mercoledì 4 novembre 2009

Chiuso il «sogno imperiale» resta una crisi di identità

Un bilancio del primo anno della presidenza Obama deve necessariamente partire da qualche riflessione sulla presidenza di George W. Bush. Quando conquistò la Casa Bianca, nel novembre dell’anno scorso, Barack Obama ereditò i risultati politici e militari di quella che fu probabilmente la più ideologica fra le presidenze americane della seconda metà del Novecento.

Bush, il vice-presidente Dick Cheney e il corteo dei neo-conservatori che marciava con loro alla conquista del potere, non avevano soltanto un programma politico, ma anche una visione del mondo e soprattutto del modo in cui gli Stati Uniti lo avrebbero governato.

Cheney, in particolare, voleva rafforzare i poteri della presidenza a scapito del Congresso: una linea «bonapartista» che avrebbe permesso al monarca elettivo di svolgere con la necessaria efficacia le sue funzioni imperiali. I neoconservatori volevano «normalizzare» il Medio Oriente, da Bagdad a Teheran.

Gli strateghi della geopolitica volevano trattare la Russia e, se possibile, la Cina alla stregua di potenziali rivali da contenere e accerchiare con un anello di Stati vassalli e basi militari. I teorici del libero mercato, le banche e le grandi industrie volevano allentare ulteriormente le briglia sul collo della grande finanza e rompere i laccioli ambientalisti che Clinton, con qualche ambiguità e reticenza, era pronto ad accettare. E gli evangelici, infine, volevano un’America moralmente sana, purgata dell’aborto e delle esecrande ricerche sulle cellule staminali, pronta ad accogliere trionfalmente la seconda venuta del Cristo.

Gli attentati dell’11 settembre fornirono argomenti, giustificazioni, alibi e dettero un colpo di acceleratore alla svolta imperiale della politica estera americana. La guerra afgana fu il prologo e quella irachena il primo atto di un dramma in cui l’azione, nel copione preparato dai registi, si sarebbe spostata successivamente a Teheran, Damasco, Pyongyang. Beninteso tutti gli altri, dalla Russia all’Arabia Saudita, da Parigi a Berlino, avrebbero capito la lezione.

I risultati furono alquanto inferiori alle aspettative: la guerra civile in Iraq, la sostanziale secessione del Kurdistan iracheno, il progressivo distacco della Turchia dal suo maggiore alleato, il decollo del programma nucleare iraniano, l’aumento dell’influenza iraniana nella regione, la riconquista talebana dell’Aghanistan, la destabilizzazione del Pakistan, la crisi dei rapporti con la Russia, le fiammate di nazionalismo religioso in Palestina e in Libano, la nascita di un fronte anti-yankee in America Latina e, da ultimo, una crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia nazionale.

Ho elencato così i problemi e le aree di crisi in cui il nuovo presidente è immediatamente intervenuto, dopo la sua elezione, per modificare o correggere le politiche del predecessore. Gli effetti non sono, per il momento, incoraggianti. Gli americani abbandoneranno l’Iraq, ma resteranno verosimilmente in alcune basi e dovranno vivere con un regime traballante, continuamente insidiato da una strisciante guerra civile. In Afghanistan Obama è nelle stesse condizioni in cui fu il presidente Lyndon Johnson nel 1966 quando i soldati americani in Vietnam erano 200.000 e il generale Westmoreland chiedeva rinforzi: un ricordo che domina come un incubo le sue riflessioni. In Pakistan, dove il governo ha risposto alle sollecitazioni della Casa Bianca cercando di sloggiare i talebani dalle suo regioni occidentali, è scoppiata una ennesima guerra asimmetrica. Le truppe vincono bombardando il proprio Paese, ma i talebani colpiscono con i loro attentati le retrovie urbane delle forze combattenti. In Palestina la macchina dei negoziati di pace è continuamente inceppata dal rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti coloniali nei territori occupati.

Ma esistono anche segnali meno negativi. Nel momento in cui Obama ha deciso di rinunciare alla costruzione di basi anti-missilistiche in Polonia e nella Repubblica Ceca, i rapporti con la Russia sono nettamente migliorati. A giudicare dalla maggiore sobrietà con cui gli Stati Uniti amministrano i loro rapporti con l’Ucraina e la Georgia, Obama non vuole accerchiare la Russia e spera piuttosto di servirsi della sua collaborazione per affrontare i problemi delle aree più difficili del grande Medio Oriente: Afghanistan, Iran, Asia Centrale.

I negoziati con l’Iran sono difficili, ma sono finalmente cominciati, e non è poco. Il clima delle relazioni con l’America Latina non è più quello degli anni in cui l’intero subcontinente respingeva sdegnosamente a Punta del Este i progetti economici pan-americani del presidente Bush. Oggi i rapporti con Cuba e con il Venezuela dipendono da Hugo Chávez e da Raúl Castro più di quanto dipendano dalla buona volontà di Washington. Se il caudillo venezuelano e il fratello del lider maximo lo volessero, il disgelo sarebbe possibile. E con la Cina infine le relazioni, per il momento, sono quasi idilliache. Il Grande Debitore e il Grande Creditore sanno di essere legati da un patto di mutua convenienza e che ogni gesto ostile dell’uno contro l’altro avrebbe un effetto boomerang.

Ma i nemici di Obama non sono soltanto al di fuori dei confini americani. Sono anche fortemente presenti e organizzati all’interno del Paese. Ce ne siamo accorti anzitutto quando il presidente ha chiesto al Congresso la grande riforma sanitaria che aveva promesso agli elettori durante la campagna elettorale per dare una copertura ai circa 45 milioni di americani che ne sono privi. Sapevamo che si sarebbe scontrato con la lobby delle industrie farmaceutiche e della compagnie di assicurazione. Non immaginavamo che i suoi avversari sarebbero riusciti a fare leva sulle fobie antisocialiste dell’America per mobilitare contro la riforma persino il popolo minuto della classe media, vale a dire coloro che sono maggiormente vittime ogni giorno delle lacune del sistema.

Dietro questa offensiva si nasconde probabilmente un dissenso più profondo sul concetto che gli Stati Uniti dovrebbero avere del loro ruolo nel mondo o, nel linguaggio preferito al di là dell’Atlantico, della loro missione. La presidenza Bush ha rappresentato l’«America imperiale», insofferente di vincoli e trattati. E i suoi maggiori esponenti, fra cui l’ex vice-presidente Dick Cheney, vedono nel giovane presidente nero una intollerabile minaccia al «destino manifesto» della grande nazione. Forse dovremo giungere alla conclusione che la vera crisi dell’America, in questo momento, non è economico-finanziaria ma identitaria. Il Paese deve decidere che cosa sarà e farà nel secolo da poco cominciato e il futuro sognato da Obama è radicalmente diverso da quello di Cheney e dei suoi partigiani.

La crisi della maggiore potenza mondiale e il modo in cui verrà risolta non possono non avere grandi ricadute sulla intera situazione mondiale. E’ questo il momento in cui l’Europa dovrebbe avere le sue idee, i suoi disegni, le sue proposte. Legato dai lacci degli euroscettici e tenuto a bada dai lillipuziani del presidente ceco Vaclav Klaus, il Gulliver europeo è stato fino a ieri muto e impotente. Domani, dopo la scelta del suo presidente e del suo ministro degli Esteri, dovrebbe essere in grado di fare sentire la propria voce. Ci piacerebbe ascoltarla.

(di Sergio Romano)

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