giovedì 28 febbraio 2013

Alessandro Giuli: “Gli ex An, dal ‘tra-passo delle oche’ alla diserzione”


Nel 2007 c’era ancora Alleanza Nazionale. Gianfranco Fini, un giorno sì e l’altro anche, tuonava contro Berlusconi, minacciando di interrompere tutti i rapporti politici tra il suo partito e quello del Cavaliere. Italo Bocchino, durante un convegno dal titolo “Il tempo delle scelte”, giurava che dietro l’uscita di Storace da An, avvenuta a luglio di quell’anno, ci fosse “la manina di Silvio”. Tutti, o quasi, di fronte agli slanci volitivi del leader di Forza Italia- che parlava di nuovi partiti con cui annettere gli alleati- si stringevano intorno al giudizio di Fini sulla questione: Berlusconi “è alle comiche finali”.

Sempre nel 2007 usciva un libro scritto da Alessandro Giuli, all’epoca notista politico de “Il Foglio”, dal titolo “Il passo delle oche” (Einaudi). Si trattava di una radiografia critica della destra post-missina in cui emergeva con chiarezza il fatto che, nonostante l’ostilità ostentata, l’idea finiana di una navigazione tattica, unita a uno scarso peso dato all’elaborazione culturale, avrebbero condotto i rottamatori del Msi tra le braccia di Berlusconi, senza nemmeno garantire loro una duratura sopravvivenza interna al nuovo soggetto. Oggi, Giuli, è il vice-direttore del quotidiano di Ferrara e le previsioni che aveva affidato al suo libro si sono avverate tutte. Rimane solo da capire se sia rimasto ancora materiale utile per scriverne un seguito.

“Il passo delle oche” ha predetto il futuro o tutti i dati disponibili indicavano già cosa sarebbe successo?

Era già tutto chiaro, sia su Fini che sul suo partito. Non ho avuto doti di chiaroveggenza. Ho solo collegato elementi che erano abbastanza evidenti e che, già all’epoca, persone come Enzo Erra e Giorgio Pisanò, che avevano conosciuto di persona Fini e ne avevano seguito tutto il percorso politico, individuavano come avvisaglie di quello che sarebbe stato il decorso distruttivo del Movimento Sociale/Alleanza nazionale dal 1995 in poi. Loro magari non hanno beneficiato di una pubblicistica attenta, mentre il mio libro, edito da Einaudi, ha avuto un rilievo diverso.

La colpa del collasso politico di quel mondo legato ad Alleanza Nazionale è imputabile solo a Gianfranco Fini?

Non solo a lui. Ma Gianfranco Fini è comunque considerabile il più grande assassino seriale di partiti. Ha ucciso il Movimento Sociale, ha ucciso Alleanza Nazionale, ha ucciso il Pdl (perché nonostante quello che pensa Berlusconi, oramai il Pdl è esclusivamente una lista elettorale e personale) e, infine, ha ucciso Futuro e Libertà, che oggi è ridotta a una specie di larva politica. Tutto questo perché, da sempre, Fini ha utilizzato la forma partito come combustibile di una carriera votata al personale. Ovviamente la sua classe dirigente è stata completamente in linea con le sue aspettative. Gregaria, dal sostantivo latino grex che designa il gregge, è entrata, prima, in Alleanza Nazionale e poi nel Pdl, senza elaborare il frutto di una identità negata.

Il passaggio da Alleanza Nazionale al Pdl, quindi, sarebbe stato indolore?

Sì perché in An non c’era stata alcuna creazione di valori. Il passaggio dal Movimento Sociale al nuovo partito era stato soltanto un trasbordo dalle catacombe a un seminterrato più presentabile. Inoltre era già evidente che gli ex-missini sarebbero usciti con le ossa rotte dall’esperienza della fusione con Forza Italia, in quanto non avrebbero portato all’interno nessun contributo identitario preciso e, anzi, avrebbero infettato anche il Pdl con le loro beghe di corrente.

