lunedì 16 aprile 2012

Pansa: ecco come la sinistra ha smesso di essere sinistra


"Attenzione a Maurizio Landini. Il capo della Fiom è un apprendista, ma è una spina nel fianco della Camusso e presto potrebbe anche essere decisivo, se non negativo per le sorti italiche". Giampaolo Pansa ha stilato il suo girone dantesco e vi ha collocato tutti i tipi sinistri del bel paese. Per ognuno ha individuato un vizio, che ne riassume la storia politica, quasi sempre un fallimento. E il reggiano Landini, il meccanico di Montagna, lo ha collocato nel girone degli apprendisti, assieme assieme a Niki Vendola, Matteo Renzi e Luigi De Magistris. Succede che l’autore del Sangue dei Vinti, si travesta da moderno Dante Alighieri e inizi a fare un viaggio nella sinistra italiana, raccontandone 20 anni di illusioni e sconfitte, manie e sogni infranti. Il tutto è rilegato da Rizzoli con il titolo di “Tipi sinistri”.

Pansa, ci è ricascato. Ancora un libro contro la sinistra. Ma quando la smetterà con questo viziaccio di parlar male dei compagni e si concentrerà su Berlusconi?

E io che posso farci? Mi dica lei quanti e quali risultati ha ottenuto la Sinistra in questi anni a forza di concentrarsi sul male Berlusconi?

Secondo lei?

Non è riuscita a dare un’alternanza pacifica tra un lato e l'altro dello schieramento politico...

Un po’ per colpa del Cavaliere...

Certo, ma ad un certo punto si è abbandonata alla convizione che senza Berlusconi i miracoli crescessero nei prati. Ma non è andata così. Il fatto è che l’Italia non è un paese di sinistra. Siamo qui a celebrare un’incompiuta.

Che adesso trova spazio tra i gironi danteschi...

E dato che le idee camminano sulle gambe, voglio raccontare ai miei lettori come è fatta davvero questa Sinistra. Quello che non fanno certi ambienti librari e intellettuali per i quali a Sinistra c’è sempre il sole e a destra piove. No, non è così.

Da chi incominciamo?

Ad esempio dal vostro conterraneo Landini.

Il meccanico della Montagna...

Cresciuto all’ombra utopistica di Sabatini e Rinaldini nella Fiom. E’ un conservatore come lo sono tutti i capi sindacali. Il sistema mediatico lo sta facendo diventare grande, ma rischia di essere negativo nell'avvenire di oggi.

Prodi.

Girone degli sconfitti. Democristiano. Un fuor d'opera. La prova che la Sinistra non riesce a vincere da sola. Punta al Quirinale.

Bersani.

Superstiti, con D’Alema, Fassino e Veltroni. Un vigile del fuoco che non ha l’acqua per spegnere l’incendio in casa sua.

Di Pietro.

Isterici. I cannibali amano l’agguato.

Rutelli.

Dispersi. Gli chiesi se fosse convinto di battere Berlusconi. Mi rispose: 'Si è sciolto l’iceberg degli indecisi'. Un kamikaze.

Adesso che succede?

Io vedo due scenari. O Monti prosegue con un partito dietro nuovo come lo ipotizza Casini oppure vince la Sinistra.

E siamo da capo...

Appunto. Rischiamo il disastro.

Colpa della Casta.

Anche perchè adesso la gente è arrabbiata davvero. Insomma il trio della fotografia di Vasto mi spaventa e non poco.

