martedì 15 dicembre 2009

"Comunismo democratico? Una bugia da intellettuali"


Stéphane Courtois è un signore dalla grande barba e dall’occhio glauco che potrebbe ricordare la tipologia fisica del grande patriarca della russia contadina. E anche i suoi modi, quando s’infervora a spiegare, sono quelli di chi in una discussione di villaggio la spunterebbe, riportando la mucca a casa a buon prezzo. Ma in realtà le sue argomentazioni fluiscono in un dottissimo francese e sono quelle proprie di un professore dell’università Paris X-Nanterre.
E se il grande pubblico lo conosce soprattutto perché, con Il Libro nero del comunismo, è stato il primo a rompere il veto culturale sugli orrori d’Oltrecortina (dando numeri e cifre) la sua conoscenza e lo studio dei regimi del socialismo reale spaziano in tutti i settori di ricerca e non solo in quello della contabilità delle stragi. Ecco perché alla Fondazione Craxi a Milano il suo è l’intervento più atteso del convegno «A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino: bilancio storico e mutamento dello scenario storico istituzionale». L’intervento s’intitola Il crollo del sistema comunista: dal 1956 a Gorbaciov e mette in luce i meccanismi perversi che hanno portato all’implosione del Patto di Varsavia. Meccanismi di fronte ai quali molti intellettuali occidentali si sono bendati gli occhi.

Professor Courtois, la storia del comunismo non è solo una storia di violenza, è anche la storia di un’utopia e di un grande inganno...

«Sì, l’illusione è stata prodotta, soprattutto in Occidente, da una pervasiva macchina di propaganda che è passata anche attraverso il consenso degli intellettuali...».

Come mai?

«È difficile dare una risposta. Io credo che il desiderio di potere negli intellettuali occidentali sia stato molto spesso più grande di quanto comunemente si creda. Il comunismo sembrava il vettore più adatto per avvicinarsi al potere, era un vettore specifico che dava l’illusione di poter operare una variazione totale della storia. Poi bisogna comunque distinguere tra chi ha avuto un ruolo solo ideologico e chi ha operato praticamente».

Lei nei suoi libri ha equiparato tutti i totalitarismi e quindi comunismo e fascismo. È per questo che testi curati da lei come Il Libro nero del comunismo sono stati duramente attaccati?

«Il mio libro è stato attaccato per tre ragioni: fornisce dei dati storici incontestabili che mostrano il versante criminale del sistema sovietico e comunista in generale; ha spaventato gli intellettuali perché ad alcuni è sembrato criticare l’idea stessa di rivoluzione; e poi perché ho scritto chiaramente che il comunismo ha la stessa valenza distruttiva del nazismo. Sono due totalitarismi simili, e in molti non mi hanno perdonato di averlo detto».

La Costituzione italiana rifiuta il fascismo. Non fa cenno però al comunismo. Dunque secondo lei non è compiutamente anti totalitaria?

«Siamo al cuore della manipolazione realizzata da Stalin a partire dal 1934. Stalin è riuscito in una manovra propagandistica in cui si creava l’amalgama perfetto tra democrazia e antifascismo e poi, con un salto logico, tra antifascismo e comunismo. È riuscito a far sembrare il comunismo democratico. È evidente che si tratta di un falso, ma costruito in maniera geniale. Stalin è intervenuto contro Franco in Spagna, ha prodotto, nel 1936, una costituzione che sulla carta è bellissima. In contemporanea stava già operando le peggiori delle purghe... Ma l’idea del comunismo democratico era stata già venduta».

Quindi la matrice totalitaria nel comunismo è stata inserita da Stalin?

«Io credo di no. In disaccordo con Hannah Arendt io sono convinto che la matrice totalitaria sia stata fabbricata da Lenin. Stalin ha semplicemente fatto in grande ciò che Lenin aveva iniziato a fare in piccolo. Lenin ha scelto di applicare solo quelle parti della dottrina di Marx che favorivano una presa del potere rapida e totale».

E sulla caduta del comunismo sovietico che cosa pensa? E della democratizzazione di Gorbaciov?