Eppure, all’epoca, si parlava di Forza Italia come di un “partito di plastica”, facilmente permeabile…

Esatto. Loro sono partiti con l’idea di egemonizzare culturalmente un partito permeabile a ogni innesto, proprio perché ritenuto di plastica, e in realtà si sono trovati in un mare magno di lotte intestine. Insieme a un partito, l’ex Forza Italia, che comunque conservava tradizioni non totalmente  neglette. Per esempio la corrente socialista o quella liberal/conservatrice. Paradossalmente An è entrata con l’intenzione di egemonizzare ma ha finito per fare la figura della truppa di lanzichenecchi.

Quindi un discrimine culturale tra le due formazioni non c’era?

An si è presentata all’appuntamento con le solite correnti. La destra berlusconiana di Gasparri e La Russa, che tendenze culturali non ne ha mai avute ma nemmeno vantate. Matteoli e Urso, che più che una corrente erano un esperimento di laboratorio creato da Fini per controbilanciare la spinta dell’altra corrente, quella sociale di Alemanno, che è la vera area drammaticamente sconfitta e da giudicare senza pietà. Loro sì che sono arrivati con delle pretese culturali, qualche libro letto e Pino Rauti sulle spalle. Sono loro che hanno avuto una implosione nei gangli del potere, dopo aver rinunciato consapevolmente a qualsiasi tipo di promozione culturale.

Ci sono stati tentativi recenti di unire, vista l’impossibilità di farlo con quelle politiche, le correnti culturali della destra identitaria. Può essere, questo, un percorso utile?

Mi pare pura retroguardia. Ne ho visti troppi di tentativi del genere. Dai Campi Hobbit in poi era tutto un “facciamola sinistra”, “facciamola destra”, “facciamola strana”. Il problema è che ogni iniziativa culturale onnicomprensiva, priva di una selezione vera e di una chiarificazione di intenti, è sempre fallita. Ed è fallita perché non puoi mettere l’abramitico Cardini con altri intellettuali più smaglianti e meno confezionati, non puoi mettere insieme l’intellettuale conservatore con i malati di avanguardismo futurista. Sono stati, questi, esperimenti utili negli anni 70 per farsi notare e per far vedere che c’erano delle singole intelligenze, oggi non esprimono altro che un reducismo senza prospettive.

Uno dei problemi della destra è, quindi, il tentativo di “far stare nella stessa stanza” Marinetti e Evola?

Sì, ma non credo ci sia bisogno di essere evoliani per pensare ai futuristi come a dei cretini fosforescenti. Basta Gabriele D’Annunzio.

Cosa ne pensa della novità rappresentata da Casa Pound?

Mi piace per quel tanto che riesce a  rievocare di Fiume e del Novecento più vitale, solare, gioioso e patriottico della Grande guerra. Non amo di Casa Pound gli orpelli avanguardisti e pseudo futuristi.

Oggi ci sarebbe materiale per scrivere un seguito de “Il passo delle oche?”

Ci sarebbe ma andrebbe esteso e il titolo dovrebbe essere “I disertori”. Individui che, come tutti sanno, finiscono fucilati dalla storia.

martedì 26 febbraio 2013

Chi ha scientificamente asfaltato la Destra


Ricorderemo a lungo le elezioni politiche che si sono appena svolte. E per tanti motivi che non starò qui ad elencare tanto sono noti e all’attenzione di tutti. Ma ce n’è uno che sarebbe storicamente ingiusto sottovalutare. Dai risultati emerge l’assenza dal Parlamento di un soggetto unitario di destra. Non era mai accaduto dal 1948.

Prima con il Movimento Sociale Italiano (sia pure nel 1976 con l’appendice scissionistica di Democrazia nazionale), poi con Alleanza nazionale, c’è sempre stata nelle massime assemblee rappresentative un movimento riconducibile ad una storia, ad una cultura, a dei valori che sono stati qualificati “di destra” e come tali sono stati percepiti  e riconosciuti da masse crescenti di cittadini.