(di Andrea Zambrano)

sabato 14 aprile 2012

Quel mito inaffondabile ancorato al Novecento


Era talmente inaffondabile, il Titanic, che un secolo dopo essere colato a picco, nella notte fra 14 e 15 aprile del 1912, ancora continua a navigare. Storia, romanzo, metafora, termine di paragone ne assicurano la rotta e permettono di indicarne latitudine e longitudine sotto l'ottica di una società divisa in classi e quindi destinata al disastro; di una fiducia nella tecnica tanto assoluta quanto cieca; di un capitalismo senza freni e perciò votato ad autodistruggersi; di un titanismo ideologico-politico proprio di chi nel giro di un ventennio avrebbe provocato due guerre mondiali e ipotecato l'intero Novecento. Non è un caso che sia stato Winston Churchill a definire «titanico» il XX secolo allora appena cominciato e adesso che da poco più di un decennio ne siamo fuori, l'impressione è che in realtà ci siamo ancora dentro. È cambiato tutto, ma solo perch´ tutto restasse come prima.

L'orchestrina del Titanic che suonava mentre il transatlantico centrava l'iceberg racconta il suicidio inconsapevole di una civiltà, ma la sua musica non è molto diversa da quella di una società dei consumi occidentale immersa nella tempesta perfetta monetaria e speculativa che non ha saputo né prevedere né contenere e da cui si ostina e pensare di poter sfuggire riducendo le vele, mettendosi alla cappa e aspettando che passi. Allo stesso modo, il mito del progresso che sconfigge la forza bruta degli elementi e della natura, non è dissimile dal mito della «fine della storia» che all'indomani della scomparsa del comunismo si incaricava di raccontare una nuova alba, unica e pacificata, sulla mappa geopolitica del globo terrestre.

Storia, romanzo, metafora, termine di paragone. All'indomani della uscita cinematografica del Titanic di James Cameron, l'allora presidente cinese Jiang Zemin vi vide una parabola della lotta di classe. «I passeggeri di terza classe (il proletariato) si oppongono valorosamente all'equipaggio della nave (vili scagnozzi e leccapiedi dei capitalisti)». Dopodiché, invitò i compagni marxisti a studiare il modo in cui la pellicola dipingeva le classi e la distribuzione delle ricchezze: «arricchirsi» era divenuto «glorioso» e quindi tanto valeva andare a scuola da chi l'aveva già teorizzato...

Curiosamente, ma non troppo, il film metteva in cattiva luce quegli stessi elementi che al tempo del disastro erano stati esaltati: il controllo emotivo, la distinzione dei modi, in pratica il saper morire dei privilegiati di prima classe (123 passeggeri annegati su un totale di 175). Una sorta di conformismo all'incontrario che però la dice lunga su come, nel tempo, a uno stereotipo positivo si fosse sostituito soltanto il disprezzo e/o la caricatura, come se una classe dirigente, e dunque un’élite, non dovesse nemmeno più avere un codice comportamentale, un'etica e un'estetica a cui conformarsi.

«Tutta la nostra civiltà assomiglia al Titanic, nella sua potenza e nella sua impotenza, nella sua sicurezza e nella sua insicurezza. Non c'era alcun ragionevole rapporto fra il livello delle misure previste per il lusso e per il piacere e il livello delle misure previste per il bisogno e per la disperazione. Il progetto si era concentrato troppo sul benessere e poco sul disagio: proprio come lo Stato moderno». In questo giudizio di G.K. Chesterton, scritto a ridosso della tragedia, c'è materia interessante per un'ulteriore comparazione fra quella civiltà e la nostra. Lasciamo stare ciò che in ogni storia umana è un insieme di ambizioni e di arroganze, di privilegi e di ingiustizie, di sotterfugi e di nobiltà. Sta di fatto che, per restare al nostro Occidente, un secolo dopo, la società di massa ha vinto la sua partita sulla società di classe, così come il Welfare e lo Stato sociale hanno preso il posto del puro e semplice sfruttamento padronale.

