mercoledì 31 marzo 2010

Le donne sono il nemico. Bisognerebbe capirlo subito


Le donne sono una razza nemica. Bisognerebbe capirlo subito. Invece ci si mette una vita, quando non serve più. Mascherate da «sesso debole» sono quello forte. Attrezzate per partorire sono molto più robuste dell’uomo e vivono sette anni di più, anche se vanno in pensione prima. Hanno la lingua biforcuta. L’uomo è diretto, la donna trasversale. L’uomo è lineare, la donna serpentina. Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco. Lei è insondabile, sfuggente, imprevedibile. Al suo confronto il maschio è un bambino elementare che, a parità di condizioni, lei si fa su come vuole. E se, nonostante tutto, si trova in difficoltà, allora ci sono le lacrime, eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto femminile. Al primo singhiozzo bisognerebbe estrarre la pistola, invece ci si arrende senza condizioni.

Sul sesso hanno fondato il loro potere mettendoci dalla parte della domanda, anche se la cosa, a ben vedere, interessa e piace molto più a lei che a lui. Il suo godimento — quando le cose funzionano — è totale, il nostro solo settoriale, al limite mentale («Hanno sempre da guadagnarci con quella loro bocca pelosa» scrive Sartre). La donna è baccante, orgiastica, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola, nessun principio può valere più di un istinto vitale. E quindi totalmente inaffidabile. Per questo, per secoli o millenni, l’uomo ha cercato di irreggimentarla, di circoscriverla, di limitarla, perché nessuna società regolata può basarsi sul caso femminile. Ma adesso che si sono finalmente «liberate» sono diventate davvero insopportabili. Sono micragnose, burocratiche, causidiche su ogni loro preteso diritto. Han perso, per qualche carrieruccia da segretaria, ogni femminilità, ogni dolcezza, ogni istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia, e spesso anche dei figli quando si degnano ancora di farli. Stan lì a «chiagne» ogni momento sulla loro condizione di inferiorità e sono piene zeppe di privilegi, a cominciare dal diritto di famiglia dove, nel 95% dei casi di separazione, si tengono figli e casa, mentre il marito è l’unico soggetto che può essere sbattuto da un giorno all’altro sulla strada. E pretendono da costui, ridotto a un bilocale al Pilastro, alla Garbatella, a Sesto San Giovanni, lo stesso tenore di vita di prima.

Non fan che provocare, sculando in bikini, in tanga, in mini («si vede tutto e di più» cantano gli 883), ma se in ufficio le fai un’innocente carezza sui capelli è già molestia sessuale, se dopo che ti ha dato il suo cellulare la chiami due volte è già stalking, se in strada, vedendola passare con aria imperiale, le fai un fischio, cosa di cui dovrebbero essere solo contente e che rimpiangeranno quando non accadrà più siamo già ai limiti dello stupro.
Basta. Molto meglio restare soli.

(di Massimo Fini)

Lettera a Buttafuoco da un vecchio camerata senza complessi

Caro Pietrangelo, erano (eravamo) visionari senza visibilità. Rivoluzionari senza rivoluzione. Colti senza cultura. Parlo dei Tarchi, ma anche dei Solinas, dei Cabona, dei Croppi (oggi malfinito assessore), dei Peppe Nanni (neppure assessore), e di tutti quelli che volevano (volevamo) farla nuova. Parlo della Destra, immaginata tra gli anni '70 e '80. Gli anni delle spranghe, delle botte, della - come la chiami tu - "inutilità di stare al mondo". Sulle spalle il fardello di "Roma rivendica l'Impero", delle leggi razziali (quelle italiane del '38, non quelle americane degli anni '60), del "Duce che ha sempre ragione", delle macerie delle città bombardate, della sconfitta epocale, storica, definitiva.
Sempre risucchiati all'indietro dagli avversari, ma anche, soprattutto, da un partito che nel ghetto ci stava benissimo e per il ghetto si era organizzato, spendendo fino all'ultimo spicciolo l'eredità come un qualsiasi barone siciliano decaduto. I morti, i feriti, i dispersi finivano per servire al partito di Almirante. Andava bene così. Che bisogno c'era di tentare di farla nuova, diversa da quella di Tremaglia che olezzava di militari in libera uscita in una casa di tolleranza? O da quella comiziaiola delle piazze almirantiane, dalle quali uscivi ubriaco di retorica e senza un concetto, una idea che non fosse quella di lisciare il pelo ai benpensanti, ai bottegai, ai moderati (Dio li stramaledica!), assetati di pena di morte? Lotta al sistema d'accordo con il sistema, con i suoi apparati, i suoi "servizi", le sue "piazze Fontana".
Antidivorzio e anticomunismo, acquasanta e mogli (plurale) con amanti, socializzazione e contributi dalla Confindustria. Andarono (andammo) a cercarla nella "terra di mezzo" questa "nuova Destra", tra le pagine di Tolkien, fatto conoscere in Italia da De Turris su "L'ITALIANO" di Pino Romualdi, l'incompreso inventore del partito. In quella terra erano (eravamo) al riparo dal più terribile problema del nostro tempo che è quello, come diceva Cocteau, della stupidità che pretende di pensare e che oggi pure urla. Credevano (credevamo) di metterci al riparo dai giornalisti spioni della redazione romana di un noto quotidiano, dai massoni delle diverse confraternite occidentaliste, dai generali immerdati nel gioco politico.
Proprio non ci pensava a farsi nuova quella Destra dei pellegrinaggi a Predappio con acquisto di gadget, dei "ranci camerateschi", delle commemorazioni in camicia nera del 28 ottobre, dei santini elettorali con "il testone', della ripetizione dei riti più ridicoli del ventennio, delle macchiette alla "vogliamo i colonnelli". La società stava cambiando; forse occorreva pensarla "simultaneamente", con la parte destra e quella sinistra del cervello e del cuore. Non ci sarebbe neppure stato bisogno di capi missini colti; sarebbe bastato il loro rispetto per la cultura, la curiosità intellettuale per i nuovissimi appuntamenti con la storia, con il grande gioco delle idee.
A ben pensarci, il rifugio nel fiabesco era il modo, il tentativo, di preservare una comunità spontanea e volontaristica contrapposta al neofascismo imposto e al comunismo arcocostituzionalista. Oggi potremmo riferirci al "becerodestrismo" alla Feltri e al "luogocomunismo" degli intellettuali snob. Ufficialmente Tarchi fu fatto fuori da Almirante, ma certo il più contento fu Rauti. Gli faceva ombra; pensava, organizzava, scriveva, immaginava. E agiva. Meglio Fini: obbediva a Almirante, ma finiva per tenere unita la sua corrente, ben chiusi i suoi scheletri nell'armadio e gli lasciava la parte del "pericoloso rivoluzionario" con pennichella pomeridiana. Oggi Rauti è il suocero del sindaco di Roma. Poi, con il primo "sdoganamento" (quello politico di Craxi, non quello da supermercato di Berlusconi), arrivarono i posti nelle società comunali, il sottopotere occultato ma presente, le prebende che facevano tanto socialista.
Con un "Amen" a quelli che, come Beppe Niccolai, sognavano, una classe dirigente che potesse farsi esempio. Perciò "quell'esperimento (quasi) riuscito di Destra comunitarista, libertaria, militante, non occidentale, creativa e persino anche musicale" non riuscì. Non poteva riuscire. C'era Almirante con la sua "palude dorotea"; c'era la corrente lottizzatrice di posti dentro il partito dei Gasparri, della "premiata antica famiglia Larussa" e di quelli che squittivano e si spellavano le mani per ogni dittongo del capo. Propio come oggi per il " Dapporto di Arcore". Sono stato vaccinato da Pino Romualdi contro il culto della personalità. Davanti alle "piazze del Popolo" stracolme e osannanti, riempite, come sussurrava sottovoce Giorgio, "senza nemmeno le cartoline precetto come faceva LUI". Continuava a dirmi che gli era largamente bastato averne seguito uno solo di uomo nella sua vita. Che di piazze ne aveva riempite molte, ma non aveva avuto sempre ragione, anzi!
Prima o poi, per fortuna, il berlusconismo finirà, senza bisogno dell'intervento di qualche pronipote di Bresci; o, forse, visti i risultati elettorali di oggi, perché stiamo per entrare nella fase jugoslava del nostro destino di popolo; una fase pericolosa ma, temo, necessaria per una società che si è invigliacchita nell'egoismo sociale più indecente. Per questo non strepisco a sentire la definizione "Destra - Destra". Dov'è, dove si annida, dove pensa, dove scrive, quali segnali di vita manifesta? Dentro il Pdl? Con Bondi, Verdini, Cicchitto e Larussa? O con "Capezzolone"? In Sicilia? Nel Lazio? In Calabria? In Campania? O in Lombardia con la nota "associazione per delinquere di stampo cattolico"?
E nemmeno, caro Pietrangelo, mi commuovo per qualche conato comunitaristico di qualche bravo e colto (lo so che ce ne sono) ragazzo della Lega. Non butto una patria, per quanto sputtanata e sbrindellata, per costruirne una bonsai neppure troppo pulita. Sono troppo convintamente ateo-spiritualista per prendermela con le religioni degli altri, né desidero alabame di alcun tipo. Per "fare futuro", paradossalmente, bisognerebbe prima "fare passato"; quello di Tarchi e dei suoi amici degli anni '70, appunto. Io l'ho fatta finalmente finita con questa illusione ottica, con questo fuoco fatuo, con questa finzione televisiva che è la destra, espressione giusta dell'Italia più mediocre. Poi, terminata la sbornia berlusconiana (democrazia, democrazia quanti crimini in tuo nome!), si vedrà. Nel frattempo mi metto alla "SINESTRA".
(di Tomaso Staiti di Cuddia)

martedì 30 marzo 2010

La nuova teologia e un’ipotesi sulla pedofilia


La forza della “Lettera ai cattolici di Irlanda” di Benedetto XVI, dello scorso 19 marzo, sta soprattutto nel suo spirito di autentico rinnovamento e riforma della chiesa. Il richiamo alla penitenza che costituisce il suo filo conduttore non è mai disgiunto dall’appello “agli ideali di santità, di carità e di sapienza trascendente”, che nel passato resero grande l’Irlanda e l’Europa e che ancora oggi possono rifondarla (n. 3). Unico fondamento di questa ricostruzione è però Gesù Cristo “che è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebrei 13, 8) (n. 9). Rivolgendosi a tutti i fedeli di Irlanda, il Papa li invita “ad aspirare ad alti ideali di santità, di carità e di verità e a trarre ispirazione dalle ricchezze di una grande tradizione religiosa e culturale” (n. 12). Questa tradizione non è tramontata, anche se a essa si è opposto “un rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici” (n. 4).

In questo paragrafo, che costituisce un passaggio chiave del documento pontificio, il Papa afferma che negli anni Sessanta fu “determinante” “la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento del Concilio vaticano fu a volte frainteso” e vi fu “una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari”. “E’ in questo contesto generale” di “indebolimento della fede” e di “perdita del rispetto per la chiesa e per i suoi insegnamenti”, “che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi”.

In che senso il Concilio poté essere “frainteso”? Il breve, ma significativo accenno di Benedetto XVI merita di essere sviluppato. Occorre ricordare che durante i lavori dell’assise conciliare prese forma l’idea di una chiesa non più militante, ma peregrinante, in ascolto dei segni dei tempi, pronta a rinunziare alla verginità della sua dottrina, per lasciarsi fecondare dai valori del mondo. Offrirsi ai valori del mondo significava rinunziare ai propri valori, a cominciare a quello che è più intrinseco al cristianesimo: l’idea del Sacrificio, che dal mistero della Croce discende in ogni aspetto della vita ecclesiale, fino alla dottrina morale, che un tempo ispirava la vita di ogni battezzato, chierico o laico che fosse.