Non saranno i nove deputati di Fratelli d’Italia e i pochi “destristi” sopravvissuti alla mattanza consumatasi nella compilazione delle liste del Pdl, a poter rappresentare la destra per quel che è o dovrebbe essere. Chi ritiene, mettendosi la coscienza a posto, che bastano appunto poche frammentarie e slegate, per quanto rispettabilissime presenze, riferite ad un mondo in via di estinzione (almeno dal punto di vista parlamentare), per poter sostenere che la destra esiste, vuol dire che si accontenta di poco. E magari cerca alibi alla propria inerzia.

La verità è che la destra è stata scientificamente asfaltata. Gli esponenti e gli aspiranti candidati esclusi che non hanno inteso seguire l’impervia e rispettabile strada intrapresa da Fratelli d’Italia, né si sono riconosciuti nel partito di Storace, adesso sono senza casa. Ma, a ben vedere, lo sono anche i pochi inquilini che hanno trovato posto nelle liste berlusconiane che tuttavia per le posizioni ottenute non sono stati eletti.

I parlamentari provenienti da An che si sono acconciati a testimoniare le loro differenze, dando vita a Fratelli d’Italia e a La Destra (che non ha ottenuto seggi), da quello che doveva essere il partito unico del centrodestra, non credo, comunque, che  possano sentirsi appagati della loro scelta. Immagino che registrino, come tutti, il fallimento di un progetto del partito unico del centrodestra che, a conti fatti, non era maturo, né culturalmente, né tantomeno politicamente. Fallimento suggellato dalla scomparsa politica di Gianfranco Fini e del suo velleitario movimento che, in verità, non è mai decollato proprio perché negava la destra in radice.

La storia di questi ultimi cinque anni la si può leggere in tanti modi, ma credo che con la piega che hanno preso gli eventi si possa dire che la destra è stata “cannibalizzata” per non aver saputo esprimere all’interno del contesto berlusconiano una propria identità, fattore  che ha pregiudicato il suo apporto alla costruzione del nuovo partito.

L’errore di sciogliersi in un indistinto movimento a vocazione carismatica nel febbraio 2008 ha segnato la fine di An e l’inizio della fase più acuta dello scontro tra Fini e Berlusconi con gli esiti che sappiamo. Il partito unico non era alla portata: operazioni del genere, che implicano la condivisione culturale e politica di un progetto che può affinarsi nel tempo attraverso una riflessione profonda, se non producono un amalgama sono destinati a fallire. Il “fusionismo” è una grande lezione che pochi a destra hanno appreso dal conservatorismo americano: esso si fonda sulla necessità di non disperdere energie e risorse unendo tutti coloro che sono animati da una stessa visione valoriale del mondo e della vita. Quando mai nel centrodestra è stata avviata una discussione sulla consistenza identitaria derivante dalle cessioni di identità dei vari soggetti che hanno concorso a formarlo? Pochi, e per di più inascoltati, hanno richiamato questa esigenza che, tradotta in termini politici, avrebbe portato ad una unione tra le diverse componenti fondata su una nuova cultura e su una più efficace e radicata rappresentanza territoriale.

La destra, forse più strutturata anche “ideologicamente”, avrebbe potuto offrire un apporto decisivo alla composizione di un movimento che, in senso europeo, si sarebbe potuto qualificare e rappresentare come “conservatore”, dinamico e riformista nella sfera della modernizzazione istituzionale e sociale ed al tempo stesso custode dei principi della tradizione nazionale e popolare.

Diciamocelo francamente: non è stata all’altezza appiattendosi su un berlusconismo di comodo che non ha giovato neppure allo stesso Berlusconi il quale avrebbe, molto probabilmente, tratto maggiori vantaggi politici dal contributo di una destra che non dimenticava se stessa ed era perciò in grado di intercettare quel suo elettorato che con fatica si è visto trascinare nell’indistinto di un sistema partitico che non gli apparteneva, che sentiva estraneo.

Non sarebbe stato certo un dramma se, constatata l’impossibilità della convivenza, si fosse dato luogo, nell’ambito del centrodestra ad una federazione di soggetti, ognuno legato ad una ben precisa porzione di opinione pubblica. Dal punto di vista elettorale avrebbe consentito a tutti di cooperare per il bene comune di una coalizione composita e plurale nella quale le differenze sarebbero state il lievito della crescita fino a quando non fossero maturate le condizioni, in un sistema effettivamente bipolare, per la costruzione di quel “partito degli italiani” che è sempre stato l’obiettivo di una destra attestata sul fronte della pacificazione, alla quale nulla è risultato in questi anni più estraneo della contrapposizione muscolare tra avversari.