Sulla nave da crociera Costa Concordia che si inchina per sempre davanti all'isola del Giglio non ci sono gli emigranti e le terze classi del Titanic, ma un popolo di vacanzieri per i quali il lusso è un all inclusive. C'è la crisi economica, ma non si vuole rinunciare al proprio quarto d'ora di benessere. L'imperizia, l'incuria, la ricerca del capro espiatorio e l'arroganza tecnologica lo accompagnano, anche se, di fronte alla fuga dalle responsabilità, il rifarsi a codici antichi di comportamento suona patetico proprio perché da quei codici un'intera società si è intanto affrancata considerandoli retorici, reazionari, persino fascisti. La Costa Concordia è il Titanic del XXI secolo: meno tragica, meno epica, più prosaica. Comunque sott'acqua.

(di Stenio Solinas)

venerdì 13 aprile 2012

Un Paese di cattivi esempi


Il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera in margine al workshop Ambrosetti di Cernobbio ha affermato che occorrerebbe una «sanzione sociale» nei confronti degli evasori fiscali. Parole sacrosante. Bisognerebbe alzare degli steccati che facciano sentire isolati coloro che violano le regole. È l’unica difesa che rimane a chi, con sacrificio e fatica, le regole le rispetta. Ma la «sanzione sociale» dovrebbe operare ben al di là dei reati fiscali. Invece in Italia avviene l’esatto contrario. Adriano Sofri, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi, è diventato, per meriti penali, editorialista principe del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più diffuso settimanale della destra «Panorama». Le rare volte che mi chiamano a tenere lezioni (inutili) di giornalismo in qualche università o liceo alla fine ai ragazzi che si affollano intorno a me per sapere come si fa a entrare nel nostro mestiere, dico: «Ammazzate un commissario di polizia o, se proprio non avete questo stomaco, rubate al popolo italiano». E mi riferisco ai tangentocrati che hanno ottenuto, senza avere alcuna preparazione specifica, il ruolo di editorialisti in questo o quel giornale o di conduttori televisivi.

Luigi Bisignani, adepto della P2 di Licio Gelli, fu condannato nei primi anni ’90 a due anni e sei mesi di reclusione per finanziamento illecito. Si pensava che un tipo con quei precedenti non potesse nemmeno affacciarsi a un ufficio della Pubblica Amministrazione. E invece lo ritroviamo qualche anno dopo, all’epoca della «Tangentopoli Due», ascoltatissimo consigliere dell’Amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci. Basta? Non basta. Rispunta di nuovo nella cosiddetta «P4» imputato di reati contro la Pubblica amministrazione, ma indispensabile «consigliere» dell’Ad dell’Eni Paolo Scaroni che ha bisogno del suo aiuto per concludere contratti petroliferi con la Libia di Gheddafi.

Il ministro Claudio Scajola si fece pagare metà di una lussuosa abitazione dall’imprenditore Anemone imputato di una serie di reati legati alla ricostruzione dell’Aquila e non solo. Uno così, se esistesse una «sanzione sociale», avrebbe dovuto scomparire dalla vita politica. E invece è tornato quasi subito all’onor del mondo e sarebbe ancora lì ad impartire lezioni «urbi et orbi» se non fosse arrivato il governo Monti.

Fabrizio Corona, arrestato per lo scandalo di «Vallettopoli» è diventato una star, un divo, un mito. Dopo il «boom economico» gli italiani hanno avuto una mutazione antropologica. Negli anni ’50 l’onestà era un valore vent’anni non ha certo aiutato la costante, capillare, violentissima e devastante campagna di delegittimazione della magistratura italiana condotta da Silvio Berlusconi, dai suoi giornali, dai suoi parlamentari. Se si mette in dubbio la sanzione penale come si può sperare che ci sia una «sanzione sociale»?

In ogni caso la questione è culturale e quindi di difficilissima soluzione. Come ha scritto il bravissimo cronista del «Corriere» Luigi Ferrarella lo spread fra noi e la Germania non è solo economico, è etico: «Il presidente della Repubblica tedesco ci ha messo sette minuti per dimettersi, da noi il Parlamento ha votato che una marocchina era egiziana». Ed è detto tutto.