«Innanzi tutto è mia convinzione che la causa principale della caduta del comunismo sia stata il fallimento della sua dottrina economica... Altre cause come lo scontro con gli Stati Uniti o il perdurare dei nazionalismi sotto la “crosta” sovietica hanno contribuito, ma non sono quella fondamentale... Quanto a Gorbaciov, credo che non avesse un’idea chiara del livello di crisi. Credo che la perestrojka e la glasnost fossero soprattutto degli strumenti. Voleva utilizzarli per battere all’interno della nomenklatura la fazione che si opponeva alla sua ascesa al potere. Quando però ha inserito alcune gocce di democratizzazione all’interno della macchina del partito, il sistema è imploso... Bisogna però riconoscergli che non ha fatto mai ricorso alla violenza. Si è rifiutato di sparare sulla gente. I cinesi invece l’hanno fatto».

Il comunismo dopo il crollo dell’Urss è un’ideologia definitivamente morta?

«L’ideologia marxista-leninista non ha un futuro, ma la volontà di una società egualitaria sì. È un’idea molto più antica di Marx... Dipende da come la si declina, ne vedremo forme nuove e poi vedremo vecchi intellettuali marxisti-leninisti o marxisti-maoisti che si riciclano. In Francia ne ho presenti alcuni... E anche Toni Negri ha un discreto successo...».

Parlando di continuità storiche... Esiste un filo rosso fra il totalitarismo comunista e il giacobinismo nato dalla rivoluzione francese?

«Sì. Credo che ci sia un preciso filo rosso tra la presa del potere di Robespierre e ciò che ha fatto Lenin in Russia. La differenza è però il diverso livello ideologico. Robespierre non aveva un’ideologia precisa, né una visione storica. L’altra grande differenza è che né Robespierre né i suoi erano dei professionisti della rivoluzione. Invece Lenin ha inventato il rivoluzionario di professione».

di Matteo Sacchi

sabato 12 dicembre 2009

Quella sovranità della moneta in mani private

Abbiamo ricominciato a tremare per le banche. Abbiamo ricominciato a tremare addirittura per gli Stati, a rischio di fallimento attraverso i debiti delle banche. Si è alzata anche, in questi frangenti, la voce di Mario Draghi con il suo memento ai governanti: attenzione al debito pubblico e a quello privato; dovete a tutti i costi farli diminuire. Giusto. Ma l’unico modo efficace per farli diminuire è finalmente riappropriarsene. Non è forse giunta l’ora, dopo tutto quanto abbiamo dovuto soffrire a causa delle incredibili malversazioni dei banchieri, di sottrarci al loro macroscopico potere? Per prima cosa informando con correttezza i cittadini di ciò che in grande maggioranza non sanno, ossia che non sono gli Stati i padroni del denaro che viene messo in circolazione in quanto hanno delegato pochi privati, azionisti delle banche centrali, a crearlo.
Sì, sembra perfino grottesca una cosa simile; uno scherzo surreale del quale ridere; ma è realtà. C’è stato un momento in cui alcuni ricchissimi banchieri hanno convinto gli Stati a cedere loro il diritto di fabbricare la moneta per poi prestargliela con tanto di interesse. È così che si è formato il debito pubblico: sono i soldi che ogni cittadino deve alla banca centrale del suo paese per ogni moneta che adopera. La Banca d’Italia non è per nulla la «Banca d’Italia», ossia la nostra, degli italiani, ma una banca privata, così come le altre Banche centrali inclusa quella Europea, che sono proprietà di grandi istituti di credito, pur traendo volutamente i popoli in inganno fregiandosi del nome dello Stato per il quale fabbricano il denaro.
Ha cominciato la Federal Reserve (che si chiama così ma che non ha nulla di «federale»), banca centrale americana, i cui azionisti sono alcune delle più famose banche del mondo quali la Rothschild Bank di Londra, la Warburg Bank di Berlino, la Goldman Sachs di New York e poche altre. Queste a loro volta sono anche azioniste di molte delle Banche centrali degli Stati europei e queste infine, con il sistema delle scatole cinesi, sono proprietarie della Banca centrale europea. Insomma il patrimonio finanziario del mondo è nelle mani di pochissimi privati ai quali è stato conferito per legge un potere sovranazionale, cosa di per sé illegittima negli Stati democratici ove la Costituzione afferma, come in quella italiana, che la sovranità appartiene al popolo.
Niente è segreto di quanto detto finora, anzi: è sufficiente cercare le voci adatte in internet per ottenere senza difficoltà le informazioni fondamentali sulla fabbricazione bancaria delle monete, sul cosiddetto «signoraggio», ossia sull’interesse che gli Stati pagano per avere «in prestito» dalle banche il denaro che adoperiamo e sulla sua assurda conseguenza: l’accumulo sempre crescente del debito pubblico dei singoli Stati. Anche la bibliografia è abbastanza nutrita e sono facilmente reperibili sia le traduzioni in italiano che i volumi specialistici di nostri autori. Tuttavia queste informazioni non circolano e sembra quasi che si sia formata, senza uno specifico divieto, una specie di congiura del silenzio.
È vero che le decisioni dei banchieri hanno per statuto diritto alla segretezza; ma sappiamo bene quale forza pubblicitaria di diffusione la segretezza aggiunga alle notizie. Probabilmente si tratta del timore per le terribili rappresaglie cui sono andati incontro in America quegli eroici politici che hanno tentato di far saltare l’accordo con le banche e di cui si parla come dei «caduti» per la moneta. Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy sono stati uccisi, infatti (questo collegamento causale naturalmente è senza prove) subito dopo aver firmato la legge che autorizzava lo Stato a produrre il dollaro in proprio.
Oggi, però, è indispensabile che i popoli guardino con determinazione e consapevolezza alla realtà del debito pubblico nelle sue vere cause in modo da indurre i governanti a riappropriarsi della sovranità monetaria prima che esso diventi inestinguibile. È questo il momento. Proprio perché i banchieri ci avvertono che il debito pubblico è troppo alto e deve rientrare, ma non è possibile farlo senza aumentare ancora le tasse oppure eliminare alcune delle più preziose garanzie sociali; proprio perché le banche hanno ricominciato a fallire (anche se in realtà non avevano affatto smesso) e ci portano al disastro; proprio perché è evidente che il sistema, così dichiaratamente patologico, è giunto alle sue estreme conseguenze, dobbiamo mettervi fine. In Italia non sarà difficile convincerne i governanti, visto che più volte è apparso chiaramente che la loro insofferenza per la situazione è quasi pari alla nostra.