La destra, dunque, si è sostanzialmente dispersa, un po’ per il fatto di non aver creduto nelle sue potenzialità, e un po’ perché ha smarrito la sua strada  cadendo in azzardi politicisti che hanno finito per perderla come comunità. Dopotutto, checché se ne dica, questa era la sua forza: una comunità di destino nella quale i principi dell’autorità, della gerarchia, del libero dialogo tra pari, il culto della memoria storica e del primato della politica, della lealtà e della fedeltà valevano più di ogni altra considerazione rispetto alle logiche di potere che l’hanno snaturata ben oltre la volontà di chi, probabilmente, si è distratto rispetto alle prospettive che il suo mondo nutriva.

Detto degli errori, su cui chi vorrà avrà tempo e modo di indagare, non è scusabile l’atteggiamento di vera e propria ostilità di quanti la destra l’hanno marginalizzata in vista delle elezioni. Utilizzando criteri a dir poco discutibili, smentiti da deroghe arbitrarie, si è fatta macelleria politica con allegrezza quasi. Tanto da ritenere che quella destra che Fini portò in dote a Berlusconi e che poi abbandonò non per fare un’altra destra, ma qualcosa di indistinto, confuso, incomprensibile, come si è visto, non ritenuta più utile ad un qualche scopo è stata senza eleganza messa fuori dal Parlamento.Tutti adesso, provenienti da uno stesso mondo, sono “fratelli separati”: una storia che abbiamo già visto consumarsi a sinistra, ma ripetendosi a destra non si palesa come una farsa, contraddicendo per una volta il vecchio Karl Marx, bensì come una fuga dove non c’è niente e nessuno.

La fine di un movimento politico, comunque, non dà automaticamente luogo alla fine delle idee che storicamente lo hanno caratterizzato e che, bene o male, ha rappresentato producendosi, tra l’altro, in un lungo lavorio teso all’elaborazione culturale e al superamento di anticaglie che ne pregiudicavano l’agibilità sul terreno della partecipazione alla vita pubblica. Esiste una “destra diffusa”, insomma. Attende che qualcuno la ricomponga sotto un tetto. E le dia un avvenire sia pure in un tempo che i protagonisti di oggi forse non riusciranno a vedere.

(di Gennaro Malgieri)

Tarchi: "Renzi così ha tutto da guadagnare"


"Se le primarie del Pd avessero avuto un risultato opposto non si sarebbe prodotto questo risultato. Ovviamente avrebbe posto un altro problema di identità della sinistra però una candidatura Renzi a premier avrebbe sicuramente spazzato via ogni possibilità per il centro destra di competere". Lo ha detto Marco Tarchi, politologo e professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze dove attualmente insegna Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica, commentando i risultati ancora non ufficiali delle elezioni.

"Da questo punto di vista - ha spiegato Tarchi - credo che il Pd si troverà di fronte a delle scelte molte difficili che riapriranno ulteriormente le ferite che in qualche modo dopo le primarie erano date che richiuse".

"Io credo - ha detto Tarchi - che questo risultato a Renzi, in fondo in fondo anche se lui lo negherà fino alla morte, gli fa molto piacere e comodo perché rimette in gioco le questioni con un Bersani piuttosto azzoppato e conseguentemente gli dà un'altra possibilità. Ovviamente potrebbe essere anche tardi ma chissà, dipende dalla possibilità della dissoluzione dell'ambiente montiano . Renzi ha tutto da guadagnare dagli scenari futuri se saprà agire intelligentemente dal suo punto di vista".

(fonte: www.ansa.it)

domenica 24 febbraio 2013

Crisi di fede, ci vuole una reazione


Giuliano Ferrara ha certamente ragione quando, sul Foglio del 22 febbraio, denuncia la strategia della calunnia di cui si fanno strumento in questi giorni i mass-media. La tesi ormai dominante è che Benedetto XVI si è “arreso” davanti a una curia corrotta e ingovernabile, ma ciò che si insinua è che la morbosità sessuale, il crimine e l’intrigo facciano parte della natura stessa della chiesa romana.