(di Massimo Fini)

giovedì 12 aprile 2012

Tremonti: dalla crisi si esce limitando il potere della finanza


Giulio Tremonti non ha bisogno di presentazioni. Per anni è stato il ministro dell’economia dei governi Berlusconi ed è stato parte integrante del gotha politico europeo e mondiale. Con la caduta, lo scorso autunno, dell’esecutivo guidato dal Cavaliere, Tremonti è temporaneamente uscito di scena per dedicarsi alla scrittura di Uscita di sicurezza il suo ultimo libro, edito da Rizzoli e pubblicato all’inizio dell’anno, nel quale fa il punto sulla terribile crisi economico-finanziaria in corso. Uscita di sicurezza è un durissimo atto di accusa contro il potere finanziario definito senza giri di parole un “fascismo bianco”, una nuova forma di dittatura che mina alle fondamenta la democrazia occidentale. Con Giulio Tremonti abbiamo parlato del contenuto del libro e delle proposte da lui presentate per superare questo difficile momento storico.

In Uscita di sicurezza l’aspetto che probabilmente colpisce di più il lettore è la denuncia della nascita in Europa di un nuovo tipo di dittatura: il fascismo finanziario. Si tratta di una “provocazione” per risvegliare le coscienze dei lettori o crede davvero che la democrazia occidentale sia in pericolo?

“Fino a poco tempo fa il capitalismo era combinato con le ragioni dei popoli e con lo Stato sociale. Negli ultimi anni è però avvenuta una mutazione che ha causato una caduta degli antichi valori su cui per secoli si è basato il nostro mondo. Nel mio libro cerco di fare capire la pericolosità di questa mutazione e la necessità di tornare ai vecchi principi”.

Ha scritto anche che la “la finanza all’ultimo stadio” si è messa “a governare in presa diretta facendo uso dei tecnici”. Questo vale anche per il governo tecnico italiano?

“Nel mio libro non ho mai usato la parola Italia. Come riferimento ho sempre usato il caso della Grecia”.

Come giudica il modo in cui i “tecnici” stanno affrontando la crisi?

“Quello che sta succedendo in queste ore conferma che ancora non siamo nella via di uscita giusta per superare la crisi. Dal 2008 in poi per descriverla ho sempre usato una immagine, quella dei videogames. E’ come essere dentro un gioco, arriva un mostro lo batti, ti rilassi e arriva un secondo mostro più grande del primo. Prima il sistema bancario salta e per salvarlo si usano i fondi degli Stati. Poi il sistema finanziario, salvato dagli Stati, attacca senza pietà i bilanci pubblici e allora si usano i soldi delle banche centrali, in Europa della Bce. Ma, come gli ultimi eventi stanno dimostrando, la calma dura poco e il sistema torna ad essere pericoloso come era prima”.

Cosa fare quindi per interrompere questo “videogame” da incubo?

“In primo luogo bisogna uscire dall’attuale sistema ovvero bisogna ridurre il potere della finanza e impedire ai signori banchieri di usare i risparmi dei cittadini per speculare. Così come è ora se la scommessa va bene guadagnano loro se va male perdono i cittadini. In secondo luogo bisogna avviare un grande programma di opere pubbliche europee finanziato attraverso l’emissione di Eurobond. Questa visione assomiglia a quanto fece l’America dopo la grande crisi del 1929 con il varo del New Deal”.

Perché pensa che una visione simile sia fattibile?

“Perché man mano che la crisi esce dal solo ambito finanziario ed entra nella vita delle famiglie le persone e la politica si risvegliano. Questo per esempio è quello che successe in America all’inizio degli anni ’30 e che molto probabilmente succederà presto anche in Europa”.

Fino ad ora però, come lei stesso scrive, la politica è stata sconfitta dalla finanza. Perché questo è successo?