Il Concilio impose ai vescovi, come un dovere, la “sociologia pastorale”, raccomandando di aprirsi alle scienze del mondo, dalla sociologia alla psicanalisi. In quegli anni era stato riscoperto lo psicanalista austriaco Wilhelm Reich, morto quasi del tutto dimenticato in un manicomio americano nel 1957. Nel suo libro-manifesto “La Rivoluzione sessuale,” Reich aveva sostituito alle categorie della borghesia e del proletariato quelle di repressione e di liberazione, intendendo con questo ultimo termine la pienezza della libertà sessuale. Ciò implicava la riduzione dell’uomo a un insieme di bisogni fisici e, in ultima analisi, ad energia sessuale. La famiglia, fondata sul matrimonio monogamico indissolubile tra un uomo e una donna, era vista come l’istituto sociale repressivo per eccellenza: nessuna considerazione sociologica poteva autorizzarne la sopravvivenza. Una nuova morale, basata sull’esaltazione del piacere, avrebbe presto spazzato via la morale tradizionale cristiana, che attribuiva un valore positivo all’idea di sacrificio e di sofferenza.

La nuova teologia, spinta dal suo abbraccio ecumenico ai valori del mondo, cercò l’impossibile dialogo tra la morale cristiana e i suoi nemici. I corifei della “nuova morale”, che in Italia furono teologi come don Enrico Chiavacci don Leandro Rossi e don Ambrogio Valsecchi, salutarono come maestri del nuovo corso morale Wilhelm Reich e Herbert Marcuse. Nel 1973, a cura di Valsecchi e di Rossi, uscì, per le edizioni Paoline, un pomposo “Dizionario enciclopedico di teologia morale”, che ambiva a sostituire il classico, e ancor oggi prezioso “Dizionario di teologia morale” dei cardinali Francesco Roberti e Pietro Palazzini (la quarta edizione fu pubblicata da Studium nel 1968). Nel nuovo “Dizionario morale”, Enrico Chiavacci sosteneva che “la vera natura umana è di non aver natura” e che l’uomo è tale per la “tensione” che la sua coscienza esprime, indipendentemente dai “divieti” della morale tradizionale. Valsecchi affermava la necessità di svincolarsi da una concezione della morale che facesse appello a una fondazione metafisica della natura umana. Unico peccato, radice di tutti gli altri, quello “contro l’amore”, e unica virtù, quella di assecondare l’amore, naturalmente e non soprannaturalmente inteso.

I nuovi moralisti, definiti da qualcuno “pornoteologi”, sostituivano alla oggettività della legge naturale, la “persona”, intesa come volontà progettante, sciolta da ogni vincolo normativo e immersa nel contesto storico-culturale, ovvero nell’ “etica della situazione”. E poiché il sesso costituisce parte integrante della persona, rivendicavano il ruolo della sessualità, definita “funzione primaria di crescita personale” (così Valsecchi), anche perché, a dir loro, il Concilio insegnava che solo nel rapporto dialogico con l’altro, la persona umana si realizza. Citavano a questo proposito il concetto secondo cui “ho bisogno dell’altro per essere me stesso”, fondato sul n. 24 della Gaudium et Spes, magna charta del progressismo postconciliare. Chiavacci, Rossi e Valsecchi, contestarono pubblicamente, nel 1974, la posizione antidivorzista della Conferenza episcopale, ma continuarono ad essere per molti anni i “moralisti” più in vista della Chiesa italiana. Ancora oggi basta entrare in una libreria cattolica per trovare in primo piano sugli scaffali i loro libri, stampati da case editrici come le Paoline e la Queriniana.

Eppure, ciò che fa riflettere sono proprio vicende esistenziali, come quelle di Ambrogio Valsecchi professore di morale alla Facoltà teologica di Milano, consulente del cardinale di Milano, Carlo Colombo, al Concilio Vaticano II, alfiere della nuova morale, poi dispensato dai voti e sposato (con rito religioso) nel 1975, quindi divenuto nell’ultimo decennio della sua vita psicologo, analista e terapista di coppia. Altrettanto fallimentare è stato l’itinerario di colui che oggi è, con Hans Küng, il principale accusatore di Benedetto XVI: Rembert Weakland. Difensore ad oltranza della “rivoluzione sessuale”, dei diritti dei “gay” e delle donne nella Chiesa, Weakland non è più arcivescovo di Milwaukee dal 2002 quando fu “dimissionato” dopo che un ex studente di teologia l’aveva accusato di violenza carnale, rompendo il segreto che lo stesso Weakland gli aveva imposto in cambio di 450 mila dollari detratti dalle casse dell’arcidiocesi. La stampa “liberal”, lungi dal lapidarlo, lo trattò però con molto riguardo, come conveniva a un celebrato campione della Chiesa progressista quale egli era.

I nemici della tradizione hanno sempre preteso di opporre il primato dell’esistenza a quello della dottrina, il cristianesimo concretamente vissuto a quello astrattamente predicato. Il “tribunale della vita vissuta”, a cui essi si sono appellati, ha ribaltato però i loro giudizi e le loro previsioni. Chi ha voltato le spalle alla ferrea intransigenza dei princìpi per ancorarsi al molliccio fondamento della propria esperienza, è spesso fuoriuscito da quella Chiesa che diceva di voler meglio servire. Chi ha negato l’esistenza di una natura da rispettare, ha iniziato col soddisfare gli istinti della natura che negava, per assecondare poi le deviazioni che la volontà offriva alla sua intelligenza, disancorata dal vero. Il passaggio dalla etero alla omosessualità e di qui alla pedofilia è stato, per alcuni, se non cronologicamente, almeno logicamente coerente.

Oggi si può sostenere, in prima pagina di Repubblica, che il celibato ecclesiastico produce pedofilia. Ma su nessun giornale si potrebbe affermare l’esistenza di un nesso altrettanto diretto tra pedofilia e omosessualità. Lo impediscono le leggi di alcuni Stati europei, che hanno introdotto il reato di omofobia, ma più ancora lo vieta la censura culturale e sociale che riduce sempre di più i margini di difesa della moralità. All’interno di un certo mondo cattolico, ancora più grave è considerata l’affermazione di un rapporto, anche solo indiretto, tra la nuova teologia degli anni Sessanta e il pansessualismo che penetrò nella Chiesa dopo il Concilio. Benedetto XVI lo ha fatto e gliene va reso onore.

(di Roberto de Mattei)

lunedì 29 marzo 2010

Destra, ultima fermata


In principio fu la scoperta degli Hobbit, dopo di che gli altri cominciarono a scoprire “il noi” contenuto nella parte di mondo chiamata “destra”. Un modo di stare insieme secondo un alfabeto fatto di saghe, epiche, maghi, minuscoli guerrieri, foreste infestate di orchi e fiammeggianti sovrani della luce. Stupidaggini, forse. Proiezioni adolescenziali, magari. E tutto ciò fu rubato dalle pagine di Tolkien pur di non perpetuare il rancore di una pesante eredità: la sconfitta militare e un dopoguerra eterno annodato al collo peggio di un cappio da cui penzolare nella certezza inamovibile dell’inutilità di stare al mondo. Figurarsi quanto utile, invece, per la destra, era quel tentativo di stare nella scena politica. Qualcuno ci lasciava la pelle. Era ancora il tempo in cui c’era il regime e l’arco costituzionale. Si faceva la lotta al sistema.

Non era più sufficiente risolverla con la colla e il secchio dell’attacchinaggio. Bussava alle spalle della giovinezza – Giovinezza! – il mito più che capacitante di farla finalmente estetica, la battaglia politica: e giù con i Campi Hobbit, allora. Sono i raduni di una destra “anni ‘70”, non propriamente una replica di Parco Lambro, neppure una presa di Fiume, piuttosto un esperimento riuscito di “destra”: comunitarista e non democratica, libertaria e non liberale, militante e non militarista, plurale e non occidentale, creativa e non museale e perfino anche musicale. Succedeva questo in Italia quando tutti, con faciloneria, pensavano fossero solo addestramenti paramilitari quelli dei Campi Hobbit dove, in luogo di confrontarsi “con l’egemonia degli altrui paradigmi culturali”, poter sfoggiare ray-ban e scarpe a punta. Furono – insieme a tanti convegni e al proliferare di riviste intellettuali tra le quali Elementi e Diorama Letterario – l’apice della Nuova Destra. E qualcosa di ancora più nuovo, a destra, dopo quell’esperimento che vide in Marco Tarchi l’animatore e il leader, non c’è più stato. Fu l’unico momento in cui la destra entrò in un mondo dal quale si era da sempre “autosclusa”.

A maggior ragione con una “destra” al governo. Esclusa comunque. Nulla è mutato rispetto al passato. Per dirla con Tarchi, “la destra non sapeva partorire niente che andasse al di là di una produzione intellettuale di seconda scelta, una sub-cultura (in termini gerarchici), come qualcosa che si collocava sotto il livello della cultura vera”. E ancora adesso, malgrado il governo del paese, è così.

E fin qui ce la caviamo con i modi del prologo. Le cose della teoria hanno i piedi per camminare e siccome tempo n’è passato da allora, il filo si riannoda a partire dall’attualità. Ecco: comunque vadano le elezioni, la destra – per come ha cristallizzato la propria fisionomia – è arrivata alla sua ultima fermata, e l’atto finale si rivela già nell’impossibilità di fare futuro (e non è un gioco di parole) oltre l’ombrello del berlusconismo.

La destra-destra, qui s’intende. E’ quella derivata dalla doppia mutazione da Alleanza nazionale in Pdl e, da questo, poi, in quel che è diventato il laboratorio della fronda finiana. Domanda delle domande, però: perché, facciamo ad esempio, la Lega di Umberto Bossi è cresciuta e si è evoluta senza farsi vampirizzare da Silvio Berlusconi – anzi, sovrastandolo ma aiutandolo non poco – mentre al contrario la destra è risultata solo un inciampo e si è dissolta nell’abbraccio con Forza Italia, anzi, creando non pochissimi disastri per sparire senza resti e senza eserciti?

La destra-destra non avrà futuro fuori dell’epoca berlusconiana. Magari esisterà la parola è sarà una qualsiasi immondezza di tipo nevrastenico pop (esempi, purtroppo, non ne mancano a furia di isterie xenofobe e occidentaliste) ma la destra derivata dalla tradizione culturale della vena ghibellina, quella della Tradizione, quella, insomma, risorgimentale del liceo classico, della caserma e di Guglielmo Marconi, non troverà più modo di essere contemporanea al proprio tempo per manifesta incapacità di disegnare, innanzitutto, il presente.