Questa offensiva mediatica dovrebbe togliere ogni illusione a chi ancora crede nella possibilità di conciliare la chiesa con i “poteri forti” laicisti che oggi tentano di schiacciarla. La reazione cattolica dovrebbe essere virile e combattiva e partire dall’ammissione dell’esistenza di una crisi di fede di cui l’innegabile decadenza morale degli ambienti ecclesiastici è, insieme, causa e conseguenza. L’espressione più recente di tale crisi dottrinale è l’assenso dato dalla Conferenza episcopale tedesca alla cosiddetta “pillola del giorno dopo”, in casi estremi come lo stupro.

Questa dichiarazione sembra rappresentare la simbolica rivincita dell’episcopato centroeuropeo sull’Humanae Vitae del 25 luglio 1968. L’enciclica di Paolo VI, che condannava categoricamente la contraccezione, fu apertamente contestata da un gruppo di vescovi “renani”, gli stessi che avevano applaudito il cardinale Suenens, quando nell’aula del Concilio Vaticano II, il 29 ottobre 1964, egli aveva rivendicato il controllo delle nascite, pronunciando con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”.

Oggi i vescovi tedeschi rialzano con clamore una bandiera mai ammainata. L’ombra del Vaticano II avvolge del resto l’atto di rinuncia di Benedetto XVI, avvenuto proprio mentre sono in corso le celebrazioni del suo cinquantesimo anniversario. Non a caso, l’ultimo discorso, programmatico e retrospettivo del Papa al clero di Roma, lo scorso 14 febbraio, ha colto le origini della crisi religiosa nel “Concilio virtuale” che al Vaticano II si sarebbe sovrapposto. Il Concilio dei mezzi di comunicazione, secondo Benedetto XVI, “era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri, un Concilio” – ha aggiunto – “accessibile a tutti”, “dominante, più efficiente” causa di “tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”.

Nell’èra della comunicazione sociale, in cui è vero ciò che è comunicato, il Concilio virtuale non fu però meno reale di quello che si svolgeva all’interno della basilica di San Pietro, tanto più che il Vaticano II volle essere un Concilio pastorale, che affidava il suo messaggio ai nuovi strumenti espressivi. Oggi più di allora i mass media sono in grado non solo di rappresentare la realtà, ma di determinarla grazie al potere e alla forza di suggestione che possiedono.

Lo stesso Benedetto XVI ne ha ripetutamente parlato, sottolineando il loro potere di manipolazione. Un gesto storico, come il suo atto di rinuncia al pontificato, è inevitabilmente destinato a essere anche un evento mediatico. E quale altra immagine può trasmettere se non quella di un uomo e di una istituzione privi della forza per combattere il male che avanza? Come meravigliarsi dell’uso della parola “resa”?
Di fronte a questa evidenza, i migliori cattolici non ammettono che la ragione ultima e vera della rinuncia sia quella esposta dal Papa con queste ormai celebri parole: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me
affidato”.

Per difendere il gesto “umile e coraggioso” di Benedetto XVI, ci si affanna a ricercarne le recondite intenzioni, rinunciando a esaminare quelle che possono essere le oggettive conseguenze. Secondo alcuni il Papa ha voluto invitarci a distogliere il nostro sguardo miope dalla temporalità del potere; altri hanno pensato che il gesto sarebbe stata la “merce di scambio” per qualche ultimo clamoroso atto del pontificato, come la riconciliazione con la Fraternità San Pio X. C’è perfino chi ha parlato di “ritirata strategica”, per aiutare il nuovo Papa a organizzare il “dopo Ratzinger”. Tranne qualche lodevole eccezione, come quella dell’arcivescovo di Digione, Roland Minnerath, che ha sottolineato l’importanza delle potenziali “conseguenze collaterali” della decisione, pochi tra i cattolici ammettono che possa trattarsi di un gesto destinato a indebolire il Papato, quasi che a portare nocumento al Papato sia l’oggettiva constatazione del fatto, e delle sue conseguenze, e non il fatto stesso.

