Rai Educational), un giorno mi telefonò e mi disse «Devi condurre una trasmissione quotidiana, in diretta su Rai Tre, dalle 13 alle 14. Parlerai di cultura alle casalinghe, agli studenti, ai disoccupati, ai turnisti, ai malati, insomma a tutti quelli che a quell’ora guardano la televisione». «Sei matto», risposi, «non ho mai fatto televisione e non la so fare». «Se non la sai fare, imparerai. Fidati». Aveva già pronto il titolo, Italia mia benché, da un verso di Petrarca, la co-conduttrice e co-autrice Cinzia Tani, e il capo struttura, un mastino di grande esperienza televisiva, Franco Matteucci: entrambi, poi, sono diventati scrittori, e forse non è un caso. Spinosa trepidava – oh sì che trepidava – per le mie stravaganze televisive, ma il successo del programma gli dette ragione. Era pronto alla lode quanto al rimprovero e da lui ho imparato – anche - che un direttore è tanto più autorevole quanto più è garbato, e quanto meno si lascia influenzare. Se gli arrivava un richiamo dall’alto, per certe mie uscite, mi convocava per fare due risate: «Mi hanno chiesto», raccontò una volta, «ma questo Guerri è di destra o di sinistra?». «Saranno fatti suoi», rispose. So per certo che un personaggio allora molto importante voleva che punisse un funzionario perché non teneva in debito conto la raccomandatissima figlia: Spinosa, per tutta risposta, lo promosse. Dopo due anni, il solito cambio della guardia alla Rai tolse a lui la direzione e a me il programma, ma nessuno dei due si disperò. Avevamo sempre i nostri amati libri da fare, e quelli nessuno ce li poteva togliere.
Continuò a scrivere, specialmente sulle tre epoche che prediligeva. Roma antica (Augusto, Cesare, Tiberio, La grande storia di Roma), il Risorgimento (Murat, Paolina Bonaparte, Italiane. Il lato segreto del Risorgimento), il Novecento (I figli del Duce, D’Annunzio, Vittorio Emanuele III, Pio XII, Hitler, Salò, Edda, L’Italia liberata, Mussolini razzista riluttante, Alla corte del Duce, Mussolini - Il fascino di un dittatore). Poteva andare anche da Luigi XIV a Napoleone, da Ulisse alla Saga dei Borgia, e ho dato una bibliografia incompleta.
La sua prolificità e il suo successo irritavano alcuni, che si chiedevano maliziosamente come potesse scrivere tanto. Io so come faceva. Dopo avere quasi abbandonato il giornalismo alla fine di una carriera gloriosa (diresse il Nuovo Roma, l’Agenzia Italia, la Gazzetta del Mezzogiorno) si dedicava quasi soltanto alla passione di narratore di storie. La sua grande, vecchia casa vicina al Colosseo aveva tutte le pareti coperte di libri. Altri ne cercava continuamente nelle librerie antiquarie e nelle biblioteche. Leggeva meticolosamente tutto ciò che gli poteva servire, poi si metteva all’opera. Anzi, si mettevano, perché l’Antonio Spinosa che ho conosciuto era tutt’uno con la seconda moglie, Elettra, anche nel lavoro. Lei, dolce e instancabile, catalogava appunti, organizzava le schede, scriveva sotto dettatura, rileggeva, suggeriva. Sembrava quasi che Antonio scrivesse per lei, perché non era contento finché anche Elettra non era contenta.Mai avrebbe pensato di rimanere vedovo quando Elettra, molto più giovane, se ne andò, qualche anno fa. Lui era già in dialisi, una cosa straziante che riusciva a vivere con leggerezza, e c’era chi scommetteva che non si sarebbe mai ripreso dal lutto. Invece ha continuato a raccontare sino alla fine, perché questa era la sua – la loro – allegria.
A me rallegra pensare che ha avuto una vita bella, che si è preso tutte le soddisfazioni, compresa la più preziosa, fare quel che gli piaceva, come gli piaceva. Godeva, per dispetto dei critici, quando immancabilmente entrava nelle classifiche dei libri più venduti o riceveva un premio, fra cui l’Estense, il Saint-Vincent e l’importantissimo Bancarella. Nel 1996 tentò anche lo Strega, con Piccoli sguardi, un romanzo ambizioso: rischiò di vincere e ne nacquero polemiche a non finire, per il suo divertimento: «È un problema spinoso...», diceva. Sempre sorridendo.

di Giordano Bruno Guerri (www.ilgiornale.it/)