“L’ultimo grande atto della politica fu alla fine degli anni ‘90 con la globalizzazione. Questo processo per tempi e per metodi fu deciso dalla parte ‘illuminata’ della politica che pensava ad un mondo diverso basato sull’ideologia del mercato. Con la globalizzazione il mercato ha preso il sopravvento perché è stato più forte, più ricco, perché ha avuto una ideologia. Con la globalizzazione gli Stati contano sempre di meno, i politici eletti negli Stati ancora di meno e invece il mercato globale coi suoi poteri, mezzi e figure domina su tutto”.

Lei è stato parte integrante del gotha politico mondiale. Più di uno potrebbe chiedersi perché non ha provato a cambiare le cose.

“In realtà, come posso dimostrare in tanti documenti ufficiali, ci ho provato ma non ci sono riuscito”.

Perché non ci è riuscito?

“Sono fenomeni che hanno una dimensione storica. Neanche il presidente Obama, che pure aveva chiari i problemi da affrontare, ci è riuscito. Ripeto però che adesso è ancora presto ma prima o poi i popoli capiranno che vengono impoveriti e umiliati dalle politiche attuali e reagiranno votando per chi propone politiche diverse”.

Come abbiamo visto prima, per uscire dalla crisi lei propone un piano di investimenti in opere pubbliche. L’Europa preferisce però fare l’opposto e proseguire con l’austerity. Quale è il suo giudizio in merito?

“Faccio una premessa. Io sono abbastanza vecchio da ricordare il G7 e abbastanza giovane per aver visto il nuovo G20. La nascita di quest'ultimo riflette il cambiamento del mondo. Per l’Europa è finita l’età delle colonie e i vantaggi che questo potere comportava. Adesso contano tantissimo anche gli Stati che un tempo erano emergenti. Questo cambiamento fa sì che per l’Europa non sia più possibile che il deficit cresca più velocemente del prodotto interno lordo e rende necessario un maggiore controllo dei conti pubblici e quindi una revisione dello Stato sociale. Sottolineo però una revisione e non una eliminazione del Welfare State. Lo Stato sociale europeo è una cosa che dobbiamo conservare altrimenti si entra davvero nella barbarie che tanti grandi banchieri vogliono convinti che sia nel loro interesse. Perciò dobbiamo adattarlo perché è finita l’età delle colonie ma non possiamo distruggerlo”.

Torniamo un attimo alla ricetta per uscire dalla crisi: opere pubbliche. Perché sono così importanti?

“Nel XX secolo il motore della crescita è stata l’automobile. Era una cosa che sognavi di notte, che ti dava un modo diverso di esistere. E’ stata davvero un mito. L’auto ha portato tutto il resto: le strade, le autostrade, i viaggi, il turismo, ecc. La new economy o tante altre nuove scienze stanno dando moltissimo all’economia ma non sono l’equivalente dell’auto come mito di progresso e di successo. Per rilanciare davvero l’economia serve un rilancio delle grandi opere pubbliche come era nell’idea iniziale dell’Europa”.

Della green economy cosa pensa? Può essere un volano di sviluppo?

“Penso di sì. Penso che sia una cosa molto importante. Non abbiamo ancora tutti gli elementi definiti e condivisi ma certamente è un campo fondamentale su cui investire risorse pubbliche”.

(fonte: www.tiscali.it)

domenica 8 aprile 2012

lunedì 2 aprile 2012

Comunisti contro le banche. A Milano la furia degli zombie

Sabato pomeriggio: paesaggio milanese con zombie, fuorisciti dalle catacombe nonostante il sole splendente per trascinarsi berciando lungo le vie del centro. Partenza alle 14 da piazza Medaglie d’oro, si consiglia pranzo al sacco onde evitare l’acquisto dei terrificanti panini semoventi spacciati a pochi euro sui camion. I ferrivecchi sono al completo: sindacati di base, qualche bandiera di Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Sinistra critica, una folta rappresentanza del Partito marxista-leninista italiano, quello che qualche anno fa esibiva una bandiera con Lenin, Mao, Marx et similia e lo slogan «Coi maestri vinceremo». Non potevano mancare i No Tav, calati dalla Val di Susa per un tranquillo weekend di teppismo. A un certo punto, compare anche un tale senza pantaloni e mutande, che passeggia tranquillo, puntualmente ripreso e sbattuto sul web.

