Spappolocrazia. Il neologismo sta ad indicare che il sistema Italia è in preda allo spappolamento. Fini schizza a est, Veltroni schizza a ovest, Miccicchè schizza a sud, Bossi schizza a nord. Mastella corre a Napoli, Vendola accorre da Bari, Chiamparino soccorre da Torino, Pisanu fa il tamburino sardo, Lombardo fa il sultano siculo e nell’harem delle alleanze fa fuori una concubina al giorno. Totò Cuffaro divorzia da Casini, il cui partito è in preda allo spappolamento, come i resti di Alleanza nazionale, Di Pietro vampirizza Bersani, ma a sua volta è vampirizzato dai grillini. Si spappola il Sud in una miriade di partitini a vocazione territoriale. E il Paese trema come un budino spappolato, diviso tra Nord, Sud e Roma capitale, la scassatissima trinità.
In questo clima cresce il randagismo parlamentare. Turbe di deputati privi di collare sciàmano randage per le strade della Capitale in cerca di nuove affiliazioni, nuovi padroncini e rassicurazioni di collegi. Abbaiano in interviste, tirano sul prezzo, si concedono al miglior offerente, giurano fedeltà per avere conferma di seggi o mostrano malessere per godere almeno di un’adozione a distanza. Si rivedono cari estinti: Diliberto e Ferrero riemergono dai sarcofagi del comunismo; ho visto l’altro giorno un altro glorioso trapassato, Pecoraro Scanio, operatore ecologico in senso politico, che vendeva tappeti verdi su una tivù locale. Riaffiora dopo un millennio perfino una mummia piemontese, Oscar Luigi Scalfaro, antenato paleolitico della Democrazia cristiana avanti Cristo. Si riaccendono polemiche perfino con l’antico egizio Giulio Andreotti. Attendiamo con ansia il ritorno dei ragazzi, tipo Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani.
Nel nostro Paese sta avvenendo qualcosa che somiglia alla fine di un lungo sceneggiato; scorrono i titoli di coda con i nomi dei partecipanti, anche alle puntate precedenti. Si preparano per il gran finale tutti quanti, comparse, protagonisti e antagonisti, per poi salutare il gentile pubblico pagante.
Dopo la partitocrazia venne la spappolocrazia. Stanchi della monarchia berlusconiana, i residui tossici dei vecchi partiti danno luogo a questa convulsa stagione di spaccature e riemersioni. Eppure avevamo raggiunto, per caso o per destino, la fortunosa coincidenza di un governo stabile, di una maggioranza larga, di un Paese che poteva tirare un sospiro di sollievo perché non aveva davanti a sé, per tre lunghissimi anni, la prospettiva di un sisma elettorale. Non c’erano elezioni in vista, poteva essere l’occasione per tutti, da destra a sinistra, per lavorare proficuamente sul futuro, ridisegnare progetti, culture politiche, selezionare classi dirigenti, prepararsi insomma alla scadenza di questo governo. Potevano investire per una volta su una doppia carta: lasciare che un governo governasse per davvero, lasciando la possibilità di realizzare il suo programma, o, dal punto di vista dell’opposizione, dimostrare la sua incapacità di farlo. E dall’altra parte avviare un laborioso piano per presentarsi nel 2013 alle urne con leader adeguati, classi dirigenti rinnovate, programmi e linguaggi adeguati alle nuove sfide. Invece no, si è preferito la cospirazione, la congiura, la scissione, il regicidio mediatico, l’anarchia dello spappolamento. Basta con il capo-popolo, hanno gridato i capetti di tanti popolini, quasi tutti al cinque per cento o giù di lì, a cominciare dai due figliocci traditori del comunismo e della missineria.
Se ci fosse un Plutarco disposto a scrivere le vite parallele dei piccoli uomini che non hanno fatto la storia, ma l’hanno solo disfatta, si potrebbe scrivere una storia parallela di Walter e Gianfranco. Con Walter sparì la sinistra dal Parlamento italiano; quella radicale fu messa fuori dal cono d’alleanza, e il Pds perse la esse di sinistra per farsi un sapone neutro. Con Gianfranco sparì la destra dal Parlamento italiano, quella sociale fu messa fuori gioco, e come il pentito Brusca, Gianfranco sciolse An, ancora adolescente, nel liquido del Pdl. Liquidatori della destra e della sinistra, ora i due leaderini stanno sfasciando i rispettivi partiti di cui erano cofondatori e di cui sono ora coaffondatori.