Giuseppe Bottai: anche a un regime serve la fronda

Se risulta tortuoso stare al governo avendo una posizione critica in tempo di democrazia, si può immaginare come poté essere difficile (e drammatico) esserlo in un regime autoritario. Eppure Giuseppe Bottai, “l’apostolo del fascismo”, ci riuscì. Figura inquieta e assolutamente contestualizzata nel clima del suo tempo, fece di questa frase una condotta di vita: «Voglio stare nel fascismo non solo con i piedi ma anche con la testa». Questo modo di agire e di intendere la fedeltà alla figura di Mussolini fece di Bottai fin da subito un personaggio scomodo e disorga nico verso una classe dirigente acquiescente alle tendenze più retrive del regime. Espulso dal partito nel 1924 per i rapporti tesi con il “ras” Farinacci, cercò sempre di adeguarsi e al tempo stesso di indirizzare le linee programmatiche di uno Stato che, superata la fase della rivoluzione, rischiava a suo avviso una sostanziale stagnazione conservatrice. E questo Bottai lo attuò in tutti i ruoli che ricoprì nel regime. Ma dove nasce questo spirito “contro” del giovane Bottai? Dal rapporto dialettico fra la istituzione e la dinamica delle proprie idee. È il background culturale e la formazione sul “campo” che determinano, prima di tutto, l’attitudine alla costruzione: attratto precocemente dal futurismo e richiamato dal valore della trincea della Prima guerra mondiale, Bottai fu fascista delle prima ora. In nome di questo spirito – ha scritto lo storico Giordano Bruno Guerri – «per oltre vent’anni si batté perché nel partito e nel partito fossero possibili dibattito e dialettica interna». Proprio per questo, e nonostante la rozzezza di molti gerarchi, il ruolo critico di Bottai all’interno del regime fascista si esplicò in vari campi: da quello del lavoro a quello del ruolo dell’istruzione e dell’organizzazione della cultura. Come ha spiegato Guerri «Bottai fu un “teorico dell’agire sociale”, che provò a trasformare un regime, di cui percepiva i limiti e le debolezze umane, ma non quelle strutturali». Obiettivo del politico, infatti, fu di riuscire a creare un sistema che riuscisse a sopravvivere al mito del “capo”: per questo motivo la sua opera fu rivolta soprattutto ai giovani, in quanto li considerava un antidoto alla deriva formale e burocratizzata di una classe dirigente che stava invecchiando. E tutto questo nasce fin dai primi momenti dell’esperienza del regime: il suo bisogno di “fronda”, quindi, non nasce da un istinto irrazionale alla ribellione, ma dalla necessità storica di riempire un “vuoto” che nel regime a suo avviso doveva essere riempito. Pena la scomparsa della funzione originaria. La sua era un’aspirazione che si poneva nell’idea della possibilità di un “partito degli intellettuali”. E, se dal punto dal punto di vista politico ci riuscì fino a un certo punto, Questo si realizzò di sicuro dal punto di vista culturale, grazie all’instancabile attività di divulgatore e di mecenate. Indagò, quindi sulle tendenze d’avanguardia internazionali, con vari affacci sul dibattito inglese, russo o americano, con l’obiettivo di portare in Italia le nuove correnti intellettuali in modo da crearvi un inedito cantiere per le idee e la stessa politica. E per rimarcare la sua distanza dalle posizioni “ufficiali” del regime su Critica fascista, una delle tante riviste da lui animate, Bottai diede spazio a Intellettuali dalle più diverse sensibilità, anche ad esempio a don Romolo Murri e a giovani come Guido Carli, Vittorio Zincone. Bottai fu sempre aperto al dialogo con i giovani intellettuali in odor di “fronda” – da Leo Longanesi a Mino Maccari fino a Berto Ricci – offrì loro attraverso le pagine delle sue riviste uno spazio di espressione e di dibattito. Come poté coesistere questa individualità “illuminata” con un regime? Probabilmente con la consapevolezza, da parte dello stesso capo del fascismo, che un’eventuale prosecuzione dell’esperienza governativa – nella sua forma evoluta – sarebbe dovuta passare per le intuizioni “democratiche” di quel fascista “atipico”.

Antonio Rapisarda (Il Secolo d'Italia)