In totale, qualche migliaio di persone inferocite con il governo Monti e intenzionate a «occupare Piazza Affari», simbolo del Grande Capitale Internazionale. Un tempo, siffatta compagnia circense sarebbe rimasta ai margini di un più grande corteo delle sinistre. Ora, senza il comune nemico Berlusconi, a sfilare ci sono soltanto i comunisti o quel che ne resta. Le tipologie umane sono essenzialmente due: i residuati bellici di epoche antiche, i Ribellosauri con capello rado e mal lavato, ostinati nei loro sandali a gridare nel megafono ritornelli contro il «padronato». E poi i giovani tipo centro sociale, con birra in mano, pantalone sfatto e maschera di V for Vendetta da esibire ai fotografi, per sentirsi un po’ americani come gli indignati di Occupy Wall Street. Tra le due categorie pare comune la scarsa dimestichezza con lo shampoo.

A tratti, come lampi dal passato, si manifestano Paolo Ferrero e Vittorio Agnoletto (un uomo, un flashback), alla disperata ricerca di una telecamera da aggredire o di un microfono a cui dichiarare. Risuonano le solite canzoni da battaglia dei 99 Posse, roba talmente antica che il gruppo nel frattempo è riuscito a cambiare idea e a separarsi. Tutt’intorno, il deserto. I negozianti calano le saracinesche come un velo pietoso, ed è divertente notare l’esercente tartassato dal Fisco che si blinda impaurito nella bottega mentre i ragazzotti con i rasta vogliono il «potere agli operai» e si lamentano delle tasse. Certo, se poi fosse un governo sovietico a imporle, a loro starebbe pure bene. Ma in questo caso ce l’hanno con gli squali della finanza. Alcune istanze sarebbero perfino condivisibili, solo che a fianco dei coretti contro il «governo golpista» e la crisi che viene fatta pagare ai poveri cristi, i manifestanti offrono anche qualche soluzione. Per esempio che il socialismo reale salverebbe l’Italia. Oppure che «i padroni» devono essere appesi a testa in giù, possibilmente a piazzale Loreto.

Numerosi i bandieroni con falce e martello, un tizio con il passamontagna che avrà sì e no 17 anni dipinge su un muro un’immagine di Marx con la scritta «Modello tedesco». Il corteo si era inaugurato con proclami minacciosi, guardandosi in giro s’intravedeva qualche grugno apparentemente ben disposto a spaccare tutto. Il rischio c’era, visto che in mattinata due pullman provenienti da Napoli e contenenti mazze, spranghe e altri indispensabili utensili da guerriglia erano stati fermati al casello di Melegnano. Alla fine, nessuna violenza, per fortuna. Soltanto i consueti e fastidiosi vandalismi, che qualcuno dovrà poi ripulire. Scritte sulle banche, adesivi appiccicati sui cartelli stradali, il tentativo di appiccare un incendio alla filiale Unicredit a Porta Romana. Un paio di volonterosi si sono imbarcati nell’ardua impresa di costruire un muretto davanti a una Bnl: probabilmente trattavasi del primo lavoro manuale in vita loro.