Ora il suo destablishment può risvegliare l’Italia


Un rivoluzionario accerchiato da conservatori. È il presepe del nostro Paese al termine di un anno tempestoso. Un re rivoluzionario amato dal suo popolo che reagisce in modo feroce contro i poteri forti e inerti. Destablishment. Ovvero un leader contro l’establishment. Non so come andrà a finire, prevedo una tregua di Natale ma non intravedo ricomposizioni venture. Però vorrei tentare un’altra lettura, inconsueta e forse leggermente eversiva, della situazione. Approfittando della complicità del popolo sovrano, un intruso, quasi un folletto, uno scazzamuriello, si è infilato nel cuore delle istituzioni, in mezzo alla Casta dei politici di lungo corso, dei Magistrati, dei Tirannosauri e degli opinion makers del Paese. E mette a dura prova i codici del Politicamente Corretto, il Galateo delle ipocrisie, le Paralisi incrociate e le cerimoniose omertà. Dice quel che pensano gli italiani e questo è un bene e anche un male, per carità, un segno di libertà ma anche di irresponsabilità, non dico di no. Però il proposito non è di sfasciare ma di governare, non di distruggere ma di costruire, non di violare ma di rispettare il mandato democratico, di ridare fiducia a un Paese stanco, vecchio, annoiato, disperato; piegato su se stesso, senza prospettive, senza idee forti, senza vere élites. Un Paese spompato.

I Palazzi del Potere, le Occhiute Istituzioni, i Supremi Vigilanti, a volte muniti dei conforti religiosi di qualche catechista sull’orlo dell’ateismo, non reagiscono al declino italiano, all’inerzia con cui si perpetuano le classi dirigenti, all’assenza di riforme e di grandi opere, all’invasione di immigrati per resa, denatalità e stanchezza degli indigeni. Stanno lì impalati ad amministrare solo il loro potere e i suoi riti senz’anima in un Paese cadaverizzato, che non sembra entrato in Europa ma in obitorio. Usano paramenti sacri per travestire di autorevolezza il Vuoto che essi rappresentano. Impassibili di fronte al degrado della vita pubblica e privata, reagiscono in modo veemente solo alle pazzie dell’Intruso, riscoprono le energie solo per castigare il Bambino Rivoluzionario che si è infilato, col favore popolare, in Palazzo Chigi. Fermatelo, sparatelo, arrestatelo, fate qualcosa. Lo dicono i suoi avversari di ieri ma anche i suoi beneficiati di ieri, lo dicono i Gendarmi delle istituzioni e le comari della Repubblica. Eppure questo Paese altro che di elettrochoc avrebbe bisogno; una cura da cavallo più che da Cavaliere, un trauma per svegliarsi. Qui il Paese sta scemando, sfuma nella vecchiaia non solo anagrafica ma politica e civile, non vi dico poi che zombie rappresentano la cultura del Paese, impedendo che entri aria nuova. La creatività se n’è andata via da un pezzo dal Paese dei talenti; non c’è pane amore e fantasia ma una carica di livore nel grigiore di tanta mediocrità. La pizza trionfa nel mondo eccetto in Italia dove vincono il sushi e il kebab. La lingua italiana gode una stagione di rinascita internazionale mentre patisce una povertà senza precedenti in casa propria. Alla fine l’Italia sarà riprodotta dai giapponesi o a Las Vegas, andrà più la copia che l’originale. Ma questo, ai 40 marpioni che comandano in Italia, frega poco o punto. L’importante è cacciare Ali Babà. Ridurre il premier a venditore di tappeti volanti, se non a criminale; nel nome della serietà o forse della serialità: bisogna essere politici di serie, dire le stesse cose, non uscire mai dal protocollo e dal minuetto dei raggiri istituzionali. Quel che chiamano rispetto della Norma e rigetto dell’eccezione, è proprio questa serialità, questo rifiuto dell’eccellenza, questo conservatorismo della mediocrità che isola chi eccede dallo standard.