Cerco, intanto di dare a me stesso la risposta alla domanda di prima: la Lega vince perché è prassi. Tanto per cominciare il Carroccio, che pure nasce da una comunità a guida carismatica, rende tutti gli onori al capo ma ha messo in campo fior di campioni quali Roberto Maroni – quello che materialmente sta sfasciando la mafia e la camorra –, quindi Tosi, sindaco di Verona (uno che non teme il paragone con la celebrata tradizione amministrativa delle municipalità rosse, tanto è bravo), quindi ancora un ottimo ministro come Zaia e poi ancora curiosi e ghiotti incursori della cultura, magari sconosciuti al pubblico altero dei grandi quotidiani, ma di solida tempra (sia consentita l’espressione) spirituale. Sono quelli di “Terra Insubre”. Personalmente li ho incontrati in una tavolata degna dei banchetti di Asterix e Obelix, anzi, degna dei Campi Hobbit. Ad un certo punto della discussione hanno iniziato a fare una sana litigata e se in quello stesso momento, a Capalbio, qualcuno stava accalorandosi sulle “Mine vaganti” di Ozpetek, questi almeno se le stavano ragionando le questioni a proposito del concetto di divenire: si dividevano tra hegeliani ed eraclitei. Con tanti saluti all’egemonia culturale.

E tanto per gradire, poi, la Lega che predica male con parole d’ordine ai confini del razzismo e dell’islamofobia, razzola poi benissimo se si pensa che quel fantastico Gentilini, pro sindaco di Treviso, è quello che meglio di un qualsiasi prete di frontiera ha saputo gestire l’immigrazione nella sua Alabama della Marca se è vero che più del 20per cento delle partite Iva sono dei regolari extracomunitari. Gentilini è – giusto perché la Lega è sangue di popolo – quello che va a prendersi il tricolore di Cesare Battisti, la bandiera dimenticata nella tazza del cesso da Umberto Bossi, per stringerselo al proprio collo di vecchio alpino.

La Lega è prassi mentre la Destra è tentativo senza essere pensiero, questa è l’unica risposta possibile al perché tutto quel lavoro dei Pinuccio Tatarella e dei Beppe Niccolai (sul piano politico) e dei Domenico Fisichella e dei Marco Tarchi in illo tempore (di quest’ultimo, appunto, e del suo nuovo libro adesso parleremo) sia infine sfumato nel fallimento del Pdl. E il dramma è doppio perché anche a dover vincere le elezioni regionali, il Pdl, il partito nato dalla fusione tra Forza Italia e quel che restava di An intorno alla figura di Gianfranco Fini, è crepato. Se la Lega ha approfittato dell’opportunità del berlusconismo per realizzare i propri capitoli – sia esso il federalismo, l’immigrazione o la conquista del Veneto – la destra, al contrario, in Silvio Berlusconi – fatta salva la schiera lealista e faticatrice di Maurizio Gasparri – ha avuto un padrone cui riservare solo coltellate. Non a caso Bossi, dal palco di piazza S. Giovanni, indicando il Cavaliere ha detto: “A lui io non ho mai chiesto una lira”. Se la Lega è rimasta fedele a se stessa, la destra, a partire dalla svolta di Fiuggi, ha sistematicamente distrutto “il partito”. E questo non l’ha fatto per veicolare libertà tra i propri aderenti ma per cinturare un leader e scimmiottare una contraffazione della società civile ritenendo ogni militante un pezzo di mondo da lasciare alla deriva. Perpetuando così “un senso di inferiorità”, così diceva Beppe Niccolai, “che ha fatto sì di non cercare risorse al proprio interno ma fuori dai confini”. Da Fiuggi in poi, sempre con l’eroica eccezione della sim telefonica di Gasparri dove ancora vive un sano nocciolo identitario, è venuto meno il contatto carnale con il territorio, con l’attivismo, con la base, con qualsiasi cosa che abbia a che fare con la selezione di una classe dirigente, con la convocazione di un congresso, meno che mai con il movimentismo creativo e metapolitico di un Campo Hobbit. E, dicendo questo, la prendo alla larga per arrivare al punto.

Se la Lega ha incoraggiato al proprio interno la crescita di figure autonome, (anche al costo di oscurare il capo), la Destra, oltre alla buona volontà di guastatori intercettati dalla polemica giornalista, ha seminato questa malinconica stagione del berlusconismo in crisi di grigi proconsoli fedelissimi al co-capo, ovvero quel Fini, altrettanto capo carismatico ma che a differenza del senatore Bossi, non ha ancora attratto a sé uomini autonomi, progetti e un fare presente che non sia la generica adesione alla Costituzione, al Patriottismo repubblicano e alla corrente elencazione dei propositi assai in voga nell’antiberlusconismo così da guadagnare buona stampa e niente più. Un dato, questo dell’aver buona stampa, con il quale si rivela l’abolizione della passione senza sostituirla con l’intelligenza. Machiavellica va da sè.

Ecco, parliamo di Tarchi. Politologo estraneo a qualsivoglia destra, ieri ideatore della più entusiasmante stagione della destra-destra (tanto da averla fatta nuova e – soprattutto – disarmante rispetto agli anatemi e ai luoghi comuni del patriottismo costituzionale di allora immutato rispetto a quello di adesso), Marco Tarchi che è uno studioso di provato spessore ha saputo scrivere un libro con la serietà propria di chi vive con distacco una stagione di cui fu il principale attore. Fu lui, infatti, a vincere un congresso contro Gianfranco Fini che dovette ricorrere a Giorgio Almirante per farsi nominare comunque alla guida del Fronte della Gioventù. Poiché la storia non si fa con i se, non perdiamo di certo tempo ad immaginare cosa sarebbe diventata la destra-destra se, giusto in quel frangente, con la leadership di un Tarchi non si sarebbe certo attardata con il vecchio armamentario: perfino “il Fascismo del 2000!”. E però, il “capire cosa potesse spingere i ragazzi che frequentavano le sezioni missine a intestare un loro raduno nazionale a un personaggio fiabesco”, è un’operazione di analisi culturale urgente specie se quasi tutta la schiera di chi era giovane allora, al fianco di Tarchi, adesso stia con Fini, su posizioni che l’attuale presidente della Camera ieri osteggiava e che oggi, al contrario, sostiene. E l’ultimo libro di Tarchi, “La Rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra” (edizioni Vallecchi, euro 18,00), è un perfetto scandaglio per rischiarare una stagione altrimenti dimenticata, specie se solo attraverso questa si può capire il come, il perché e il come mai la destra-destra di oggi al governo – pur con tutti quei protagonisti, Alessandro Campi, Luciano Lanna, Flavia Perina, Umberto Croppi, Adolfo Urso e gli altri rautiani derivati da quella stagione –abbia esaurite tutte le sue potenzialità. Era un giocattolo che doveva entrare per forza nella storia della destra, quello della Nuova Destra e con i Campi Hobbit a far da sfondo non c’è un dettaglio da scapestrati, ma la strategia meta-politica, l’unica che potrebbe definitivamente forgiare la destra senza per questo sfinire d’agguati un Berlusconi che il merito fondamentale lo ebbe: porgere l’ombrello alla cui ombra rendere fresca l’assolata solitudine di tanti. Sarebbe opportuno che, in sede di analisi e di confronto, si ricominciasse da quella stagione. Scrive Tarchi: “Le eredità ideologiche sono sempre più frequentemente rifiutate dai beneficiari e i segni delle identità originarie vengono cancellate per non creare imbarazzi negli interlocutori”. Non è il caso degli Hobbit. Nessun imbarazzo deriva dai giorni di Castel Camponeschi e di Montesarchio (alcuni dei luoghi che videro i raduni), tanto meno possono essere dimenticati i convegni della Nd dove arrivavano anche intellettuali fuori area come Massimo Cacciari.

Sarebbe, appunto, opportuno che si riprendesse quel filo. E che i temi proposti allora – comunità solidale, critica al liberalismo, identità plurale, la paganitas perfino – trovassero finalmente i propri tempi, questi nostri. Altrimenti ci sarebbe un’ulteriore domanda, questa: perché il partito democratico è nato e l’altra cosa lì, una destra-destra, invece, no?

(di Pietrangelo Buttafuoco)

domenica 28 marzo 2010

Tutti a tirare Mussolini per la giacca

Che azzardo quello di Michele Santoro: affiancare Mussolini a Berlusconi, Lui a lui. Forse non si è reso conto dell'involontaria apologia di fascismo che ha scandito i minuti iniziali di Raiperunanotte, ma il suo avversario del resto non è Scelba bensì il premier. Ma a parte questo, che pure ha il suo peso, il montaggio ha messo in luce, più che le assonanze, le differenze. Innanzitutto le folle: adunate oceaniche da una parte, comizi elettorali dall'altra. Sui rituali dei regimi totalitari gli storici hanno scritto migliaia di pagine: per tutti basti lo studio di Emilio Gentile, Il culto del Littorio, il quale spiega bene come le piazze, nel Ventennio, fossero la cornice simbolica per esaltare una "religione della Patria". Le imitazioni, ovviamente, non sono che parodie.
Basta riguardarsi il video d'inizio di Raiperunanotte e ascoltare l'audio: Mussolini chiede: «Volete voi onori, ricompense, una vita comoda?». Noooooo dice la folla. E poi la domanda delle domande, quelle che solo chi ambisce a cambiare la storia può porgere ai suoi "fedeli": «Esiste per voi l'impossibile?». E ancora noooooo dalla folla. E si passa a Silvio Berlusconi, a piazza San Giovanni, che parla di tasse, di banche, di assegni e contanti, una serie di domande che si condensa nell'interrogativo: «Volete che la sinistra metta ancora le mani nelle vostre tasche?». Da una parte il senso di una sfida storica, dall'altra la ripetizione di uno slogan ossessivo (ma anche fondato, perché Berlusconi nuove tasse non le ha messe, anzi ne ha abolito una, l'Ici). Tuttavia l'inversione di senso balza agli occhi: il fascismo chiedeva sacrifici in nome di un ideale, il berlusconismo no, il berlusconismo cerca consensi in nome della tutela degli interessi, della sfera privata economica e telefonica. Altri tempi, altri contesti. La distanza tra i due fenomeni è abissale. A mobilitare le masse tutti possono provare, ma poi si riconosce se lo stile è quello del leader di una rivoluzione...
(di Annalisa Terranova)

sabato 27 marzo 2010

Contro il Papa fallì il nazismo, ora ci provano con la pedofilia


Tentarono prima col nazismo, ora con la pedofilia. L’attacco alla Chiesa cattolica e romana di Ratzinger ha raggiunto una violenza esplicita senza precedenti. Per essere efficace l’attacco bisognava appellarsi agli ultimi inviolabili tabù della società occidentale: violati tutti gli altri, anzi ammessi nel nome della libera scelta di ciascuno, non restano che la pedofilia e il nazismo. In tema di pedofilia nessuno ha mai pensato che la Chiesa ne fosse immune. Primo, perché la Chiesa sarà pure la Sposa di Cristo ma è comunque un’istituzione fatta di uomini, di persone e rispecchia l’imperfezione umana. Secondo, perché come diceva il poeta, il pericolo cresce proprio laddove cresce la salvezza. Terzo, perché la storia della Chiesa ha sempre avuto capitoli gloriosi, pagine di luce e zone d’ombre, compreso il pozzo nero della pedofilia. Era storia di secoli, perfino nella Chiesa più severa e intransigente del passato. Ma vorrei aggiungere, anche la Chiesa del Papa Buono, di Giovanni XXIII, anche la Chiesa di Paolo VI, su cui soffiavano a suo tempo i venticelli della maldicenza sessuale, anche la Chiesa di Giovanni Paolo II, serbavano bassifondi infami. Ma la Chiesa di Papa Benedetto XVI non si perdona. Papa tedesco, che ha servito la patria da soldato, Papa della tradizione, che ha difeso la dottrina e la coerenza della fede, Papa della civiltà cristiana, che inevitabilmente confligge con la società dell’aborto, del nichilismo e dell’egoismo. Papa antipatico. Perché non è comunicatore come il suo glorioso predecessore, non è accattivante e popolare come lui; è più filosofo e teologo, ma soprattutto perché è un ostacolo a quella visione laicista, atea e progressista che vorrebbe eliminare i suoi avversari non sul piano della dottrina e della realtà ma della squalifica dell’avversario, demonizzando la Santità. Come dire, tu non puoi parlare, perché collaborazionista di Hitler o del Pedofilo. Cominciarono dal fratello ma si sapeva che poi sarebbero arrivati a lui.