Il Papato in se stesso naturalmente non è toccato. Il Sommo Pontefice, che non può essere deposto da nessuno, nemmeno da un Concilio, ha il pieno diritto di rinunciare alla sua missione. Quando abdica egli esercita un atto sovrano che in nulla scalfisce il suo supremo potere di giurisdizione. Il Papa resta, ontologicamente, l’unico supremo legislatore della chiesa universale. Si tratta di un dogma di fede. I canoni 331 e 333 del nuovo codice di diritto canonico, definiscono l’autorità del Pontefice romano come un potere di governo supremo, perché nessuna autorità è a lui uguale e nessuno può giudicarlo; plenario, perché, nelle cose di fede e di morale, è un potere illimitato in estensione ed intensità; universale, perché è esteso su tutti e singoli vescovi e su tutti e singoli i fedeli; immediato, perché il Papa può esercitare il suo diritto di intervento diretto in qualsiasi momento, in ogni campo, su qualsiasi persona.

A questo supremo potere di governo, si aggiunge quello di magistero, che comporta a determinate condizioni, il carisma dell’infallibilità. Benedetto XVI, pur godendo di tutti questi poteri, non ha ritenuto opportuno esercitarli nella sua pienezza. Con atto libero e consapevole, ha rinunciato a esercitare non solo il potere di infallibilità del suo Magistero, ma anche il supremo potere di governo, fino al punto di rimettere a Cristo e alla chiesa il munus che il 19 aprile 2005 aveva accettato. Il suo pontificato è ora consegnato alla storia.

Possiamo aggiungere che se il successore di Benedetto XVI vorrà applicare un programma “ratzingeriano”, che vada dalla difesa dei princìpi non negoziabili all’implementazione del motu proprio Summorum Pontificum, dovrà farlo con quelle forze fisiche e morali, ovvero con quell’energia, di cui Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, si è pubblicamente confessato incapace. Ma come pensare che la realizzazione di questo programma non provochi ancor più violenti attacchi alla chiesa da parte delle lobby secolariste?

Se poi il nuovo eletto capovolgerà la linea di governo ratzingeriana, per avventurarsi nella sabbie mobili dell’eterodossia, nell’illusione di addomesticare il mondo, come immaginare che ciò non provochi una reazione dei difensori della Tradizione? Le parole persecuzione, scisma ed eresia hanno accompagnato la chiesa in duemila anni di storia. Se qualcuno oggi non ne vuol sentir parlare, è perché ha rinunziato a combattere. Ma la guerra purtroppo è in atto.
 
(di Roberto de Mattei)

Gli studi sul cervello che mirano a renderci macchine desolate


«Sapremo tutto del nostro cervello: come funziona, come lo si ripara e come lo si puo' migliorare». Sono parole di Barack Obama a proposito di un ambizioso progetto chiamato Brain Activ Man cui stanno già lavorando aziende tecnologiche come Google, Microsoft, Qualcom e altre «hi-tech» più specificamente mediche.

A questo delirio conoscitivo ci sia concesso muovere qualche obiezione. Quando noi conosceremo con perfezione scientifica i circuiti cerebrali che provocano le nostre emozioni, la gioia, l'amore, la tenerezza, la paura, la crudeltà, l'odio, la gelosia sapremo tutto di questo cervello diviso a spicchi ma avremo perso l'uomo. Nella sua interezza, nella sua singolarità, nella sua insondabile e dolorosa poesia. Avverrà in 'corpore vili', cioè sull'essere umano, quello che lo strutturalismo ha tentato in letteratura. Lo strutturalismo ci dice, per esempio, quante volte Dante ha usato un certo termine nella Divina Commedia. Alla fine di questa dotta ricerca cosa rimane della poesia di Dante?Nulla. Cosi' sapremo tutto su come funziona il meccanismo umano, ma niente di più, anzi qualcosa di meno, sull'uomo.