Da una vita difendo il senso dello Stato e il decoro delle istituzioni, l’amor patrio e il valore dell’italianità. Ma quando lo Stato è solo contrazione di statico, quando il decoro si riduce al coro monotono della finzione permanente, quando l’amor patrio è solo difesa della patria di lorsignori, ovvero della casta che domina e che lascia deperire l’italianità, allora preferisco lo strappo. Questo Paese è imbalsamato, ha bisogno di una scossa. Certo, non di una guerra incivile permanente, non di una caduta nel brigatismo rozzo e nell’eccitazione continua. Ma ha bisogno di una scossa. Riforme, messaggi, mobilitazioni, risvegli. Berlusconi esagera? È vero, esagera anche se non ricordo una caccia all’uomo paragonabile a quella che sta vivendo lui. Ma vi rendete conto che questo Paese rischia di prendersi la croce assurda di Mafiopoli, ovvero di accettare la nomea inverosimile di Paese dove regna la Mafia, pur di disarcionare il Cavaliere dal governo? C’è gente che è disposta a distruggere la credibilità del nostro Paese, il suo collante interno e la sua immagine esterna, pur di sovvertire l’esito del voto e mandarlo a casa, meglio se agli arresti domiciliari.

Tra le dichiarazioni contro Berlusconi merita l’oscar del ridicolo quella del suo ex sodale e adottivo GianBruto Fini: Berlusconi chiarisca. Ma siamo scemi? Non era fin troppo chiaro quel che ha detto a Bonn? Semmai l’esortazione doveva essere opposta: non chiarisca troppo, si fermi a un linguaggio più paludato e diplomatico, renda oscuro il suo messaggio brutale, più conforme al burocratichese e al politichese. Mi auguro che i toni eccessivi siano gradualmente cancellati, che si torni al rispetto reciproco e alle buone maniere. Ma mi auguro che la spinta rivoluzionaria passi dal lessico esagerato alle opere. Che la rivoluzione cominci, e finiscano i proclami.

(di Marcello Veneziani)