Eppure, questo fiume carsico della pedofilia, dei brutti vizi che sorgono all’ombra delle grandi virtù cristiane, solo ora è uscito allo scoperto. Non è frutto della Chiesa di Ratzinger ma è la colonna infame che si nasconde dietro i colonnati della fede. Potrebbe essere un merito della Chiesa di Ratzinger che queste cose - non di oggi - vengano oggi allo scoperto, seppur tra mille prudenze e reticenze, tentativi di ridimensionare e circoscrivere l’affare. Cosa volete che faccia la Chiesa se, dall’alto della sua saggezza millenaria, sa che queste pagine infami vengono usate non per combattere e condannare i pedofili ma per abbattere la credibilità e la fiducia nella fede cattolica, nella Chiesa e nei suoi sacerdoti? La Chiesa tende a circoscrivere, a limitare i danni. È comprensibile, non può fare diversamente. L’altro giorno Ratzinger ha detto una cosa in linea con la tradizione cristiana: intransigenza contro il peccato di pedofilia, indulgenza contro i peccatori. Una linea profondamente cristiana, nel senso proprio di Gesù Cristo verso la Maddalena; che vale in Chiesa e non nella Giustizia civile, intendiamoci. Ma non solo: quando Papa Giovanni disse la stessa cosa, distinguendo tra la condanna del comunismo, l’errore, e l’indulgenza verso i comunisti, gli erranti, fu salutato come saggio e buono. Lo dice Ratzinger ed è scandalo. Non sto paragonando la pedofilia al comunismo, per carità. Sto dicendo che il criterio di giudizio è cristiano in ambo i casi. La pedofilia è un male in sé, senza attenuanti, penalmente rilevante. Agli occhi della chiesa, invece il comunismo segnava l’avvento dell’ateismo, la persecuzione religiosa, l’odio di classe, lo sterminio dei nemici, l’avvento del totalitarismo più radicale, la fine della libertà e della dignità della persona. Due mali imparagonabili tra loro: uno, privato, e concentrato su creature deboli e indifese, umanamente ripugnante. L’altro pubblico, animato perfino da una professione di fede che si intendeva come sostitutiva della fede religiosa, ma abbattutosi su intere classi, interi popoli, con milioni di vittime.

Non è un mistero che proprio in questi cinque anni di pontificato di Benedetto XVI siano esplosi con una virulenza senza precedenti le professioni di ateismo pratico e militante, le riduzioni del cristiano a cretino, come scrisse Odifreddi, le campagne violente contro la Chiesa, Papa Pacelli, l’abbè Pierre, Monsignor Lefebvre, le accuse d’ingerenza nella vita pubblica appena un uomo della chiesa esercita il suo ruolo pastorale - salvo chiedere alla chiesa di intervenire nella vita pubblica quando si tratta di difendere l’emigrazione clandestina o di condannare alcuni e solo alcuni interventi militari - il darwinismo militante, che pretende di giudicare dall’alto della scienza la bassezza primitiva della fede, fino a liquidarla. È una campagna di un’asprezza senza precedenti, radicale.

In Italia, ad esempio, le accuse americane hanno avuto una risonanza grande per due ragioni politiche e strumentali: primo, perché la Chiesa, esercitando la sua missione, ha esortato a non votare i sostenitori dell’aborto e i nemici della vita. Si può condividere o no, ma fa parte della sua missione pastorale. I vescovi esortano, mica intimano; invocano, mica impongono. Secondo, perché per una specie perversa di cesaropapismo, si adotta il curioso gemellaggio tra Papa Ratzinger e Papi Silvio per condannare poi ambedue. Resto dell’idea che non si possano comparare i due piani e le due figure. E mi pongo, al di là degli immediati orizzonti di una brutta campagna elettorale, in una prospettiva più alta: la civiltà cristiana. Qualcuno vorrebbe cancellare, mortificare, svilire una civiltà millenaria che permea la nostra origine e la nostra vita, con la squallida storia della pedofilia. Ma ricordate che per ogni pedofilo in Chiesa sono entrati dieci santi, cento servi di Dio e mille credenti. Non mandate all’inferno quel popolo di Dio, quella fede, quell’istituzione e quella civiltà, nel nome di pochi viziosi e di un moralismo intermittente che è permissivo con centouno vizi e peccati meno uno, sicuramente tra i peggiori. La Chiesa è un grande organismo vivente, e in un corpo umano c’è pure l’orifizio per defecare. Accade perfino che l’orifizio per urinare sia lo stesso che serve per procreare, cioè per generare l’uomo. Considerate il tutto, non la parte, considerate le cattedrali di luce prima delle sacrestie dell’infamia.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 26 marzo 2010

E' morto Omar Pound, figlio di Ezra. Traduttore e angelo custode dell'opera del padre

Si è spento, all'età di 83 anni nella sua casa nel New Jerseym, il poeta e traduttore Omar Shakespear Pound, figlio del poeta statunitense Ezra Pound (1885-1972). Lascia la moglie Elizabeth Parkin e le figlie Katharine and Oriana. L’annuncio della scomparsa, che risale al 2 marzo scorso, è stato pubblicato oggi, a funerali avvenuti, dal quotidiano britannico "The Times", che ha appreso la notizia da fonti accademiche di Londra dove Omar Pound ha a lungo vissuto e lavorato.
Una vita da traduttore. Nato il 12 settembre 1926 a Parigi dalla moglie Dorothy Shakespear, un’artista inglese, Omar aveva una sorellastra, Mary Pound, nata poco prima di lui, il 9 luglio 1925 a Bressanone, dall’amante Olga Rudge. Celebre traduttore in inglese di testi poetici persiani e arabi, negli ultimi tre decenni Omar Pound ha dedicato la sua vita all’opera del padre, curando un volume di lettere di Ezra Pound e tre volumi di corrispondenza dell’autore dei "Cantos", che durante il regime fascista, vivendo in Italia, fu sostenitore di Benito Mussolini e dopo la guerra fu rinchiuso in un manicomio criminale negli Usa per il suo collaborazionismo con la dittatura.
Custode della memoria del padre. Il figlio del controverso poeta modernista ha pubblicato anche il carteggio di Ezra Pound e Dorothy Shakespear durante gli anni del fidanzamento (1909-1914) e il libro "Margaret Cravens: A Tragic Friendship - 1910-1912" (1988), che racconta l’amicizia di Ezra con Cravens, una musicista americana che viveva a Parigi e che fu la prima patrona del poeta. Omar Pound ha tradotto numerose raccolte poetiche e di favole di autori persiani dal XIII al XV secolo ed ha dedicato quasi 40 anni all’insegnamento, dopo aver studiato in Francia, in Inghilterra e in Iran, dove si specializzò in lingua persiana. È stato professore a Boston, Londra e Cambridge. Nel 1980 si trasferì negli Usa, insegnando alla Princeton University e contemporaneamente dedicandosi all’opera di curatela del padre.

giovedì 25 marzo 2010

Presidenzialismo, diamo vita a un desiderio di tutti gli italiani


Mi colpì la scritta su un manifesto. Diceva: «Abbiamo la nostalgia dell'avvenire». Mi sembrò una sgrammaticatura concettuale. L'avrei poi chiamata "ossimoro". Si trattava, invece, di fantasia politica ma a diciassette anni faticavo a capire. In quel richiamo all'avvenire c'erano tante cose che nessun partito politico "costituzionale" era disposto ad accettare. Di sicuro non c'era la retorica dei reduci, argomento con cui gli avversari liquidavano il Movimento sociale italiano nella cui sezione, affollata, colorata e chiassosa al centro del mio paesello, realizzai la mia adolescenziale passione costruendola anche su quella "nostalgia dell'avvenire" che racchiudeva soprattutto uno stato d'animo, un sentimento della vita, un progetto politico. Mi colpì al punto da accompagnarmi nel viaggio che allora intrapresi e non ho ancora terminato; a dirla tutta ha ispirato articoli, saggi, discorsi e naturalmente il mio impegno intellettuale ed istituzionale. L'elezione da parte dei cittadini del presidente della Repubblica, che era il cuore del bizzarro slogan, mi sedusse come un canto rivoluzionario. Chi ne parlava all'epoca veniva considerato un sovversivo o un sognatore: mi vantavo di essere l'uno e l'altro. Mi piaceva immaginare che un popolo scegliesse liberamente e democraticamente la guida, ne rappresentasse l'unità e nella sua figura assommasse gli ideali ed i valori di un'intera nazione, al di là delle appartenenze, dei partiti, delle fazioni.

Ingenuo? Avevo meno di diciassette anni e divoravo autori anarchici e nichilisti, tradizionalisti e conservatori: nelle contraddizioni cercavo una strada. Ne imboccai finalmente una, e non me ne sono mai pentito. Su quella strada mi si è precisato il presidenzialismo quale soluzione politica alla frammentazione ed alla disgregazione sociale, ho capito finalmente che la "nostalgia dell'avvenire" era pura poesia che avvolgeva la ruvida politologia. Gli incontri sono stati tanti. Da Carlo Costamagna a Giorgio Almirante. Ma guarda un po' tu che deve accaderti quando tutto congiura contro la parte che hai scelto: t'imbatti in chi non avresti mai immaginato, da Pacciardi a Craxi, da Segni a Miglio, e scopri che perfino alla Costituente uomini di grande valore e coraggio, come Valiani e Calamandrei, si batterono affinché la nostra Repubblica fosse presidenziale, con quelle stesse motivazioni che i "reprobi" avrebbero sostenuto dopo il varo della Carta.

Il presidenzialismo, di tanto in tanto, riemerge nel dibattito politico-culturale. Quasi sempre per demonizzarlo. Ma è curioso che quando lo si racconta, o soltanto lo si accenna, gli applausi dei semplici non finiscono più. Come è accaduto ieri l'altro a San Giovanni nel pur fugace riferimento che ne ha fatto Berlusconi. E allora, perché non lo si riprende nell'ambito della discussione sulla Grande Riforma? Non è roba da estremisti del decisionismo, sia chiaro. Ci si arrivò ad un passo con la Bicamerale presieduta da D'Alema nel 1998. E De Gaulle aveva spianato la strada negli anni Cinquanta a questa idea che evitò alla Francia una drammatica crisi civile.

Dovunque vige il presidenzialismo, la politica è migliore: se ne facciano una ragione gli apologeti della guerra infinita tra borgognoni ed armagnacchi, come diceva Valéry. E la destra, per quanto disarmata ideologicamente, mostri che la sola idea politica che è stata originalmente "sua" può vincere come da tempo attestano sondaggi di opinione e studi seri di sociologi della politica. Credo che la ripresa del presidenzialismo, declinato nelle forme più consone alle nostre esigenze, sia nell'ordine delle cose. E non mi stupisco affatto che quel ragazzo invecchiato senza rinnegare la "nostalgia dell'avvenire", continui a crederci nonostante la sua parte se ne sia un po' dimenticata. La Repubblica presidenziale è, in fondo, niente di più che la Repubblica degli italiani i quali se la meritano dopo aver sperimentato le conseguenze del declino provocato da quella dei partiti e delle oligarchie. In tre anni si può fare. Basta volerlo.