L’avanzata degli zombie prosegue, ululante, fino all’agognata Piazza Affari, circondata da una nube di agenti in tenuta anti sommossa (e supponiamo dotati, vista l’occasione, di paletti di frassino, aglio e pallottole d’argento). Un valsusino, in piazza Cordusio, domanda spaesato: «È questa Piazza Affari?». Poi si accorge che i compagni stanno proseguendo. Giunti sul posto, fanno gridare dal palco improvvisato Alberto Perino dei No Tav, il quale conferma di aver partecipato perché il governo Monti è nemico del suo movimento (come tutti gli altri governi, secondo lui, dunque un corteo vale l’altro). Seguono altri oratori, ma la folla s’avvia a disperdersi. Giusto il tempo di comprare una birra al baracchino apposito e farsi rifilare uno dei tanti giornali disponibili, tra cui Lotta continua - nuova edizione (titolo lungo come un articolo: «Solo il conflitto potrà spazzarli via. La fase due facciamola noi!»), Il Bolscevico, La Comune... Infine, gli zombie sciamano via lenti, solo un po’ più brilli di quando sono arrivati. A pochi passi di distanza, in piazza del Duomo e via Torino, i vivi fanno shopping. Dopo tutto, è una bella giornata di sole.

(di Francesco Borgonovo)

Dalle rovine della tecnica rinascerà l’età dello spirito


A leggerlo con gli occhi miopi del presente, L'operaio di Ernst Jünger sembra la grandiosa metafora dell'avvento dei tecnici al potere. Anzi il Tecnico stesso sembra l'Operaio in loden, versione estrema della borghesia che si è fatta globale e immateriale come la finanza rispetto all'epoca dell'oro e del decoro. Ma più in profondità, lo sguardo profetico di Jünger è rivolto a un'epoca planetaria dominata dalla tecnica, che ha un esito a sorpresa rispetto alle sue premesse: la tecnica «spiritualizza la terra». Dopo gli dei, dopo il monoteismo, verrà lo Spirito, signore dell'Età dell'acquario, che appare attraverso i sogni e agisce mediante la magia. Lo spirito verrà tramite la tecnica, scrive Jünger, nel suo linguaggio oracolare, a volte allusivo, in alcuni tratti reticente, ed esoterico. Dopo la catastrofe e in fondo al tunnel del nichilismo il suo pensiero intuitivo scorge una luce inattesa. Non la luce di un nuovo umanesimo, come pensavano da differenti postazioni i suoi contemporanei Maritain e Gentile, Bloch e Sartre. Ma un disumanesimo integrale, una sorta di superamento dell'umano e non in una dimensione sovrumana, alla Nietzsche, ma compiutamente inumana, geologica e spirituale. In questa chiave, l'Operaio è un nuovo titano, quasi una figura mitologica, della razza di Anteo, Atlante e Prometeo, che mobilita il mondo tramite la tecnica, che è il suo linguaggio.

L'operaio di Jünger - o Milite del lavoro, come preferivano tradurre Delio Cantimori e anche Julius Evola - compie 80 anni e per l'occasione esce finalmente in Italia Maxima-Minima (Guanda, pagg. 124, euro 12), un libro breve e intenso che fu la prosecuzione dell'opera jüngeriana del '32 a 32 anni di distanza, nel 1964. Quando dirigevo da ragazzo una casa editrice, negli anni Ottanta, tentai temerariamente di farlo tradurre in Italia; ma alla Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, l'agente letterario di Klett Cotta, l'editore tedesco, mi disse che quest'opera era già opzionata in Italia. Ci sono voluti quasi trent'anni per vederla alla luce ora, a cura e con la postfazione di Alessandra Jadicicco. Un'opera oracolare di minima loquacità e massima densità, in cui si avverte il respiro della grandezza, dove l'eco dell'Operaio si mescola all'eco dello Stato mondiale, Le forbici, Al muro del tempo e altre opere jüngeriane del suo personale «Nuovo Testamento», come egli stesso diceva.