martedì 8 dicembre 2009

Quell’odio civile che ci fa sembrare un Paese mafioso


Ora che il ciclone mafioso e violaceo si è abbattuto, si possono contare i danni. Due grandi vittime ha mietuto l’uragano ma nessuna delle due è Berlusconi, che anzi dalle piazzate mediatico-giudiziarie e dai pentiti è uscito rafforzato, psicologicamente ferito ma politicamente ed elettoralmente ringalluzzito. No, le due vittime, a cui se permettete tengo di più del premier, sono l’Italia nel mondo e l’Italia in casa sua, spaccata in due dall’odio civile. Non perdonerò mai a chi ha raccolto, enfatizzato, creduto o almeno usato le chiacchiere di Spatuzza, la gravissima responsabilità di aver fatto precipitare la considerazione dell’Italia nel mondo, la sua immagine e la sua credibilità. Già eravamo sulla brutta china da tanto tempo, e poi ancor più da quest’anno, dopo la Primavera di Noemi, l’Estate di Patrizia e l'Autunno di Spatuzza. Senza dire delle mezze stagioni dei Lodi, Mondadori e Alfano. Ora andiamo verso l’inverno, la quarta stagione, e mi preoccupano i cappotti e gli scheletri che affolleranno l’armadio Quattrostagioni del nostro Paese. Vista la progressione delle stagioni, dopo la mafia verrà il satanismo? Il logo mafia attecchisce che è una meraviglia nel mondo; basta citarlo, anche con un film, anche con un pettegolezzo, anche con l’ultimo e il meno credibile dei pentiti, e il mondo ne parla, fa copertina, lo riprende e lo rimbomba. Perché conferma uno storico e mitologico luogo comune sul nostro Paese e tutto un apparato di simboli e di liturgie: la mafia è uno dei marchi più riconosciuti nel pianeta, esportato ovunque dalla Russia alla Cina; e Camorra-Gomorra o per i buongustai del ruspante la ’ndrangheta, sono i marchi associati. Pochi magari ricordano che la sua reintroduzione a pieno regime in Italia, direi la sua legittimazione, non fu a livello locale ma avvenne a livello internazionale, con lo sbarco americano in Sicilia nel ’43; evento glorioso, per carità, ma con il sostegno indispensabile di Cosa nostra da Lucky Luciano in giù. Gli americani ci portarono la libertà ma ci restituirono anche la mafia, assente o sottotraccia negli anni del prefetto Mori e del fascismo.
Sarà difficile risalire la china di Paese mafioso, oltre che puttaniere e corrotto. Di questa fama dobbiamo essere tristemente grati a quanti, seguendo l’esempio di Tonino Di Pietro che comprò pagine sui giornali internazionali per sputtanare Berlusconi, sputtanando semplicemente l’Italia, hanno lavorato alla demolizione dell’immagine internazionale del Paese. Vorrei dire loro: anche l’odio più feroce e perfino più motivato verso un premier non potrà mai giustificare il danno inferto al Paese, agli italiani e ai rapporti internazionali.
Ma il primo, gravissimo danno internazionale si accoppia ad un secondo, gravissimo danno: ho vissuto da ragazzo gli anni di piombo, gli anni delle stragi, la lotta antifascista e anticomunista, il tempo del terrorismo e della caccia al fascista. Ma vi posso dire che non ho mai respirato come adesso un clima di odio generale. Sì, generale. Quello di allora era l’odio tra due minoranze militanti, e magari la ghettizzazione e la criminalizzazione di una; ma il corpaccione del Paese non era in fondo toccato fino a questi livelli. La grande maggioranza degli italiani, la borghesia, era temperata e prudente, nutriva dissensi ma sapeva trasferirli nella fiction dell’ideologia o del ricordo storico. Ma quando si tornava alla realtà, ci si poteva intendere sul resto. Ora invece l’odio attraversa l’intera società, si è fatto etnico e razziale, la razza dei berluscones; divide le cene e i salotti, gli autobus e i treni, insomma è un odio da passeggio e da diporto, da lavoro e da dopolavoro. Vi assicuro di aver visto inermi e rispettabili lettori del Giornale, trattati il giorno della manifestazione no-bidè (ricordo che devo la definizione al mio salumiere), come una cosca criminale. Mi hanno fermato un gruppo di lettori del Giornale, rispettabili professionisti, a passeggio per Campo de’ Fiori, romani e calabresi, e si sono avvicinati a me con fare guardingo, come si avvicinano i dissidenti in un regime autoritario. Il dato paradossale è che i clandestini in questione erano filogovernativi, stavano con la maggioranza degli elettori. Ma dovevano nascondersi. Mi hanno detto che hanno passato brutti momenti perché hanno acquistato il Giornale e vista la riprovazione dell’edicolante, hanno rafforzato la dose con Libero, aggravando così la loro posizione. Sono stati costretti a nasconderli, perché considerati provocatori da una turba di squisiti sprezzanti.
Un odio violaceo; in fondo il viola, che nella vita e nel calcio è un colore bello e nobile (lo dico anche da tifoso della Fiorentina), a teatro e in politica è un rosso andato a male, inacidito e un po’ jettatorio, un rosso bilioso, che si è fatto blu di rabbia. Ma non è la manifestazione il problema; è il clima che si respira, l’odio, le deposizioni spettacolo, i giornali usati come clavi e marchi identitari, come si usa con le mucche. Di tutto questo, certamente soffrirà l’agibilità politica del governo Berlusconi, ma il consenso - al contrario - non viene scalfito, semmai si rafforza. Tanto più che le parole di Spatuzza erano commentate dai fatti di due boss mafiosi arrestati e dalla considerazione, comune ma espressa anche dal capo dell’Antimafia, Grasso, che mai la mafia ha subito tanti colpi come ora, sotto la coppola, o la cupola governativa, di don Silvio Berlusconi.
Devo ammettere una cosa: a me consola poco sapere che il suo consenso è in crescita; mi preoccupa di più il crollo d’Italia, nell’immagine internazionale e nella guerra civile interna. Chi vota Berlusconi o peggio scrive per il Giornale, è trattato dai credenti violacei del potere mediatico-giudiziario - più appendice politica di sinistra - come un picciotto, un criminale, un affiliato a Cosa nostra. Trenta milioni di mafiosi abitano il nostro Paese, insieme a tre milioni di virtuosi; il resto mancia. Il Giornale è stato promosso dagli esimi colleghi in viola, dal manganello alla lupara. Chiudo il pezzo scritto con un computer a canne mozze. Baciamo le mani.