(di Gennaro Malgieri)

Il Cav. vendemmia voti e Fini li imbottiglia

Gazebo o no Il Cav. lancia la democrazia assembleare e vendemmia voti Fini li imbottiglia e rassicura. La sovranità politica al tempo dei gazebo non dovrebbe impensierire Gianfranco Fini più di quanto può illudere Silvio Berlusconi. Il Cav. sogna di riformare la Costituzione italiana marginalizzando ogni mediazione istituzionale. Per scegliere tra presidenzialismo, premierato o nulla di fatto a lui basta la mobilitazione rionale del suo popolo ratificata da una moltitudine di firme apposte dentro i tendoni della libertà. Così andasse, verrebbe sanzionata l’avvenuta metamorfosi del potere consultivo in democrazia assembleare permanente ispirata al modello del televoto. Il che può funzionare benissimo per la mobilitazione dell'elettorato, ma non per dare un'architettura costituzionale alla volontà generale. Fini, che non è un giacobino, alza il sopracciglio e richiama alla prudenza: l'assetto delle istituzioni non si decide come in una televendita.

A ben guardarle, quella del Cav. e quella del suo alleato/concorrente sono posizioni contrapposte ma solidali. Berlusconi è tutto tranne che un riformista, il suo fascino sta anche in questo: dalle istanze delle partite Iva a quelle dell'antigiustizialismo, il premier ha sempre cavalcato in groppa a idee rivoltose, con il non trascurabile risultato di arrivare quasi sempre primo al traguardo del circo equestre elettorale. Fini è invece il ritratto della fredda convenzionalità e anche per chi , in questi tempi scombinati, rischia spesso di passare per originale. Lì dove il Cav. forza (le regole) e vendemmia (voti), Fini rassicura e imbottiglia. In più, l'ex capo di An si pone il doppio problema di conferire gradualità alle pulsioni rivoluzionarie berlusconiane e prospettiva a un consenso sempre alto ma non eterno. La rottura di una dialettica così ben codificata non gioverebbe a nessuno dei due.

(di Alessandro Giuli)

In Libano tutti cattivi tranne i soldati italiani

Sembra che in questi ultimi tre anni il Libano abbia preso a crescere, economicamente parlando, a un ritmo frenetico. Beirut è tornata a essere una capitale del piacere e degli affari, il suo porto commerciale è pieno, quello turistico vede ormeggiate le barche più lussuose, le pubblicità invitano a godersi la vita al massimo e a ogni istante. Ancora nel 2006 lì piovevano le bombe israeliane dell’operazione Grappoli d’ira e la capitale ripiombava in quella che nell’ultimo trentennio è stata la sua condizione naturale: sangue e distruzione. È un popolo ostinato il popolo libanese, eroico nella tenacia con cui si piega e sopporta l’insopportabile. Il martirio di una nazione (il Saggiatore, pagg. 848, euro 35) è il saggio che Robert Fisk le ha dedicato e che esce ora in edizione italiana, libro complesso nel suo essere storia e cronaca, analisi geopolitica, riflessione sul mestiere giornalistico e sul mestiere delle armi, scritto da quello che per il New York Times è «il più famoso inviato di guerra del mondo».
Ancora oggi negli alberghi, nei salotti borghesi, nelle baracche dei campi profughi ritrovi sotto forma di stampe gli acquerelli che nella prima metà dell’Ottocento l’artista inglese David Roberts dedicò a Tiro e ai templi di Baalbek, a Sidone e alle montagne dello Shuf. Rappresentano la visione idilliaca di un mondo violento dove l’impero ottomano esercitava ancora il suo dominio, ma le potenze europee già andavano erodendolo anno dopo anno, fino a ridisegnarne i confini all’indomani della Grande guerra. Il Libano che geograficamente conosciamo nacque allora, ritagliato dai francesi su una minoranza cristiano-maronita che era insieme garante e sovrana della maggioranza drusa musulmana. Nel secondo dopoguerra, il protettorato francese lasciò il posto a una nazione indipendente in cui la condivisione del potere fra le due comunità poggiava dunque su un compromesso, sino ad allora tutelato da una potenza militare straniera e ora elevato a dottrina di Stato: come tale, fragile.Il suo reggere per quasi un trentennio ebbe del miracoloso, alimentando in seguito il mito di una convivenza pacifica che non corrispondeva però a una realtà storica, né passata né coeva. A quel miracolo non fu estraneo il ritrovarsi a essere intersezione commerciale fra l’Europa e il Medio Oriente, centro finanziario dotato di un’economia aperta che lo faceva godere dell’indulgenza sia dell’Oriente sia dell’Occidente. Ma dietro di esso, a più riprese, negli anni Cinquanta come negli anni Sessanta, le frizioni e gli scontri sanguinosi fra le due comunità continuarono, favoriti anche da un impianto politico feudale, in cui famiglie cristiane e famiglie musulmane si fronteggiavano in piazza e in Parlamento avendo alle spalle milizie armate e non semplici partiti. Alla metà degli anni Settanta, l’intero sistema saltò per aria, complice anche l’ingrossarsi di una presenza palestinese trasformatasi nel tempo da realtà di profughi in presenza armata. Su quella che all’inizio si prospettò come una guerra civile fra maroniti e drusi, cristiani contro musulmani, se ne innescò una seconda, in cui i guerriglieri palestinesi si schierarono con quest’ultimi e una terza in cui la Siria giungeva in soccorso dei primi... Nel giro di un paio d’anni, all’invasione siriana si sarebbe aggiunta quella israeliana, un primo fallimentare contingente Onu, prodromi di ciò che negli anni a venire si sarebbe ripetuto con crudele monotonia, con un Paese trasformato in carne da macello, cambi di alleanze, eserciti invasori che si succedevano...
crive Robert Fisk che il sempre maggiore coinvolgimento di Israele in Libano significò per il suo esercito la perdita dell’innocenza. «La sua presunta invincibilità, con i suoi principi morali e i suoi obiettivi militari di lotta al “terrorismo” chiaramente formulati, non corrispondeva alla leggenda che si era creata. Gli israeliani si comportavano in modo brutale, maltrattavano i prigionieri, uccidevano migliaia di civili, mentivano sulle loro attività e stavano a guardare le milizie alleate massacrare gli abitanti di un campo profughi. In pratica, si comportavano in modo molto simile a quello degli “incivili” eserciti arabi che avevano regolarmente denigrato negli ultimi trent’anni. Il crollo della sua immagine fu un momento devastante nella storia d’Israele». In Israel’s Lebanon War, due analisti militari israeliani, Ze’ev Schiff e Ehud Ya’ari, riassumeranno così il senso di quella prima invasione del 1982. «Nata dall’ambizione di un uomo testardo e avventato, Sharon, essa era ancorata a un’illusione, motivata da un inganno e destinata a concludersi in un disastro». Nel film Lebanon, dell’israeliano Samuel Maor, Leone d’oro a Venezia lo scorso anno, questa specie di discesa agli inferi è resa in modo drammatico e potente.
Nel Martirio di una nazione Fisk scrive parole d’elogio per il contingente italiano che in quel 1982 andò in Libano. «Solo gli italiani sembravano capire perché fossero lì. Erano uomini umili, senza la boria e l’arroganza che gli americani e i francesi spesso inconsapevolmente mostravano nei confronti dei libanesi. Avevano ricevuto l’ordine di difendere Sabra e Shatila e lo fecero con grande dedizione, rifiutando di lasciarsi coinvolgere negli scontri che più tardi si sarebbero verificati tra la Mnf e i libanesi. Mentre i marines americani guardavano film importati da casa - Rambo2 era il loro preferito - gli italiani andavano a lezione di arabo. Il generale Franco Angioni distribuiva ai suoi soldati libri sulla storia del Libano. Per questo motivo, quando andavamo a trovarli a Shatila, gli italiani parlavano con cognizione di causa dei drusi, dei maroniti, dei musulmani sciiti. E non erano ottimisti come i loro colleghi».
Fisk ritiene che la storia del Libano sia «una storia di implosione ed esplosione insieme, di conflitto interno e pressione esterna, ma la sua è una tragedia - una storia - fatta di continui eserciti invasori che per entrare a Beirut sono ricorsi a negoziazioni, lusinghe, intimidazioni e assalti. Gli israeliani arrivarono, come i siriani, con atteggiamento innocente e la promessa di venire unicamente a ripristinare la sovranità del Libano... Come tutti gli altri eserciti si impegnarono a non fermarsi una sola ora più del necessario. E poi restarono per mesi, anni a dire il vero, fino a che non furono buttati fuori in modo disonorevole e doloroso. Hanno tutti marciato attraverso un lungo tunnel grigio, inevitabilmente sfociato in fumo marrone e brandelli di carne.
In Libano Fisk arrivò nel 1976, trentenne inviato del Times, e da allora non se n’è più andato. In quest’arco di tempo ha dovuto prendere atto di come i giornalisti divenivano loro malgrado obiettivi dello scontro in atto (rapimenti, esecuzioni), ha verificato l’escalation di una guerra asimmetrica che proprio qui ha visto l’apparizione dei primi attentatori suicidi, non si è mai accontentato di un giornalismo embedded al servizio del combattente di turno. A proposito dell’uso del termine «terrorismo» fa delle considerazioni coraggiose e sofferte: «Quando per il Medio Oriente adottiamo questa parola significa che ci stiamo schierando, non dalla parte della ragione o del torto, del bene o del male, di Davide o di Golia, ma con un gruppo di combattenti piuttosto che con un altro. Per i giornalisti che scrivono dal Medio Oriente, usare la parola “terrorismo” è quasi come portare la pistola. A meno che non la usi per tutti gli atti di terrorismo - cosa che non fa - il giornalista che la usa partecipa alla guerra. Diviene lui stesso un belligerante. In Libano significa anche che quel giornalista crede che i potentissimi eserciti e le milizie del Paese possano essere divisi fra “buoni” e “cattivi”. Ma questo non è possibile, in Libano sono tutti cattivi. Questo fu l’errore che commisero gli americani quando inviarono di nuovo i marines a Beirut nel settembre del 1982. Ignorandone la storia, convinti di poter stabilizzare il Paese, armati di certezze moralistiche che lì non esistono, condizionati da molti cliché, tornarono per ereditare un campo di sterminio».
(di Stenio Solinas)

martedì 23 marzo 2010

Londra caccia un diplomatico israeliano


La Gran Bretagna espellerà un diplomatico israeliano in relazione all'uso di passaporti del Regno Unito nell'assassinio del leader di Hamas, Mahmoud al-Mabouh, in un hotel di Dubai. La conferma, dopo che la voce era circolata con insistenza, attribuita dalle agenzie di stampa ad un diplomatico inglese sotto anonimato, è stata confermata anche dal ministro degli Esteri britannico David Miliband (nella foto n.d.r.) che in un intervento alla Camera ha parlato dell'espulsione definendo «intollerabile». soprattutto da parte di un «paese amico», l'uso di passaporti britannici clonati nell'operazione per uccidere un esponente politico scomodo.