domenica 1 febbraio 2009

Montesquieu, il potere logora chi non lo crea

Charles de Montesquieu (1689-1755) s’interessò sempre all’Italia. Fin dallagioventù - come si deduce dalla sua Historia romana (1705) - per lui Roma incarnò storia, diritto, antiche tradizioni. E fu al ritorno da un soggiorno italiano (agosto 1728-luglio 1729) che scrisse capolavori come Considerazioni intorno alle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e Lo spirito delle leggi (1748). Anche per questo Montesquieu continua a esser letto e commentato in Italia, dove la sua ricezione ha proceduto con la formazione dell’unità nazionale. Lo dimostrano i saggi che Domenico Felice gli ha dedicato dal 1990. E ancora venerdì scorso La Repubblica riprendeva l’interessante dibattito di Micromega sulla legalità, concernente anche Montesquieu: ciò che vi sostiene Barbara Spinelli corrisponde all’interpretazione liberale classica sulla concezione dei poteri in Montesquieu. Interpretazione basata una lettura a mio avviso anacronistica: la concezione dei poteri in Montesquieu è ben più complessa.
Innanzitutto Montesquieu è noto specialmente come teorico politico, ma la sua teoria politica deriva da una teoria sociale. Nella tesi sostenuta nel 1892 a Bordeaux, il sociologo Emile Durkheim non esitava a dire che «in Montesquieu si gettavano le basi della scienza sociale». Nello Spirito delle leggi, che vuol studiare «le leggi, i costumi e i diversi usi di ogni popolo della terra», insieme alle loro cause fisiche (geografia, temperatura, clima) e morali (costumi, credenze e tradizioni), Montesquieu pone infatti che la società forma un tutto, dove è impossibile isolare del tutto il diritto dalla morale, la politica dalla religione, il commercio dall’economia, ecc. Così mostra che la forma globale d’una società estende la sua influenza su ogni aspetto dell’esistenza sociale.
Ma ciò che più interessa è quel che - col linguaggio odierno - chiameremmo il suo no all’etnocentrismo. Nelle Lettere persiane (1721) - per Goethe «uno dei più bei monumenti di quel secolo, anzi di tutti» - come nelle Considerazioni o nello Spirito delle leggi, Montesquieu invita in un certo senso al riconoscimento dell’Altro, fatto notevole per i tempi. Ciò anche perché il suo approccio non si fonda su principi religiosi. Studiando le varie società dell’epoca, si concentra sulle realtà sociali come risultano all’osservatore, non su quel che la teologia dogmatica definisce come un modello unitario d’umanità.
Con un approccio ben più descrittivo che morale («Qui si dice ciò che è, non ciò che deve essere»), Montesquieu constata che la diversità delle leggi e delle istituzioni è in rapporto con quella fra gli uomini: le differenze che si constatano fra i popoli si radicano dunque nella natura delle cose. Ciò non lo porta certo a mettere su un piano d’eguaglianza le istituzioni che studia, ma a tener conto del contesto prima di giudicare. Infatti certi costumi diversi dai nostri possono avere basi legittime in certe società.
La conclusione che se ne trae è che in regola generale non vanno formulate regole valide per ogni popolo. Montesquieu invita dunque il legislatore a conformarsi innanzitutto al genio del suo popolo. Scrive: «Il governo più conforme alla natura è quello la cui disposizione particolare aderisce meglio all’inclinazione popolare». Non cela neppure la predilezione per la monarchia, ma non per questo la trova la forma di governo migliore in sé. Sulla stessa linea sostiene che lo zenith di Roma fu quando permise ai popoli sottomessi di continuare a vivere secondo le loro usanze.
Contrariamente a quanto preteso da Ernst Cassirer, che gli attribuiva un «senso del divenire storico» abbastanza paragonabile all’ideologia illuminista del progresso, Montesquieu non cerca nemmeno di ricondurre la diversità dei popoli a una qualsiasi universalità, né di integrare i fatti storici in un’evoluzione globale delle società umane, retta dall’idea di un progresso lineare continuo. In tal senso non è un «filosofo della storia», un pensatore storicista, ma piuttosto un filosofo delle storie, come Herder e Vico. Anche la nota teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, spesso così mal compresa, deriva dal principio che le varie funzioni pubbliche vanno ripartite fra mani diverse, non perché si neutralizzino l’un l’altra, ma per meglio rivaleggiare a vantaggio di tutti.
In fin dei conti, è Montesquieu a unire Montaigne, anche lui originario della zona di Bordeaux, al normanno Alexis de Tocqueville, che del resto gli s’è ispirato spesso, tanto da esser talora definito il «Montesquieu del XIX secolo» (Jean-Jacques Chevallier). Nella Democrazia in America, anche Tocqueville s’interroga infatti sulla dialettica fra legge e usi. Come Montesquieu, denuncia l’assolutismo, che si somma alla soppressione di libertà locali e corpi intermedi. Anche lui, poi, s’interessa alla storia di lunga durata, mettendo l’accento sul «come», più che sul «perché». Così, nell’Ancien régime e la Rivoluzione, mostra che la rivoluzione francese non spezza, ma prolunga per molti versi la tradizione dell’Ancien régime, estremizzando l’accentramento amministrativo (ecco il giacobinismo) a danno delle autonomie locali, eredi delle libertà feudali; e imprime sulla nazione, nel senso politico del termine, lo stesso assolutismo e la stessa onnipotenza tipica del re (il potere cambia titolare ma resta assoluto).
La differenza fra Tocqueville e Montesquieu è nell’idea che ciascuno ha della libertà politica. Vedendo nella libertà un’idea d’origine germanica («I nostri padri, i Germani, guerrieri e liberi» è formula ricorrente nei suoi scritti), per Montesquieu tocca alle istituzioni preservare questa libertà: i cittadini sono liberi quando li guidano «governi moderati». Per Tocqueville, invece, la libertà dipende anche dal «valore» dei cittadini (nel senso aristotelico del termine).Tocqueville difende la democrazia, ma capisce anche che essa non sempre immunizza dal dispotismo. L’epoca democratica si caratterizza per avidità di piaceri, gusto dell’eguaglianza che può compromettere la libertà e soprattutto una forma nuova di conformismo, che può togliere ai singoli la voglia di partecipare agli affari pubblici. Insomma Tocqueville teme che il culto dell’individuo distrugga il cittadino. Ciò che scrive sul «tipo di dispotismo che le democrazie devono temere» evoca il tempo degli «ultimi uomini» di Nietzsche. Montesquieu annuncia Tocqueville, ma Tocqueville va oltre.

di Alain de Benoist (www.ilgiornale.it)