(di Marcello Veneziani)

domenica 6 dicembre 2009

venerdì 4 dicembre 2009

La denuncia della Caritas: peggiora la situazione dei palestinesi


In una dichiarazione in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, celebrata il 29 novembre, Caritas Gerusalemme ha fatto appello “ai Governi e alla comunità internazionale affinché compiano passi concreti che portino alla pace e alla stabilità in questa Terra”.

Allo stesso modo, esorta a lavorare “per la realizzazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, della legalità internazionale e della IV Convenzione di Ginevra, di modo che l'anelito a uno Stato palestinese sovrano non sia solo un sogno, ma comporti una vera speranza che si possa trasformare in realtà”.

Caritas Gerusalemme ricorda che “la situazione, che si deteriora giorno dopo giorno a Gaza e in Cisgiordania, richiede azioni immediate, sia sul campo che a livello di comunità internazionale, visto che nulla può giustificare la costante e continua sofferenza di uomini, donne e bambini innocenti”.

“E' ora della pace tra israeliani e palestinesi – afferma la nota –. Crediamo che porre fine all'occupazione e al conflitto per permettere a due Stati di vivere fianco a fianco sia avere una visione di pace, giustizia e riconciliazione tra i due popoli della Terra Santa, e che sia ancora possibile nonostante disperazione e scoraggiamento”.

Condizioni precarie nei Territori palestinesi

In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, la Caritas denuncia “lo sfollamento di migliaia di famiglie palestinesi”, che per più di 60 anni sono state private “del loro diritto inalienabile all'autodeterminazione”, e il fatto che lo Stato palestinese “non abbia ancora visto la luce”.

Al contempo, lamenta che in tutto questo tempo “la sofferenza e il dolore del popolo palestinese, e molti sforzi politici e altre iniziative, siano rimasti nel dimenticatoio, mentre la situazione nei Territori Palestinesi continua ad essere preoccupante”.

Caritas Gerusalemme condanna le gravi limitazioni imposte quotidianamente da Israele attraverso “il muro di separazione con più di 500 controlli militari e altre barriere fisiche, che continuano a frammentare la società palestinese a livello territoriale, economico, sociale e politico”.

Questa situazione, osserva, “non solo rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale, ma è anche un grande ostacolo al raggiungimento della pace e della riconciliazione”.

“Ci possiamo chiedere come possa esistere un processo di pace quando il tessuto della vita quotidiana è totalmente distrutto – osserva Caritas Gerusalemme –. Tra le loro risorse prosciugate, dove possono trovare i palestinesi la motivazione per un dialogo che permetta di trovare nuove vie per la pace?”.

“Siamo certi che la pace sia possibile, e per questo preghiamo il Dio di tutti perché porti pace, giustizia e riconciliazione a tutti i suoi figli in Terra Santa”, conclude la nota.

Il traditore Fini lascia orfana la destra del Pdl

Finì. Il sostantivo, rivelatosi senza sostanza, mutò in verbo. Finì il leader della destra italiana, l’alleato di Berlusconi e forse il suo più popolare successore, finì il patto con lui. Non ripeterò le cose che ha già scritto il Giornale e che ha già detto il popolo dei lettori e degli elettori. Sono cose che condivido e che non devo ripetere, avendole scritte già da qualche anno, quando quasi nessuno le diceva. Non mi pare il caso di ribadire l’abissale differenza tra il leader Berlusconi e lo speaker Fini. E non mi piace celebrare i divorzi, esaltarmi per le mattanze o invocare la chiusura rapida del rapporto tra lui e il Popolo della libertà. Le separazioni non si festeggiano. Sono atti dolorosi ma a volte necessari. Vorrei fare un passo in più e dire un’altra cosa: ora ci vuole qualcuno che rappresenti quel mondo di persone, di comunità, di valori, di sensibilità, di mentalità che un tempo si chiamava destra. Qualcuno che all’interno del Popolo della libertà - riconoscendo la leadership di Berlusconi come pienamente legittima, condivisa ed evidente, una leadership nei fatti, non ideologica - rappresenti autorevolmente all’interno di questo vasto mondo l’accentuazione di temi, ragioni e passioni che attengono ad una parte rilevante del centro-destra.