DELUSI DA UN «AMICO» - «Abbiamo concluso che vi sono convincenti ragioni per ritenere che Israele è stato responsabile del cattivo uso di passaporti britannici», ha affermato Miliband. «Il governo considera questa questione con estrema serietà. Un tale uso di passaporti britannici è intollerabile, rappresenta un rischio per i cittadini britannici nella regione e un profondo disprezzo per la sovranità del Regno Unito», ha aggiunto il ministro, secondo il quale il fatto che ciò sia stato compiuto da un «paese amico» non fa che «aggiungere offesa al danno». «È un grande passo per un governo come la Gran Bretagna espellere un diplomatico di uno dei suoi importanti alleati», ha dichiarato Miliband, volendo così sottolineare l'indignazione di Londra. Il ministro ha aggiunto che «la Gran Bretagna ha lavorato e continua a lavorare strettamente con Israele su diverse questioni, fra cui la minaccia iraniana». Ma ha voluto anche ribadire che tale cooperazione «deve essere basata sulla trasparenza e la fiducia».

L'ASSASSINIO A DUBAI - Al-Mabhouh, cofondatore delle brigate Ezzedin al-Qassam (l'ala militare di Hamas), è stato ucciso il 19 gennaio scorso in un albergo di Dubai. Il commando che lo ha ucciso era composto da almeno undici persone, entrate a Dubai con passaporti falsi (sei britannici, tre irlandesi, un francese e un tedesco): la scoperta ha scatenato le reazioni delle diplomazie europee. Secondo la polizia dell'emirato, l'assassinio è da attribuire ai servizi segreti israeliani. L'Interpol ha diramato 27 avvisi di ricerca nei confronti di altrettante persone sospettate di essere coinvolte nella vicenda.

RISCHIO ISOLAMENTO - La vicenda giunge mentre Israele si trova in difficoltà anche con il suo principale alleato, gli Stati Uniti. Proprio questa sera, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu incontrerà a Washington il presidente americano Barack Obama per ricucire i rapporti dopo la tensione scaturita dall'annuncio della costruzione di nuovi alloggi a Gersualemme est, giunto proprio mentre il vice presidente americano Joe Biden si trovava in Israele.

(http://www.corriere.it/)

Pakistan, cristiano muore arso vivo: non si voleva convertire all'Islam

Un nuovo terribile caso di odio religioso. È morto l'autista cristiano di una ricca famiglia della città pakistana di Rawalpindi che venerdì era stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani per essersi rifiutato di convertirsi all'Islam. Lo riferisce il Pakistan Christian Post, giornale online affiliato a un partito cristiano locale.

Arshad Masih, 38 anni aveva subito ustioni sull'80% del corpo e, secondo i medici dell'ospedale Sacra Famiglia dove era ricoverato, aveva poche probabilità di sopravvivere. Sua moglie, Martha Bibi, aveva inoltre detto di essere stata stuprata da alcuni poliziotti della caserma dove era andata per denunciare il caso. La violenza è avvenuta davanti ai tre figli della coppia che hanno un'età fra 7 e 12 anni. La donna lavorava come domestica insieme al marito dal 2005 presso una benestante famiglia musulmana. Negli ultimi tempi erano però emersi dissapori a causa della loro fede cristiana e di un sospetto furto avvenuto nella casa. Masih aveva ricevuto pressioni da parte del suo datore di lavoro per abbracciare la religione musulmana, ma lui si sarebbe rifiutato, secondo quanto riportato da AsiaNews, il sito internet del Pime (Pontificio Istituto Missioni Esteri) che per primo ha dato notizia della brutale aggressione. Negli ultimi tempi si sono ripetuti gli atti di violenza contro la minoranza cristiana pakistana che rappresenta l'1,6% della popolazione. Le organizzazioni cristiane locali si sono mobilitate lunedì chiedendo al governo della provincia del Punjab di punire i responsabili dell'omicidio e avviare un'inchiesta sulla violenza sessuale ad opera dei poliziotti.


(fonte: http://www.corriere.it/)

domenica 21 marzo 2010

36.000 visite Nihil difficile volenti

Queste pagine non hanno affatto lo scopo né di far piacere,
né d'istruire, né di risolvere con ponderanza
le più gravi questioni del mondo.
Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale.
Sarà uno sfogo per nostro beneficio
e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti
dagli odierni idealismi, riformismi,
umanitarismi, cristianismi e moralismi.
Giovanni Papini

sabato 20 marzo 2010

Nuova destra contro Destra nuova


Hobbit/Hobbit era il titolo di un libro pubblicato all’inizio degli anni Ottanta dalla Lede, Libreria Editrice Europa. Conteneva contributi vari, riuniti dalla formula «A più mani» a indicare un curatore-autore plurimo e nascosto, ma non si svela un segreto, trent’anni dopo, a identificarne i nomi e a ripercorrerne le biografie. Marco Tarchi, allora brillante ideologo della Nuova destra e oggi professore di Scienza politica all’Università di Firenze; Umberto Croppi, all’epoca infaticabile organizzatore di eventi e al presente assessore alla Cultura del Comune di Roma; Adolfo Morganti, libraio-militante al tempo e editore affermato allo stato attuale; Federico Zamboni, alias Claudio Fossati, ieri giovanissimo critico musicale e oggi maturo critico musicale, nonché redattore della Voce del Ribelle di Massimo Fini; il disoccupato intellettuale e/o studente-attivista Francesco Bergomi, ai giorni nostri affermato dirigente d’azienda (è suo lo strepitoso intervento dal titolo «Negro», nonché la cura del Libro rosso dei confini occidentali, il giornale ciclostilato del Campo); quel povero disgraziato, sempre e comunque, del sottoscritto... Eravamo tutti sotto i trent’anni, eravamo tutti precari della vita, praticavamo tutti l’eminente dignità del provvisorio, sognavamo tutti una rivoluzione impossibile... Per spiegare quest’ultima bisogna però fare, come nel tango, qualche passo avanti e qualche passo indietro.

Per gli uni e gli altri è indispensabile questo libro, La rivoluzione impossibile, appunto, che ha per sottotitolo Dai Campi Hobbit alla Nuova destra (Vallecchi, pagg. 476, euro 18), che quell’Hobbit/Hobbit citato all’inizio recupera nella sua totalità, ma integrandolo con una ricca documentazione giornalistica (30 articoli apparsi sulla stampa del tempo), un esemplare saggio introduttivo di 80 pagine, un’altrettanto esemplare post-fazione di altre quaranta, entrambi opera del curatore, il già ricordato Marco Tarchi. In sostanza, e per la prima volta, il lettore ha a disposizione una ricostruzione-interpretazione complessiva non solo di un «come eravamo» dei tre Campi Hobbit (dove, come, quando, perché, chi c’era, chi li organizzò, chi li osteggiò...), ma anche del loro rapporto con la nascita e lo sviluppo della cosiddetta Nuova destra e con le travagliate esperienze della destra giovanile, nonché il raffronto fra quella Nuova destra e la «Destra nuova» dei giorni nostri. Unico neo, la mancanza di un indice dei nomi, da rimediare in caso di prevedibile seconda edizione.

È un dato di fatto che intorno alla metà degli anni Settanta si sviluppò nell’ambito giovanile neo-fascista (il mondo della Destra allora era questo, e nient’altro) una frattura generazionale che non si sarebbe più rimarginata. Era dovuta al fatto che per quei ventenni occorreva fare i conti con la «modernità compiuta» che la contestazione studentesca aveva contribuito a creare quanto a costume, mentalità, abitudini di chi le era coetaneo. In maniera spontanea e a volte confusa, un po’ cosciente e un po’ incoerente, quella generazione dei nati negli anni Cinquanta cominciò a teorizzare, fra riviste, incontri, convegni, un’alternativa che la portasse fuori dalle secche di un immobilismo partitico, l’allora Movimento sociale italiano, asfittico e perdente, da un estremismo giovanile fintamente rivoluzionario, assurdo e insieme criminale sul piano politico, luttuoso sul piano dei destini individuali. Si trattava di una sorta di rivoluzione antropologica per chi la faceva, in quanto significava non riconoscersi nell’immagine che di te veniva data in negativo dall’avversario, ma nemmeno nell’immagine che di sé continuava a dare quella che avrebbe dovuto essere la tua parte politica.

In un pugno di anni che va dal ’74-75 all’80-81, questo fenomeno si concretizzò nella cosiddetta Nuova destra, definizione in cui l’aggettivo contava più del sostantivo: non si trattava di rifondare qualcosa, ma di provare a fare una cosa diversa, nel presupposto che le classiche categorie politologiche Destra e Sinistra avessero fatto il loro tempo e non valessero più quanto a parametri interpretativi. Era un progetto e un percorso che, per quanto «metapolitico», non poteva piacere ai vertici missini del tempo: ne metteva in discussione la legittimità, li obbligava a ripensare tattiche e strategie, li sfidava sul piano della revisione storica e ideologica. Fra ambiguità, compromessi, lacerazioni, fuoriuscite e espulsioni all’inizio degli anni Ottanta la spaccatura divenne incolmabile. Negli anni a seguire, il Msi si sarebbe baloccato con il Fascismo del Duemila per poi bere a Fiuggi l’antifascismo del Nuovo millennio e la ND avrebbe finito con il prendere atto che in un sistema e un clima politico radicalmente mutati quella sigla si rivelava ambigua e andava abbandonata.

Torniamo alla «rivoluzione impossibile». Scrive Tarchi che essa sta a indicare «il tentativo di fare della prima generazione neo-fascista nata politicamente dopo il Sessantotto il laboratorio di una trasformazione psicologica profonda, capace di redimerla dal peccato originale della volontaria estraneità al proprio tempo». In quanto tale, essa illumina e ricostruisce quel «tassello mancante delle tante ricostruzioni proposte in questi ultimi anni del “fascismo degli anni di piombo”», nel senso che rappresenta «il lato confuso e contraddittorio, ma anche luminoso e ludico, intriso di passioni e ambizioni ingenue, ma a loro modo costruttive, che fece da contraltare al versante oscuro, angosciato e incupito da impulsi cruenti e omicidi che così spesso è stato descritto come il carattere dominante dell’“arcipelago nero” di quell’epoca. Un lato che talvolta si incrociò con l’altro, vi si confuse o ne fu sopraffatto, ma riuscì a prevalere in molti militanti, che nella stagione più dura della guerra per bande nera e rossa non smarrirono né il senno né la dignità».

Resta da chiedersi se quella Nuova destra sia stata per molti versi l’incubatrice della «Destra nuova» che si agita oggi intorno all’ex Alleanza nazionale e al presidente della Camera Gianfranco Fini, o se quest’ultima ne sia stata in fondo l’inveramento. Domanda complessa, meritevole di qualche puntualizzazione. La prima è che la «modernizzazione» della ND trovava la sua ragion d’essere nell’andare oltre un campo d’appartenenza, laddove la DN in quel campo si radica e su quel campo è costretta a dialogare. Ciò la obbliga, fra l’altro, a difendere un bipolarismo artificioso che ne rende ancora più velleitaria la rivendicata vocazione contaminatoria. La seconda è che la ND si rifaceva a un solidarismo comunitario, a un anti-utilitarismo e a una critica del liberalismo di cui resta poco in una DN (italiana o straniera che sia), così come della critica all’occidentalismo e all’egemonia Usa in campo internazionale. La terza è che la ND si articolò come una società di pensiero sganciata da ogni referente politico-partitico, laddove la ragione della DN sta nell’esatto opposto: non veicola idee, ma un leader... Detto questo, ognuno poi si incubi o si inveri come gli pare.

