Una volta chiesi a Montanelli un giudizio su Eugenio Scalfari. «Non è dei nostri», rispose senza esitazione il grande Indro, intendendo dire che non è un giornalista. Il suo stile è orripilante: ciceroniano, «ore rotundo», privo di capacità di sintesi, involuto, avvocaticchio, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. E corrisponde perfettamente all’uomo. In un libro senile, Incontro con io, con ambizioni penosamente filosofiche, ha scritto: «Ho finalmente raggiunto la pienezza di me». Non osiamo immaginare, perché pieno di sé Scalfari lo è sempre stato. Parlando, come suole, ex cathedra, non ha mai rinunciato a impartire lezioni, soprattutto di morale; in particolare ai colleghi. Del suo giornale ha scritto: «La qualità culturale e morale di Repubblica non ha riscontro con nessun fenomeno analogo nel giornalismo italiano... i suoi lettori rappresentano il meglio della società». Questa boria incontrollata lo ha esposto anche a figuracce incresciose. Nel 1969, quando era deputato socialista, un vigile osò fargli una multa alla Stazione centrale di Milano perché aveva parcheggiato la macchina in sosta vietata. Lui esplose nel più classico e italico «Lei non sa chi sono io!» e gli scagliò contro L’Espresso dove il vigile figurava come l’emblema del potere arrogante e protervo e lui, Scalfari, come il cittadino inerme. Del resto una certa vocazione censoria questo campione della «libera stampa» l’ha sempre avuta. Quando nei sinistrorsi anni Sessanta Maurizio Costanzo invitò Montanelli al suo talk-show, attaccò il conduttore perché aveva dato la parola a «un fascista». Quando, negli stessi anni, gli extraparlamentari diedero l’assalto al Corriere cercando di impedirne l’uscita, plaudì all’iniziativa: «Questi giovani ci insegnano qualcosa (...)l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate (...)a nascondere le informazioni, a manipolare le opinioni pubbliche (...). Chi ama la libertà (...)non può che rallegrarsene» (L’Espresso, 21 aprile 1968).
Prototipo assoluto del radical-chic, con cuore a sinistra ma portafoglio ben sistemato a destra, e ostentato calzino lungo color panna come massimo dell’eleganza mentre lo è del kitsch. O per dirla con le parole di un insolitamente coraggioso Giorgio Bocca, «aveva un po’ di questa disinvoltura: esser di sinistra però esser sempre amico dei potenti». Scalfari ne ha fatto un’intera collezione con una particolare predilezione, lui che cominciò come impiegato di banca, per banchieri, finanzieri, uomini di denaro, da Carli a Baffi a Visentini a Rovelli a Cefis poi abbandonato a favore di Sindona (ah, la mai trovata lista dei 500 privilegiati che scamparono al crac sindoniano...). Dal suo maestro Cicerone Scalfari ha preso, oltre al trombonismo e alla doppia morale, anche lo spudorato opportunismo. È stato, via via, fascista, azionista, liberale, radicale, repubblicano, socialista, comunista, democristiano demitiano. Non c’è stanza del Potere che non abbia bazzicato. Quando si accorse che la Lega di Bossi stava per prendere piede e sconvolgere il sistema di potere in cui era così ben incistato, Scalfari fondò una comica «Lega nazionale» che, scalzando quegli straccioni di leghisti, avrebbe dovuto provvedere, nientemeno, alla «gestione della Nazione... con una morale nuova, con gente credibile e non compromessa» (la Repubblica, 1° dicembre 1991). Più avanti creò, con Ferdinando Adornato, una Alleanza democratica che alle elezioni prese percentuali da albumina. Il fatto è che in politica (la sua grande e vera passione se intesa come Potere) Scalfari non ne ha mai azzeccata una. Nel 1959, già dimentico del massacro ungherese, pubblicò sull’Espresso un articolo dall’eloquente titolo «La Russia ha già vinto la grande sfida?», in cui profetava, con la consueta sicumera, che il sistema sovietico avrebbe prevalso su quello liberista americano, che, riletto oggi, ha effetti esilaranti e surreali, alla Bergonzoni. Ogni volta che ha dato il suo appoggio a qualcuno, si trattasse di Berlinguer o di De Mita, il suo si è trasformato in una sorta di «bacio della morte». Ma la vera, grave responsabilità di Scalfari è un’altra. È di essere stato il grande corruttore della coerenza intellettuale e morale dell’intelligencija del nostro paese. È lui che ha dato inizio alla pratica di scrivere una cosa e il mese dopo, una settimana dopo, il giorno dopo, a seconda delle circostanze, l’esatto opposto, senza batter ciglio. Il record lo raggiunse in un articolo su Craxi dove nella seconda parte smentiva la prima.