Lo dico per tre ragioni. La prima è che si tratta di dare una voce, una rappresentanza, un peso a un mondo che non può restare sottinteso e sottotraccia. L’importanza dell’identità nazionale, la difesa della nostra civiltà cristiana ed europea, il senso dello Stato e dello spirito pubblico, la memoria storica del nostro paese e la capacità di giudizio del nostro passato non succube delle vulgate culturali dominanti, il senso religioso ma non clericale, il primato della famiglia, la rivoluzione meritocratica e la preferenza comunitaria. Tutto questo è perfettamente compreso dentro il popolo della libertà, pienamente inserito nel suo orizzonte; ma insieme a una visione liberale e liberista, laica e transnazionale, garantista e plurale. Il popolo della libertà ha ereditato anche i versanti del craxismo, della dc più moderata, dei laici, liberali e repubblicani, è un mondo composito, che nel suo complesso, si riconosce tutto nel leader Berlusconi. Ma è necessario che sia visibile e audace quella componente di un vero e moderno conservatorismo, che Fini ha disatteso e tradito. Perché i tradimenti di Fini, lo sapete bene, sono due, o forse ventidue. Uno, vistoso, è nei confronti di Berlusconi, del governo e dell’alleanza con lui. Ma l’altro, sostanzioso, è rispetto a ogni tipo di destra. Non solo quella classica, non solo quella missina, non solo quella conservatrice e tradizionalista, ma anche quella che difende i valori religiosi e nazionali, e parlo di destre europee in corso, come quella di Sarkozy che affrontò la sua battaglia politica ed elettorale partendo dall’idea di rovesciare il ’68 ancora vivo nelle viscere francesi. O anche inglese, tedesca, spagnola. Non può gemellarsi con Aznar e poi assumere posizioni più vicine a Zapatero che ad Alianza popular. Smettetela voi del fan club di Fini, e mi riferisco soprattutto alla stampa, perché Fini è l’unico che abbia finora unito Corriere della sera, Repubblica, ma anche Stampa e Sole-24 ore, di definire quella di Fini «la destra moderna». Giudicatela come volete, ma quella di Fini non si può definire in quel modo. È altra roba, che può piacere a gente che proviene dal mondo radical, forse liberal, comunque più di sinistra. Un piacere che non muta in consenso. E in democrazia non si può fare politica prescindendo dal consenso dei popoli e dagli orientamenti culturali nella vita reale del paese.

Seconda ragione. In politica non esistono i vuoti e non si può pensare di amputare il Popolo della libertà senza pensare a niente e nessuno che possa colmare quell’arto fantasma ma reale, profondo e diffuso. Berlusconi non può colmare tutti gli spazi e le altrui carenze, caricarsi di tutte le defezioni; perfino gli imperi prevedevano al loro interno diversità e costellazioni, seppure armoniose, e così duravano nel tempo e sopravvivevano a tutto e a tutti. Ogni perdita deve essere bilanciata da una conquista, ogni defaillance da un rilancio. I vuoti sono pericolosi ed è necessario anche a Berlusconi che qualcuno bilanci la presenza forte della Lega.

E qui sorge la terza ragione. È necessario rifondare e rinnovare una componente comunitaria e nazionale dentro il Popolo della libertà anche per tutelare il bipolarismo. Cresce l’idea, che personalmente coltivo da lungo tempo, che oggi la garanzia del bipolarismo sia la presenza di Berlusconi, perché le due coalizioni in campo sono in suo nome, pro e contro di lui. E ci sono partiti, come quello dipietrista, che perderebbero la loro ragion d’essere senza di lui. La manifestazione del 5, che il mio salumiere chiama il No-bidè (No B. day), ne è una prova ulteriore. Perché il nostro paese riesce a reggere il bipolarismo, ma non il bipartitismo assoluto, e Bossi e Di Pietro lo confermano. Ma se si vuole tutelare il bipolarismo occorre far crescere le diversità dentro e non fuori del bipolarismo. Renderle compatibili, sinergiche, leali. Il contrario di quel che hanno fatto Gianfrego e Pierfrego, per intenderci, per riferirci appunto a Fini e Casini. È necessario trovare qualcuno che sieda degnamente alla destra del padre.