La rivoluzione impossibile è giustamente dedicata dal curatore e dall’editore a Generoso Simeone: si deve a lui infatti l’idea del primo Campo Hobbit. Generoso era tale di nome e di fatto, gli erano estranee invidie e tornaconti, era un sannita biondo, atticciato e sempre trafelato, povero come tutti quelli che la politica la fanno per passione, orgoglioso come tutti quelli che non mettono il loro dio nella carriera. È morto qualche anno fa, e con lui se n’è idealmente andata una parte della nostra giovinezz, quando si pensava che il domani ci potesse appartenere.

(di Stenio Solinas)

Croce e delizia


Angelina amore mio. Non è solo il bel Brad Pitt a dirlo alla mitica Angelina Jolie; lo disse anche il compassato e poco attraente filosofo Benedetto Croce a una più antica Angelina. Nella vita di don Benedetto quell’amore con una bella e allegra sciantosa durò vent’anni e ha contato più di quanto dicano i suoi biografi; ma contò soprattutto il dolore per la sua perdita, per la morte precoce di lei. Perfino la rottura con Giovanni Gentile fu legata a quell’amore perduto. Ad accennarne è Mircea Eliade nel suo bel Diario portoghese, uscito in questi giorni da Jaca Book (pagg. 314, euro 34).

Eliade racconta che aveva conosciuto nel 1941 all’ambasciata italiana a Lisbona il figlio di Giovanni Gentile, Benedetto. E questi gli aveva raccontato di donna Angelina, bella e piena di vita, che rallegrava la vita a Croce e viveva con lui more uxorio, uno scandalo per l’epoca. Angelina e don Benedetto ebbero uno stretto sodalizio con Gentile e la sua famiglia e furono perfino ospitati a casa del filosofo siciliano. Quando morì Angelina, Croce fu distrutto, e in seguito a questo grave dolore - un altro grave lutto della sua vita dopo la perdita dei genitori nel terremoto di Casamicciola - diventò irascibile e intrattabile, riferisce Eliade, si isolò dagli amici. Poi sposò una torinese «rigida e severa», che voleva cancellare il passato amore con Angelina e allontanare gli amici che ricordavano quel tempo, quella donna gioviale e quella relazione amorosa. Così, secondo il figlio di Gentile, si raffreddarono i rapporti con suo padre. A volte dietro solenni rotture filosofiche si celano motivi reconditi, legati alla vita, ai sentimenti e alle sofferenze. Dietro il grande divorzio idealistico nella storia della filosofia italiana del ’900, c’è il travaglio di una vicenda privata e l’avvicendarsi di due donne al fianco di Croce. Chi l’avrebbe mai detto...

«La mia vita è spezzata, perché io amavo Angelina più assai forse che ella non comprendesse» scrisse Croce a una cugina. Angelina Zampanelli era una romagnola gioviale che Prezzolini descriveva «di imperiale bellezza, più alta di lui, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna». Il suo fascino aveva stregato lo stesso Prezzolini e Renato Serra. Con Croce si erano incontrati a Salerno nel 1893, al caffè della stazione, gestito dai parenti di lei. Vissero insieme per molti anni, anche nella ex dimora di Goethe. Andarono spesso in viaggio insieme. Per la cagionevole salute di lei, che dal 1905 scoprì di avere problemi cardiaci, andarono in villeggiatura per sette anni consecutivi in un piccolo paese abruzzese, ospiti della cugina Teresa, a Raiano. Croce pensava che l’aria fina del paese avrebbe giovato alla sua Angelina. Ma fu proprio a Raiano, alla fine dell’estate del 1913, che Angelina morì. Nel registro dei morti, in data 1913, Angelina Zampanelli risulta come «moglie del Senatore Benedetto Croce». Non si sa se fu la pietosa aggiunta di un impiegato comunale per salvare la memoria di lei e la rispettabilità di lui dall’infamia della convivenza. O se, come scrissero i filosofi Nicola Abbagnano e Augusto Guzzo, Croce abbia sposato davvero in punto di morte l’amata Angelinella, che al paese chiamavano «la principessa» per il portamento giunonico.

Il crociano Gennaro Sasso escluse l’ipotesi di un Croce vedovo. In una memoria pubblicata su Il Tempo negli anni Sessanta, il fedele allievo di Croce, Edmondo Cione, che chiamavano «il vaccariello» perché andava sempre dietro la Vacca Sacra, don Benedetto, definisce Angelina «un’antica attrice di cafè chantant». Si deve invece ad Abbagnano la perfida definizione di sciantosa; fa impressione pensare all’austero Croce innamorato di quel che oggi si direbbe una «velina»...

Nell’ebbrezza del ménage con Angelina, il giovane Croce arrivò perfino, lui menomato alla gamba destra, a sfidare a duello il duca Riccardo Carafa di Andria in seguito a una divergenza sulla figura dantesca di Piccarda. Naturalmente perse il duello al primo sangue nonostante avesse preso lezioni di sciabola, alla presenza di D’Annunzio; e donò come pegno della sconfitta i suoi occhiali alla moglie dell’avversario, donna Errichetta. Ma la relazione con Angelina lo aveva riconciliato con la vita e lo avevo avvicinato perfino allo stile dannunziano del suo opposto conterraneo, il divo Gabriele. Lo studioso d’estetica visse con Angelina un po’ da esteta, il filosofo dello spirito si lasciò trasportare dalla carne e dal cuore.

Quando morì Angelina, raccontò Enrico Ruta a Prezzolini, Croce si disperò e pianse «con tutte le sue lacrime... non ho mai visto un uomo che ama la sua donna con tale passione». Alla cugina Teresina, don Benedetto confidò che la ferita aperta nel cuore «non si rimarginerà mai». Si sposò, disse, per non impazzire o non suicidarsi e per colmare l’insopportabile vuoto nella sua casa. Così pochi mesi dopo, per dimenticare Angelina, Croce sposò Adelina (decisamente meno avvenente e florida di Angelina, e sua conoscente quando era laureanda e si affacciava da Croce), dalla quale ebbe poi vari figli. Il ricordo di Angelina fu meticolosamente rimosso dalla vita di casa Croce, ormai trasferito a Palazzo Filomarino. Restò come unica traccia di lei, di quella ferita e del romanticismo nascosto e sofferto di don Benedetto, un ritratto di Angelina nella biblioteca di Palazzo Filomarino colta da Salvatore Postiglione nello splendore dei suoi ventinove anni. Quante volte, nella solitudine del suo scrittoio, il vecchio Croce avrà sollevato gli occhi dai libri a vedere quel ritratto florido di un tempo gioioso e avrà ripensato alle perfide imboscate del destino, che ti dà l’amore quando sei immerso nella vita solitaria della mente, e poi te lo toglie quando senti di non poterne più fare a meno.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 19 marzo 2010

Il testamento politico di Giano Accame


Giano Accame concludeva la sua vita, dopo aver ricevuto i sacramenti, il 15 aprile del 2009, lasciando però praticamente concluso il libro al quale lavorava da oltre un ventennio, il testo nel quale ripercorreva il suo personale e intellettuale "lungo viaggio attraverso il fascismo" per usare l'espressione di Ruggero Zangrandi. Adesso, a neanche un anno dalla morte di Accame, quel lavoro arriva nelle librerie, pubblicato da Mursia e con una prefazione "partecipata" di Giorgio Galli: La morte dei fascisti (pp. 340, € 19,00).

Proprio poche ore prima di spirare, leggiamo nell'ultima pagina del libro, l'autore leggeva con la figlia Barbara La morte in faccia, uno dei Poemi di Fresnes di Robert Brasillach. Versi che riportati integralmente dai curatori del volume contribuiscono a chiarire il significato profondo di tutta l'opera: «Il mattino - scriveva Brasillach poco prima di morire a 35 anni - il prete è venuto con la comunione. Pensavo con dolcezza a tutti quelli che amavo e tutti quelli che avevo conosciuto nella mia vita, e pensavo con dolore al loro dolore. Ma mi sono sforzato il più possibile di accettare...». Anche per questo i curatori - tra i quali un preziosissimo Luca Gallesi - aggiungono che in quest'opera postuma Accame «ha esposto le ragioni della sua passione politica, che è stata la sua ragione di vita».

Una passione politica manifestatasi quando Giano aveva solo diciassette anni, proprio di fronte a una sconfitta e alle immagini tragiche - di una tragedia etimologica, nel senso specifico di quella versione classica che fornì l'iconografia originaria al nostro Occidente - di piazzale Loreto. Scrive infatti Galli, a suo tempo collega di studi universitari di Accame, che il cuore del lavoro sta in una interpretazione culturale del fascismo attraverso la ricca cultura europea che si è schierata in quel versante, «nei suoi anni d'oro, ma, con coerenza, sino alla tragica fine: anche per essa, per i suoi rappresentanti che Accame tratta con grande partecipazione, mi pare ci sia la riflessione implicita sulla possibile sopravvivenza alla morte politica del fascismo». E, concludendo la sua lettura, Galli intravede nell'interpretazione-testamento di Accame i sintomi di una possibile trasvalutazione post-totalitaria nell'orizzonte di «un'esperienza che non si riduca alla morte, al retaggio di suoi maestri come Ezra Pound e Giovanni Gentile, a una destra innovativa e sofisticata, che credo sia stato il suo ideale di politico militante e di uomo di altissima cultura».

Il politologo aveva già ricordato, in uno scritto in occasione degli ottant'anni dell'amico Giano, che Accame ha sempre lavorato «per far uscire la destra dal lungo letargo». Lo confermava lo stesso autore de La morte dei fascisti: «Anche negli anni più ottusi e bui mi sono mosso come pochi per un allargamento, oltre la sconfitta bellica, degli orizzonti culturali, per ristabilire dei collegamenti, per sentirci meno soli e vivere la nostra esperienza in un quadro di riferimenti mondiali, da cui non dovevano essere esclusi nemmeno gli interessantissimi fermenti di rivitalizzazione della tradizione nazionale che si andava sviluppando anche a sinistra».

E partiamo, allora, proprio dal Brasillach i cui versi sono stati l'ultima cosa letta da Accame. Il poeta, scrittore e giornalista francese, ad appena tre mesi dalla vittoria degli alleati in Europa, viene fucilato il 6 febbraio 1945, dopo una condanna a morte per collaborazionismo. Il 15 marzo successivo esce di scena anche Pierre Drieu la Rochelle, suicidandosi a Parigi dopo aver letto le Upanishad. In Italia solo nel maggio 1961, grazie al coraggio di un editore non-conformista e di area socialista-libertaria come Massimo Pini, arriva nelle librerie Romanticismo fascista di Paul Sérant, con cui per la prima volta veniva portata alla diretta conoscenza nel nostro contesto culturale quell'importante fenomeno di "tentazione fascista". Le 350 pagine di quel saggio - ripubblicato poi nel 1971 dalle Edizioni del Borghese curate da Claudio Quarantotto - solleciteranno curiosità, traduzioni, approfondimenti. E il primo interprete italiano sarà proprio Giano Accame col suo saggio Contraddizioni di un romanticismo a destra che solleciterà anche una lunga risposta dello stesso Sérant. Da allora Robert Brasillach e Drieu entrano nell'immaginario dei giovani non-conformisti italiani degli anni Sessanta. E arrivano le traduzioni: splendida quella di Luciano Bianciardi del Gilles di Drieu, sempre del 1961, e poi quella - sempre di un racconto lungo di Drieu - di Fuoco fatuo, da cui qualche anno dopo Louis Malle trarrà anche un bel film. Poi sarà Alfredo Cattabiani a tradurre e pubblicare altri testi, ancora di Drieu: Piccoli borghesi, Che strano viaggio, Le memorie di Dirk Raspe.Poi ancora testi di Robert Brasillach, grazie soprattutto al lavoro di Adriano Romualdi. È del 1964 la pubblicazione della Lettera a un soldato della classe '40, curato dalle edizioni "Caravelle", con un lungo saggio dello stesso Romualdi. Era un diario dal carcere, in cui Brasillach iniziava con «caro ragazzo», rivolgendosi ai giovani della generazione successiva alla sua e si concludeva così: «Tu che mi leggerai, e che vivrai in un mondo diverso, avrai fatto la tua scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obiettività storica che noi abbiamo avuto per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza».