Si dice che queste ricerche saranno decisive nel prevenire certe malattie neurologiche, come l'Alzhaimer, potenziando il cervello di soggetti sani inserendovi circuiti elettronici e chip al silicio. Anche qui siamo nella linea per cui non esistono più soggetti sani, siamo tutti potenzialmente dei malati e cosi' dobbiamo essere trattati, con effetti non del tutto indifferenti sulla nostra psiche e sulla nostra 'joie de vivre' («Muore mille volte chi ha paura della morte»dice il vecchio e saggio Epicuro). E' vero che l'Alzheimer è in continuo aumento, ma non si capisce bene se cio' sia dovuto all'allungamento della vita (cosa che mi pare contradditoria perchè l'Alzheimer è una demenza senile precoce), ad una maggior precisione delle diagnosi o non piuttosto al tipo di vita estremamente stressante che conduciamo. Mi ricordo che quando ero ragazzino, negli anni Cinquanta, di Alzheimer non si parlava quasi, c'era l'arteriosclerosi, il nonno che inseguiva le domestiche per appioppargli una pacca sul sedere, una cosa in fondo simpatica e innocua.

Si dice ancora che scopo di questa ricerca, in cui saranno investite centinaia di milioni di dollari, è di «individuare i meccanismi del funzionamento della mente da trasferire nei computer per sviluppare una 'intelligenza artificiale' sempre più simile a quella dell'uomo». Ma dai e ridai c'è il rischio che l' 'intelligenza artificiale' superi quella dell'uomo e lo assoggetti a sè stessa. E' l'ipotesi di Duemilauno Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (del resto è successo, in tutt'altro campo, quello economico, che il meccanismo ci sia sfuggito di mano e oggi ci domini).

Ma l'obbiettivo finale di questa ricerca sul cervello, di questo progetto, ce lo svela, senz'ombra di turbamento, Edoardo Boncinelli, in un articolo sul Corriere della Sera: «E' fare dell'uomo una supermacchina». Cioè un robot. In una sorta di sinistro comunismo tecnologico saremo tutti, disperatamente, uguali.

(di Massimo Fini)

Guerra fratricida con Storace per vincere il titolo di "miglior perdente"


La parabola degli ex An conoscerà un epilogo importante lunedì, con le urne chiuse. Quella che fu Alleanza nazionale, alle elezioni politiche di febbraio 2013, si presenta smembrato in quattro liste. C’è la parte che ha deciso di rimanere nel Popolo della libertà (vedendo tuttavia restringere dal 30 al 10 per cento la propria quota nel partito); ci sono i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Guido Crosetto (unico non ex) e Ignazio La Russa; c’è la Destra di Francesco Storace, il primo a sbattere la porta e ad andarsene; c’è Futuro e libertà di Gianfranco Fini. Fli è forse il caso più disperato. Perché deve sperare non solo che la coalizione del professor Mario Monti superi il 10 per cento, ma anche che l’Udc vada oltre il 4. Precondizioni fondamentali  perché il presidente della Camera e qualche fedelissimo possano tornare a sedere a Montecitorio. 

Fratelli d’Italia e la Destra non se la passano molto meglio. Tra loro è in atto un sfida fratricida. Se entrambi i partiti non dovessero superare la soglia di sbarramento del 4 (come segnalavano i sondaggi prima del blocco alla loro pubblicazione) solo uno dei due, il miglior perdente, troverebbe posto nei banchi nel centrodestra nella prossima Legislatura.

Se Francesco Storace ha avuto la sua visibilità in quanto candidato alla Regione Lazio, è stata una campagna difficile per Fratelli d’Italia. Troppo spesso costretti nel cono d’ombra berlusconiano, i Meloni boys non hanno sfondato. E, a causa di un Cavaliere debordante, non sono riusciti a ritagliare il ruolo che avevano immaginato per se stessi: la destra del centrodestra. Quella da votare «senza doversi turare il naso». Si sono visti scippare l’idea della restituzione dell’Imu dall’ex premier (l’avevano detta prima loro), si sono fatti scavalcare a destra dall’uomo di Arcore sul giudizio storico a proposito di Benito Mussolini e hanno strappato qualche riga sui giornali soltanto attaccando l’alleato. Quando Giorgia Meloni ha detto di essersi vergognata di stare nello stesso governo e nello stesso partito di vari esponenti del Pdl. O nel caso di alcune gaffe, come quella omofoba dei dirigenti veneti di Fratelli d’Italia.