(di Marcello Veneziani)

Globale o locale? La politica cerca una nuova identità

Alla caduta del Muro piansi d’emozione. Il Muro non era una frontiera. Le frontiere possono essere un luogo di scambio: filtrano, non fermano i flussi. Ma non ci sono scambi dove c’è un muro. Nei decenni il Muro di Berlino mi parve un’orribile cicatrice. Vederlo crollare fu una vera gioia, così come sentire i manifestanti delle due Germanie gridare in coro: Wir sind ein Volk! (Siamo un solo popolo!). Le delusioni vennero dopo.
Innanzitutto la riunificazione tedesca non fu superamento dei sistemi della Repubblica federale di Germania (Brd) e della Repubblica democratica tedesca (Ddr), ma assorbimento della Germania est nella Germania ovest. I tedeschi orientali divennero «occidentali». Passarono dalla Ddr, sotto influenza sovietica, alla Germania, sotto influenza «atlantica».
Annuncio dello sgretolarsi del sistema sovietico, la caduta del Muro di Berlino non segnò solo la fine del dopoguerra. Chiuse anche il XX secolo, il «secolo breve»: 1917-89 (la guerra del 1914 cambiò natura nel ’17, con la rivoluzione russa e l’entrata in guerra degli Stati Uniti). Più in generale, finì l’ampio vasto ciclo della modernità, cominciato dal Rinascimento. Dagli anni ’90 siamo nell’era postmoderna, non più nell’era degli Stati-nazione, ma in quella delle comunità, delle reti e dei grandi complessi continentali.
Troppo spesso si dimentica il contributo alla globalizzazione dato dalla fine dell’Urss. Ormai il pianeta è unificato, ma di un’unificazione dialettica, perché, in reazione al movimento principale, comporta un’altra frammentazione. Ma le frontiere non fermano più niente: né uomini, né merci, né comunicazioni, né tecnologie. I mercati finanziari agiscono in «tempo reale» da un capo all’altro della Terra. In un attimo le crisi locali diventano mondiali. La tecnoscienza s’estende ovunque. Il liberalismo e la logica del capitale dominano tutto, mentre l’ideologia dei diritti dell’uomo è la nuova religione civile. Un mondo di tal fatta non ha più nulla d’«esterno» (nel senso che, durante la Guerra fredda, il «mondo libero» era «esterno» al blocco sovietico). È ciò che Paul Virilio chiama globalitarismo.
Infine la caduta del Muro di Berlino estingue il Nomos della Terra risalente al 1945. In greco nomos è «legge», ma anche, in origine e in generale, «ripartizione, spartizione». Il Nomos della Terra descrive la disposizione generale dei rapporti di forza internazionali. Carl Schmitt distingue il susseguirsi di tre grandi Nomos della Terra: il primo va dalle origini alla scoperta del Nuovo Mondo; il secondo si confonde con l’ordine degli Stati-nazione nati dal trattato di Westfalia; il terzo scaturisce dalla fine della II guerra mondiale e si connette all’ordine binario (americano-sovietico) di Yalta. La nostra epoca d’incertezza e transizione - quanto lontana dalla fine della storia, annunciata da Francis Fukuyama! - ci fa chiedere: quale sarà il quarto Nomos della Terra? Avremo il mondo unipolare, consacrazione del potere planetario della potenza dominante, gli Stati Uniti d’America; o avremo il mondo multipolare - pluriversum, non universum -, dove i grandi complessi culturali e civili si manterranno diversi, agendo come poli regolatori della globalizzazione?
La questione del quarto Nomos della Terra pone però anche il problema della «quarta teoria politica». Il XVIII secolo vide nascere il liberalismo; il XIX, il socialismo; il XX, il fascismo. Nel XXI quale teoria politica nascerà? Oggi ogni grande ideologia che abbia formato la modernità è in crisi e, come ogni famiglia politica, cerca una nuova identità. La teoria politica del futuro combinerà e supererà, nel senso hegeliano del termine, le passate teorie. Tenterà di combinare libertà e giustizia sociale, lotta all’alienazione e volontà d’autonomia, senso della misura e affermazione di sé, valori disinteressati e «comune decenza» (common decency) di George Orwell. C’è una connessione fra globalizzazione, postmodernità, quarto Nomos della Terra e quarta teoria politica.

(di Alain de Benoist)