Ecco, Accame pubblicava in quel contesto Il poeta dei Balilla, con cui nel 1967 approfondiva i temi della risposta a Sérant e anticipava quanto scriverà anni dopo nel libro Il fascismo immenso e rosso e nelle trasmissioni televisive Intelligenze scomode del Novecento. Siamo all'interno di quella interpretazione culturale del fascismo che accomunerà studiosi di pur diverso orientamento come Augusto Del Noce, George L. Mosse e Tarmo Kunnas. E che indurrà lo storico israeliano Zeev Sternhell ad annotare: «Si può essere pieni di ammirazione per la vitalità della cultura fascista, per lo stesso senso di unità che il fascismo restituiva alla collettività, ma nello stesso tempo aborrire il totalitarismo, lo Stato poliziesco, il crimine politico. Non si è necessariamente candidati al posto di guardiani di campi di concentramento o di servi delle dittature se si riesce a percepire quello che i dissidenti degli anni '30 ammiravano nello spirito del tempo e cioè l'antimaterialismo e la rivolta contro la concezione utilitaristica della società».

Proprio in questo senso Accame scrive che «la storia del Novecento non si divide affatto in una prima metà dominata con i fascismi da un'attrazione per la morte e in una seconda metà che se ne è liberata con il liberalcapitalismo». E su questo versante il libro di Accame prende di petto e confuta tutte le interpretazioni - a partire da quelle di Furio Jesi e Umberto Eco - sull'«attrazione morbosa della morte come cattivo gusto specifico del fascismo». Semmai, si legge ne La morte dei fascisti, l'emblematica mortuaria e necrofila ha i suoi precedenti nella cultura romantica e decadentista e affonda le sue prime radici nell'epoca delle religioni civili, maturata con l'Illuminismo, con le liturgie massomiche, con una sensibilità letteraria che aveva ereditato larga parte del suo immaginario dai canti cimiteriali inglesi e dai Sepolcri di Foscolo. E invece, sottolinea Accame, «proprio la concezione attivistica, volontaristica, vitalistica del fascismo aveva piuttosto tolto a quella simbologia i tratti più tristemente funerei, per esaltare attraverso la sfida alla morte la vita intesa come passione e combattimento». Oltretutto, «ancor prima d'apparire in guerra l'emblema del teschio si portava dietro il ricordo delle prime spensierate letture adolescenziali: il teschio e le tibie ornavano le bandiere dei corsari, con cui Emilio Salgari aveva popolato simpaticamente la fantasia dei ragazzi. E per altri percorsi il simbolismo del nero e del teschio era stato trasmesso al fascismo nascente, con spirito tutt'altro che malinconico e funerario, dai tanti arditi della Prima guerra mondiale che vi avevano aderito...». Di contro, Accame evidenzia - nel capitolo intitolato "Per una storia della truculenza" - tutto il portato del bellicismo di matrice liberale e democratica: «Sarebbe insensato - spiega - esaurire nella categoria dei totalitarismi, innescati dalla Grande Guerra e da tempo finiti, tutte le pulsioni di morte, le aspirazioni sacrificali, che dal fondo delle epoche più remote gravarono sulla storia del '900». Efficaci le osservazioni sul fatto che «i primi arabi impiccati da italiani» appartengono all'immaginario liberale, così come liberaldemocratico è stato il moto espansivo di tutto il colonialismo europeo. E in quella matrice di violenza che era stata la Grande Guerra, da cui venne marcato tutto il Novecento, «le voci di Thomas Mann, Sigmund Freud, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, personaggi che furono antifascisti, espressero inclinazioni alla morte largamente diffuse».

Anche per questo la presunta deriva necrofila è stata un grosso equivoco ai danni della cultura "tentata" dal fascismo. Brasillach, per dirne una, era schierato dalla parte della vita e della giovinezza. «La gravità - scriveva - non è tutto nell'esistenza, è assai meno importante della leggerezza». In sintonia con lui tutti gli altri autori presenti in questo testamento di Giano Accame. Il quale, non a caso, ha voluto dedicare il libro a due persone scomparse che, pur nella differenza di esperienze e di itinerario, si sono poste nell'orizzonte dell'oltrepassamento del fascismo oltre la sua morte politica: Peppe Dimitri e Beppe Niccolai. «Andare - per dirla con Drieu - al di là dell'avvenimento, tentare cammini rischiosi, percorrere tutte le strade possibili: è l'unico modo per andare dove non c'è nessuno».

(di Luciano Lanna)

mercoledì 17 marzo 2010

Generazione di Fini: futuro alle spalle

No, Generazione Italia, la nuova corrente finiana, non è un parto prematuro, annunciato due settimane prima delle elezioni, quando non si dovrebbe mostrare discordia. Generazione Italia nasce in ritardo. Se i suoi fini, come spiegano i promotori, sono riportare la democrazia nel partito e pensare il futuro, aveva necessità di nascere già in Alleanza nazionale guidata da Fini. Perché An era un partito privo di democrazia interna, di cui Fini era il monarca assoluto e di cui i colonnelli avevano paura, come mostrò la vicenda delle chiacchiere al bar. Ed era un partito ormai svuotato di senso e di contenuti, privato di futuro e di una sua identità, omologato a Forza Italia, come riconosce il politico di maggior spessore della conventicola finiana, Fabio Granata.

Provo ad entrare in questo secondo laboratorio finiano e a capirne il progetto politico. Evito di capirlo tramite Fini la cui strategia ha un solo canone, l’opportunismo: prima trarre profitto dal largo consenso a Berlusconi e poi dissociarsi appena insorge una difficoltà. Così si ottengono due risultati: si vince le elezioni con Berlusconi e si ottiene il consenso di giornali e avversari. Oscar del pubblico grazie a Silvio, Oscar della critica grazie alle posizioni antisilvio. Fare Furbizia. Fini ha sempre fatto così, ora anche con la Polverini: prima l’ha eletta a vessillo della generazione finiana e poi l’ha scaricata appena sono sorti problemi.

Ma usciamo dal piccolo tatticismo finiano, cerchiamo di ravvisare una linea politica in Generazione Italia. Cominciamo però dalla domanda: ma diventerà un partito? Dipende dalle elezioni e dal loro esito. Ma io non credo che succederà; Fini sa che avrebbe larghi apprezzamenti da avversari e stampa ma gli mancherebbe un piccolo particolare: un popolo. Sarebbe un partito di minoranza che non conterebbe nemmeno sul vecchio elettorato missino o di destra, perché le posizioni finiane sono ancora più lontane da loro di quelle berlusconiane. Per taluni lo smarcamento finiano è un modo per prendere le distanze rispetto ai guai giudiziari; ma a parte il fatto che quei guai ci sono sempre stati, si sottovalutano almeno un paio di filoni d’inchiesta che hanno toccato pure il piccolo mondo finiano. Semmai la loro presa di distanza da Berlusconi serve da portafortuna con i magistrati. Per taluni Generazione Italia vorrebbe essere una specie di Partito d’azione rispetto ai partiti di massa; ma quello era un partitino di veri intellettuali, pur con tutti i limiti politici. Qui mi pare difficile ravvisare un profilo culturale: non confondiamo la risonanza mediatica con lo spessore culturale. A proposito di neoazionisti, i finiani sono stati adottati a distanza dalla rivista azionista e giacobina MicroMega. Che da anni pretende di scegliere il proprio avversario e di stabilirne i requisiti. È inutile dire che la scelta va sempre a chi è di destra contro la destra in campo. La miglior destra è sempre quella che non c’è, la destra dei morti o degli zombie, comunque la destra perdente e minoritaria. Appena vince, va squalificata. Ieri Montanelli quando disse di votare Ulivo, poi Fisichella quando passò con la Margherita, ora i finiani. E per far capire cosa intendono per destra civile lanciano l’uomo di destra ideale, Marco Travaglio. Che in un articolo spiega appunto «La mia destra». È una sinistra completa, quella italiana, fornisce perfino la destra di uomini e di idee. Quelli che sono di destra per conto proprio sono ritenuti intrusi, rozzi e superflui; in un regime micromegalico sarebbero rinchiusi nello zoo, in quanto bestie incivili.

Il campione adottivo della destra finiana è Granata, il quale in un dialogo con Camilleri sulla rivista si sforza di compiacere i suoi ospiti e per farsi rilasciare il passaporto di destra civile si dice eroicamente disposto a far cadere il governo se Berlusconi insisterà a proporre alcune leggi. Poi confessa di aver preso la tessera di Legambiente, professa la sua fede nel testamento biologico, sottolinea di lavorare in senso «gramsciano» ed elogia la Mussolini, che «al di là del suo cognome è una persona avanzatissima sui temi civili». Vorrei solo far notare che la Mussolini è là in virtù del suo cognome (è avanzata sì ma dal regime precedente); altrimenti sarebbe una femminista radicale qualunque. Ma già l’espressione avanzatissima implica una sudditanza culturale verso i progressisti e mostra l’orrore di passare ai loro occhi per retrivi. Per lo stesso complesso, ad esempio, a Roma promosse più iniziative culturali non conformiste l’assessore venuto dal Pci, Gianni Borgna che l’assessore finiano Umberto Croppi, smanioso di compiacere la sinistra. A ridatece il compagno Borgna... Come Fini, anche Granata sposa una tesi tipica della sinistra europea: il patriottismo costituzionale, ovvero riconoscere la propria patria nella Costituzione e nelle sue leggi. Ma ogni destra, nuova o antica, laica o cattolica, nostalgica o liberale, moderata o radicale, preferisce il patriottismo della tradizione. Ovvero ama l’Italia più che la Carta. I finiani hanno compiuto un altro strappo rispetto al popolo che li ha eletti: come la sinistra, oggi difendono la centralità del Parlamento. Invece la sua tradizione, i suoi elettori, la sua cultura preferiscono una democrazia presidenziale, fondata sulla decisione e sulla responsabilità diretta di chi governa.

Insomma, capirei una nuova destra che mettesse in discussione il modello culturale berlusconiano, che difendesse il senso dello Stato dalle derive anarchiche e la libertà dalle scelte restrittive (penso alla sciocchezza di chiudere i talk show in Rai, ad esempio). Capirei una nuova destra che ponesse il primato del cittadino sul consumatore, della comunità sull’individualismo, della civiltà italiana, mediterranea ed europea sull’americanizzazione globale. Ma le linee su cui Fini e i suoi ragazzi vogliono costruire la loro alternativa mi sembrano fumose, succubi della sinistra e del politically correct, tardomoderniste, laiciste e radicali. Segnano una distanza dal paese, nella premura di compiacere alcune élite di potere. Tradiscono il vecchio complesso del fascista ripulito, che deve farsi accettare e fa di tutto per rendersi simpatico a lorsignori, anche le capriole. Il loro movimentismo somiglia a quello delle mosche che ronzano nell’abitacolo dell’auto ma avanzano perché qualcuno intanto guida. Sperate che non apra mai il finestrino.
(di Marcello Veneziani)