Una volta chiesi a Montanelli un giudizio su Eugenio Scalfari. «Non è dei nostri», rispose senza esitazione il grande Indro, intendendo dire che non è un giornalista. Il suo stile è orripilante: ciceroniano, «ore rotundo», privo di capacità di sintesi, involuto, avvocaticchio, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. E corrisponde perfettamente all’uomo. In un libro senile, Incontro con io, con ambizioni penosamente filosofiche, ha scritto: «Ho finalmente raggiunto la pienezza di me». Non osiamo immaginare, perché pieno di sé Scalfari lo è sempre stato. Parlando, come suole, ex cathedra, non ha mai rinunciato a impartire lezioni, soprattutto di morale; in particolare ai colleghi. Del suo giornale ha scritto: «La qualità culturale e morale di Repubblica non ha riscontro con nessun fenomeno analogo nel giornalismo italiano... i suoi lettori rappresentano il meglio della società». Questa boria incontrollata lo ha esposto anche a figuracce incresciose. Nel 1969, quando era deputato socialista, un vigile osò fargli una multa alla Stazione centrale di Milano perché aveva parcheggiato la macchina in sosta vietata. Lui esplose nel più classico e italico «Lei non sa chi sono io!» e gli scagliò contro L’Espresso dove il vigile figurava come l’emblema del potere arrogante e protervo e lui, Scalfari, come il cittadino inerme. Del resto una certa vocazione censoria questo campione della «libera stampa» l’ha sempre avuta. Quando nei sinistrorsi anni Sessanta Maurizio Costanzo invitò Montanelli al suo talk-show, attaccò il conduttore perché aveva dato la parola a «un fascista». Quando, negli stessi anni, gli extraparlamentari diedero l’assalto al Corriere cercando di impedirne l’uscita, plaudì all’iniziativa: «Questi giovani ci insegnano qualcosa (...)l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate (...)a nascondere le informazioni, a manipolare le opinioni pubbliche (...). Chi ama la libertà (...)non può che rallegrarsene» (L’Espresso, 21 aprile 1968).
Prototipo assoluto del radical-chic, con cuore a sinistra ma portafoglio ben sistemato a destra, e ostentato calzino lungo color panna come massimo dell’eleganza mentre lo è del kitsch. O per dirla con le parole di un insolitamente coraggioso Giorgio Bocca, «aveva un po’ di questa disinvoltura: esser di sinistra però esser sempre amico dei potenti». Scalfari ne ha fatto un’intera collezione con una particolare predilezione, lui che cominciò come impiegato di banca, per banchieri, finanzieri, uomini di denaro, da Carli a Baffi a Visentini a Rovelli a Cefis poi abbandonato a favore di Sindona (ah, la mai trovata lista dei 500 privilegiati che scamparono al crac sindoniano...). Dal suo maestro Cicerone Scalfari ha preso, oltre al trombonismo e alla doppia morale, anche lo spudorato opportunismo. È stato, via via, fascista, azionista, liberale, radicale, repubblicano, socialista, comunista, democristiano demitiano. Non c’è stanza del Potere che non abbia bazzicato. Quando si accorse che la Lega di Bossi stava per prendere piede e sconvolgere il sistema di potere in cui era così ben incistato, Scalfari fondò una comica «Lega nazionale» che, scalzando quegli straccioni di leghisti, avrebbe dovuto provvedere, nientemeno, alla «gestione della Nazione... con una morale nuova, con gente credibile e non compromessa» (la Repubblica, 1° dicembre 1991). Più avanti creò, con Ferdinando Adornato, una Alleanza democratica che alle elezioni prese percentuali da albumina. Il fatto è che in politica (la sua grande e vera passione se intesa come Potere) Scalfari non ne ha mai azzeccata una. Nel 1959, già dimentico del massacro ungherese, pubblicò sull’Espresso un articolo dall’eloquente titolo «La Russia ha già vinto la grande sfida?», in cui profetava, con la consueta sicumera, che il sistema sovietico avrebbe prevalso su quello liberista americano, che, riletto oggi, ha effetti esilaranti e surreali, alla Bergonzoni. Ogni volta che ha dato il suo appoggio a qualcuno, si trattasse di Berlinguer o di De Mita, il suo si è trasformato in una sorta di «bacio della morte». Ma la vera, grave responsabilità di Scalfari è un’altra. È di essere stato il grande corruttore della coerenza intellettuale e morale dell’intelligencija del nostro paese. È lui che ha dato inizio alla pratica di scrivere una cosa e il mese dopo, una settimana dopo, il giorno dopo, a seconda delle circostanze, l’esatto opposto, senza batter ciglio. Il record lo raggiunse in un articolo su Craxi dove nella seconda parte smentiva la prima.
