giovedì 6 maggio 2010

Avviso al ministro Maroni


Eppure proprio le cronache che svaniscono ci aiutano a capire lo stato di salute di un Paese. Sono il termometro che misura la febbre. Ti dice che hai una temperatura quasi normale, trentasette e mezzo. Ma nello stesso tempo ti avverte che potrebbe arrivarti un febbrone da cavallo.

In Italia di febbroni ne abbiamo molti. Ma il più insidioso ha un nome corto e quasi osceno: l’odio. L’odio politico che diventa ogni giorno di più odio personale e può fare danni irreparabili.

Attenzione: non sto parlando di Silvio Berlusconi e della cupa avversione che suscita in troppa gente. Anche se il nostro presidente del Consiglio sta diventando, controvoglia, un caso unico al mondo. Ha già subito un attentato, vive blindato, le rare volte che cammina per strada deve essere protetto da un muro di guardie del corpo.

Pur non avendo mai votato per lui, e benché l’abbia criticato molte volte sulle colonne del Riformista, provo vergogna per un Paese dove il capo del governo è costretto a procedere come se fosse in territorio nemico. Immagino che qualche lettore del Riformista si stia chiedendo se l’autore del Bestiario non sia impazzito. Oppure non sia passato armi e bagagli al Popolo della libertà. A questi amici, replico: cari lettori, meditate, meditate! Se il Cavaliere è in pericolo, pure voi lo siete. In base a un principio, vecchio quanto il mondo, che recita: oggi a me, domani a te.

L’odio politico è di nuovo emerso negli ultimi giorni, a partire dall’anniversario del 25 aprile, festa della Liberazione. So bene che la Resistenza e la guerra partigiana sono una storia molto più complessa di quella che viene insegnata nelle scuole e predicata dalle tante sinistre. In realtà, finita la dittatura nera, la guerra civile poteva sfociare in una dittatura rossa. I comunisti volevano imporci una democrazia progressiva, così la chiamavano. Destinata a diventare una democrazia popolare con un partito unico. A somiglianza di quanto stava accadendo nei Paesi occupati dall’Unione Sovietica. Ci salvò la presenza delle armate inglesi e americane. Dopo aver perso migliaia e migliaia di ragazzi, caduti in battaglia per liberarci dell’occupazione tedesca, ci fecero un ultimo regalo: una democrazia parlamentare.

Pur sapendo come andarono le cose, penso anch’io che il 25 aprile vada celebrato e festeggiato. Gli storici ci hanno già spiegato con dovizia di argomenti che tutte le democrazie hanno bisogno di un mito fondativo. E il mito che sta alla base della Repubblica nella quale viviamo è quello resistenziale. Ma non tutti la pensano così. Non parlo di chi ha vissuto la tragedia della Repubblica sociale e ha pagato un conto salato. Con uno sterminio massiccio, le tante persone assassinate dopo il 25 aprile. Parlo di una minoranza violenta, tutta rossa, che si attribuisce la proprietà esclusiva dell’antifascismo. E quindi della Liberazione.

Qui arrivo alle notizie subito dimenticate. Sappiamo tutti che cosa è accaduto a Milano e a Roma.

Contestazioni e insulti a chi era chiamato a celebrare la Resistenza. Nella capitale c’è stata anche un’aggressione fisica contro la presidente della Regione e il presidente della Provincia. Costretti a lasciare il palco dai fumogeni e dagli oggetti lanciati da una banda di sedicenti antifascisti, usciti da qualche centro sociale.

Poiché la gramigna si estende a macchia d’olio, dopo il 25 aprile l’odio politico è emerso a Firenze. È stata impedita la presentazione in pubblico di un libro sull’organizzazione Gladio che non piaceva agli odiatori. Si è cercato di bloccare un altro dibattito su un libro di Marco Tarchi, un autore che conosco, docente a Firenze, un intellettuale campione di mitezza. Sui manifesti per un convegno dedicato a Marco Biagi, il giurista ucciso dalle Brigate Rosse nel marzo 2002, sono state tracciate scritte nefande. Una diceva: «Biagi non pedala più». La firma era una stella a cinque punte e la sigla Br. Tutte vicende che ho appreso dal Giornale della Toscana e dalla Nazione.

Insieme ad altre grandi città italiane, Firenze sta diventando un fronte di guerriglia. E non per opera di masse studentesche e operaie. Sono piccoli gruppi di antagonisti, sempre armati di caschi e spranghe, pronti a menare le mani, capaci di un linguaggio mortuario. Usato per minacciare le persone e per ricordare di continuo i massacri del dopoguerra: «A piazzale Loreto c’è ancora posto!». Per me non è una novità. Il gruppo che nel 2006 mi aggredì a Reggio Emilia, guidato da un giovane funzionario di Rifondazione comunista, inalberava un lenzuolo color sangue dove c’era scritto: «Triangolo rosso? Nessun rimorso».

Non è per niente folclore politico, come seguitano a credere in molti a sinistra. Lo squadrismo fascista degli anni Venti è iniziato con piccoli gruppi di violenti. Anche i miliziani dell’antagonismo rosso possono diventare molto pericolosi. Soprattutto in una fase di forte crisi economica e sociale. Gli italiani senza potere, a cominciare da noi che lavoriamo nei media, ignorano che cosa si stia muovendo negli scantinati del ribellismo. Ma il ministero dell’Interno dovrebbe saperlo.

Il ministro Roberto Maroni viene elogiato per tanti motivi. Il primo è che ha fermato i grandi sbarchi dei clandestini e incarcera mafiosi. Vuol dare un’occhiata anche alle bande che spadroneggiano in tante città? È una richiesta cortese e anche un avviso. Si muova, prima di essere aggredito anche lui.

(di Giampaolo Pansa)

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