La tesi metafisica è quella: dalla Macchina, per inattese vie, sorgerà lo Spirito; il Mito, il Gioco, la Geologia e l'Astrologia lo porteranno a compimento. Ma dalla Tecnica sorge anche il nemico: laddove il tecnico «conquisti il governo politico, se non dittatoriale, grava la peggiore delle minacce». Il condensato deteriore della tecnica è l'automatismo, che è il peggiore degli autoritarismi, un dispotismo che uccide la libertà alla radice. E qui Ernst Jünger ritrova suo fratello Friedrich Georg che alla Perfezione della tecnica e all'avvento degli automi aveva dedicato un lucido saggio, degno del suo germano (tradotto in Italia dal Settimo Sigillo nel 2000). La tesi metapolitica di Jünger è invece l'avvento auspicato dello Stato planetario, dopo l'unificazione del mondo compiuta dalla Tecnica, di cui scriveva negli stessi anni in Italia anche Ugo Spirito. Dopo la patria il mondo intero sarà amato come «Terra Natia».

Destra e sinistra, rivoluzione e conservazione, sono per Jünger braccia di uno stesso corpo. Ma il politico, rispetto a questi fenomeni grandiosi, è inadeguato, si occupa dell'ovvio dei popoli, si cura del successo e dell'attualità, non si sporge nell'avvenire e, a differenza dell'artista, non dispone di uno sguardo ulteriore.

La miseria della politica propizia il dominio della tecnica (sembrano glosse al presente...). A rimorchio della politica va la giustizia che «segue la politica come gli avvoltoi le campagne degli eserciti». Dei, padri, autorità, eroi tramontano nell'era in cui la prosperità cresce con l'insicurezza.

Tocca all'outsider, che Jünger aveva battezzato già l'Anarca o il Ribelle, avvertire come un sismografo il tempo che verrà. «L'amarezza riguardo ai contemporanei è comprensibile in chi ha da dire cose immense».

Pensieri lucidi e affilati come lame si susseguono nella prosa asciutta e ad alta temperatura di Jünger; a volte sfiorano la storia, i popoli, le culture, le razze.

Precorrendo o incrociando le tesi della Scuola di Francoforte e di Herbert Marcuse in particolare, Jünger nota che la nuova schiavitù e la nuova alienazione non si concentrano più nel tempo della produzione, ma nel tempo libero.

La dipendenza si sposta dal lavoro al consumo. Jünger intuisce che la globalizzazione coinvolgerà non solo i popoli più avanzati, ma anche le società feudali e primitive, che rientreranno in pieno nel ciclo della tecnica: e ci pare di vedere le tigri asiatiche, la Cina, l'India e la Corea nel suo sguardo profetico.

Jünger critica la pur grandiosa morfologia della civiltà di Oswald Spengler e incontra invece il nichilismo attivo e poetico di Gottfried Benn e soprattutto il pensiero di Martin Heidegger, che a sua volta studia e fa studiare nei suoi seminari L'operaio e per altri sentieri raggiunge la stessa radura di Jüger, al di là dell'umano.

Ho letto in questi giorni, accanto a Jünger, gli appunti heideggeriani raccolti sotto il titolo La storia dell'Essere (Mariotti editore, pagg. 206, euro 22, a cura di Antonio Cimino) dove si respira in altre forme e linguaggi la stessa aria jüngeriana: il dominio planetario della tecnica, la rivoluzione conservatrice, il realismo eroico, il potere di cui i potenti sono esecutori e non dignitari, la guerra e la mobilitazione, la scomparsa dell'umano. E affiora esplicito il nome di Jünger. Sullo sfondo, come un'allusione che vuol restare in ombra, la tragedia della Germania e dell'Europa.

Quel che alla fine apre all'apocalittico Jünger uno spiraglio di luce nella notte è l'Amor fati, l'accettazione istintiva del destino. «Tutto ciò che accade è adorabile» scrive Jünger citando L´on Bloy. E una leggera euforia attraversa il paesaggio catastrofico, quasi una musica sorgiva tra le rovine e gli automi.

(di Marcello Veneziani)