(di Massimo Fini dal volume Senz'anima - Chiarelettere, pagg. 472, euro 15, in libreria da oggi)
Una volta chiesi a Montanelli un giudizio su Eugenio Scalfari. «Non è dei nostri», rispose senza esitazione il grande Indro, intendendo dire che non è un giornalista. Il suo stile è orripilante: ciceroniano, «ore rotundo», privo di capacità di sintesi, involuto, avvocaticchio, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. E corrisponde perfettamente all’uomo. In un libro senile, Incontro con io, con ambizioni penosamente filosofiche, ha scritto: «Ho finalmente raggiunto la pienezza di me». Non osiamo immaginare, perché pieno di sé Scalfari lo è sempre stato. Parlando, come suole, ex cathedra, non ha mai rinunciato a impartire lezioni, soprattutto di morale; in particolare ai colleghi. Del suo giornale ha scritto: «La qualità culturale e morale di Repubblica non ha riscontro con nessun fenomeno analogo nel giornalismo italiano... i suoi lettori rappresentano il meglio della società». Questa boria incontrollata lo ha esposto anche a figuracce incresciose. Nel 1969, quando era deputato socialista, un vigile osò fargli una multa alla Stazione centrale di Milano perché aveva parcheggiato la macchina in sosta vietata. Lui esplose nel più classico e italico «Lei non sa chi sono io!» e gli scagliò contro L’Espresso dove il vigile figurava come l’emblema del potere arrogante e protervo e lui, Scalfari, come il cittadino inerme. Del resto una certa vocazione censoria questo campione della «libera stampa» l’ha sempre avuta. Quando nei sinistrorsi anni Sessanta Maurizio Costanzo invitò Montanelli al suo talk-show, attaccò il conduttore perché aveva dato la parola a «un fascista». Quando, negli stessi anni, gli extraparlamentari diedero l’assalto al Corriere cercando di impedirne l’uscita, plaudì all’iniziativa: «Questi giovani ci insegnano qualcosa (...)l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate (...)a nascondere le informazioni, a manipolare le opinioni pubbliche (...). Chi ama la libertà (...)non può che rallegrarsene» (L’Espresso, 21 aprile 1968).
Prototipo assoluto del radical-chic, con cuore a sinistra ma portafoglio ben sistemato a destra, e ostentato calzino lungo color panna come massimo dell’eleganza mentre lo è del kitsch. O per dirla con le parole di un insolitamente coraggioso Giorgio Bocca, «aveva un po’ di questa disinvoltura: esser di sinistra però esser sempre amico dei potenti». Scalfari ne ha fatto un’intera collezione con una particolare predilezione, lui che cominciò come impiegato di banca, per banchieri, finanzieri, uomini di denaro, da Carli a Baffi a Visentini a Rovelli a Cefis poi abbandonato a favore di Sindona (ah, la mai trovata lista dei 500 privilegiati che scamparono al crac sindoniano...). Dal suo maestro Cicerone Scalfari ha preso, oltre al trombonismo e alla doppia morale, anche lo spudorato opportunismo. È stato, via via, fascista, azionista, liberale, radicale, repubblicano, socialista, comunista, democristiano demitiano. Non c’è stanza del Potere che non abbia bazzicato. Quando si accorse che la Lega di Bossi stava per prendere piede e sconvolgere il sistema di potere in cui era così ben incistato, Scalfari fondò una comica «Lega nazionale» che, scalzando quegli straccioni di leghisti, avrebbe dovuto provvedere, nientemeno, alla «gestione della Nazione... con una morale nuova, con gente credibile e non compromessa» (la Repubblica, 1° dicembre 1991). Più avanti creò, con Ferdinando Adornato, una Alleanza democratica che alle elezioni prese percentuali da albumina. Il fatto è che in politica (la sua grande e vera passione se intesa come Potere) Scalfari non ne ha mai azzeccata una. Nel 1959, già dimentico del massacro ungherese, pubblicò sull’Espresso un articolo dall’eloquente titolo «La Russia ha già vinto la grande sfida?», in cui profetava, con la consueta sicumera, che il sistema sovietico avrebbe prevalso su quello liberista americano, che, riletto oggi, ha effetti esilaranti e surreali, alla Bergonzoni. Ogni volta che ha dato il suo appoggio a qualcuno, si trattasse di Berlinguer o di De Mita, il suo si è trasformato in una sorta di «bacio della morte». Ma la vera, grave responsabilità di Scalfari è un’altra. È di essere stato il grande corruttore della coerenza intellettuale e morale dell’intelligencija del nostro paese. È lui che ha dato inizio alla pratica di scrivere una cosa e il mese dopo, una settimana dopo, il giorno dopo, a seconda delle circostanze, l’esatto opposto, senza batter ciglio. Il record lo raggiunse in un articolo su Craxi dove nella seconda parte smentiva la prima.
(di Massimo Fini dal volume Senz'anima - Chiarelettere, pagg. 472, euro 15, in libreria da oggi)
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