Insomma, non il massimo della vita. Reduce da una campagna elettorale di retroguardia, va detto però che Fratelli d'Italia dispone di una rete di dirigenti capillare e agguerrita, quella della ex Alleanza nazionale. Più nel dettaglio, quella che faceva capo alla corrente larussian-gasparriana. Almeno la parte che non ha deciso di rimanere nel Pdl. E deve sperare che basti quella come cinghia di trasmissione. Ma una ramificazione territoriale è la peculiarità anche della Destra, nata dalle ceneri della corrente sociale di Storace, che una volta faceva fronte comune con l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno (il quale a sua volta è rimasto nel Pdl). Un puzzle. Una sfida nella sfida.

(di Salvatore Dama - fonte: www.liberoquotidiano.it)

giovedì 21 febbraio 2013

Cosa succede se le elezioni non producono nessuna maggioranza?


L’esito delle elezioni del 24 e 25 Febbraio impedisce la formazione di un nuovo governo. Non c’è alternativa se non quella di chiamare gli italiani nuovamente alle urne. L’ipotesi, forse non troppo improbabile, solletica l’esercizio dell’immaginazione e pertanto ho chiesto a Pietrangelo Buttafuoco di prendere per buona questa ipotesi aiutandomi a decifrare come si potrebbe riorganizzare la politica italiana.

Non si riesce a formare un nuovo governo. Chi esce di scena degli attuali candidati premier?

Certamente Silvio Berlusconi. Anche se tecnicamente non è stato candidato premier. Dopo di che sparisce anche Bersani. Ritorna il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Nessuna nuova, poi, per Mario Monti. Non potrà più essere riserva della Repubblica. Perfino Amato avrà più carte da giocare.
 
Uno stallo elettorale può condizionare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica?

Nella sostanza sì ma pro forma ci si dovrà muovere. E sarà “stato di emergenza”. Se posso fare un parallelo tragico, come all’indomani delle stragi di mafia in Sicilia.
 
Un ritorno alle urne chi avvantaggia di più: Monti o Grillo?

Grillo. Gli italiani ci prenderanno più gusto e alla fine, il fondatore di Cinque Stelle, andrà dal prossimo Capo dello Stato e dirà: “Presidente, le porto l’Italia del vaffanculo”.

Se si dovesse ritornare alle urne, Grillo potrebbe accrescere ancora di più il suo consenso elettorale. E’ sbagliato pensare che possa essere in pericolo?

Nel senso che possono fargli fare la fine di Enrico Mattei, di Bettino Craxi, di Giulio Andreotti e di Silvio Berlusconi?

Nuovi leader cercasi.

Più che leader servono capi. Servono decisori.

Se guardiamo alla pancia del paese potremmo pensare a Tosi leader di un partito del Nord; Renzi leader di un partito del centro (geografico). Con Renzi la precisazione è d’obbligo. Che ne pensa? E, scusi, se lecito chiedere, a Sud?

Al Sud la vedo dura. A meno che non riesca a diventare forte La Destra con i suoi Ruggero Razza e Stella Mele.

Se invece guardiamo alla geografia degli interessi che contano, tra Renzi e Tosi chi è più avvantaggiato?

Renzi ha la benedizione dei poteri forti internazionali. Tosi è bravo senza aiutino.
 
Monti che fa?

Se riesce a salvarsi dalla morsa Casini-Fini, sopravvive.
 
Qual è la differenza tra Monti e Renzi ?

Monti è professore. Renzi è bravo a mettersi a favore di telecamera. Monti prende il cane tra le braccia, Renzi dovrà solo sapere aspettare.

Tosi e Renzi hanno un profilo da amministratori della cosa pubblica che hanno un largo consenso tra i propri cittadini. Chi è più preparato per costruire un’offerta politica completa che non sia solo partita doppia?

Flavio Tosi. Renzi non è così concentrato come sindaco.