Veltroni ha più seguito di Fini, e il Pdl è ben più grosso del Pd, però la marcia è parallela. La differenza tra i due è a vantaggio di Veltroni: lui, perlomeno, ha fatto il sindaco di Roma, ha inventato un suo modellino tra notti bianche, fiction e festival, ha costruito una sua rete cine-teatral-culturale e i libri a sua firma, almeno, li scrive lui. Di Fini, invece, restano solo i comizi in tv o nelle Mirabello d’Italia, vincitore del festival delle parole vuote di cui narrava ieri il Corsera. Sono loro oggi i simboli viventi di un sistema morente, i testimonial e indossatori dello spappolamento nazionale. Benvenuti nella spappolocrazia.
(di Marcello Veneziani)
In questo clima cresce il randagismo parlamentare. Turbe di deputati privi di collare sciàmano randage per le strade della Capitale in cerca di nuove affiliazioni, nuovi padroncini e rassicurazioni di collegi. Abbaiano in interviste, tirano sul prezzo, si concedono al miglior offerente, giurano fedeltà per avere conferma di seggi o mostrano malessere per godere almeno di un’adozione a distanza. Si rivedono cari estinti: Diliberto e Ferrero riemergono dai sarcofagi del comunismo; ho visto l’altro giorno un altro glorioso trapassato, Pecoraro Scanio, operatore ecologico in senso politico, che vendeva tappeti verdi su una tivù locale. Riaffiora dopo un millennio perfino una mummia piemontese, Oscar Luigi Scalfaro, antenato paleolitico della Democrazia cristiana avanti Cristo. Si riaccendono polemiche perfino con l’antico egizio Giulio Andreotti. Attendiamo con ansia il ritorno dei ragazzi, tipo Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani.
Nel nostro Paese sta avvenendo qualcosa che somiglia alla fine di un lungo sceneggiato; scorrono i titoli di coda con i nomi dei partecipanti, anche alle puntate precedenti. Si preparano per il gran finale tutti quanti, comparse, protagonisti e antagonisti, per poi salutare il gentile pubblico pagante.
Dopo la partitocrazia venne la spappolocrazia. Stanchi della monarchia berlusconiana, i residui tossici dei vecchi partiti danno luogo a questa convulsa stagione di spaccature e riemersioni. Eppure avevamo raggiunto, per caso o per destino, la fortunosa coincidenza di un governo stabile, di una maggioranza larga, di un Paese che poteva tirare un sospiro di sollievo perché non aveva davanti a sé, per tre lunghissimi anni, la prospettiva di un sisma elettorale. Non c’erano elezioni in vista, poteva essere l’occasione per tutti, da destra a sinistra, per lavorare proficuamente sul futuro, ridisegnare progetti, culture politiche, selezionare classi dirigenti, prepararsi insomma alla scadenza di questo governo. Potevano investire per una volta su una doppia carta: lasciare che un governo governasse per davvero, lasciando la possibilità di realizzare il suo programma, o, dal punto di vista dell’opposizione, dimostrare la sua incapacità di farlo. E dall’altra parte avviare un laborioso piano per presentarsi nel 2013 alle urne con leader adeguati, classi dirigenti rinnovate, programmi e linguaggi adeguati alle nuove sfide. Invece no, si è preferito la cospirazione, la congiura, la scissione, il regicidio mediatico, l’anarchia dello spappolamento. Basta con il capo-popolo, hanno gridato i capetti di tanti popolini, quasi tutti al cinque per cento o giù di lì, a cominciare dai due figliocci traditori del comunismo e della missineria.
Se ci fosse un Plutarco disposto a scrivere le vite parallele dei piccoli uomini che non hanno fatto la storia, ma l’hanno solo disfatta, si potrebbe scrivere una storia parallela di Walter e Gianfranco. Con Walter sparì la sinistra dal Parlamento italiano; quella radicale fu messa fuori dal cono d’alleanza, e il Pds perse la esse di sinistra per farsi un sapone neutro. Con Gianfranco sparì la destra dal Parlamento italiano, quella sociale fu messa fuori gioco, e come il pentito Brusca, Gianfranco sciolse An, ancora adolescente, nel liquido del Pdl. Liquidatori della destra e della sinistra, ora i due leaderini stanno sfasciando i rispettivi partiti di cui erano cofondatori e di cui sono ora coaffondatori.
Veltroni ha più seguito di Fini, e il Pdl è ben più grosso del Pd, però la marcia è parallela. La differenza tra i due è a vantaggio di Veltroni: lui, perlomeno, ha fatto il sindaco di Roma, ha inventato un suo modellino tra notti bianche, fiction e festival, ha costruito una sua rete cine-teatral-culturale e i libri a sua firma, almeno, li scrive lui. Di Fini, invece, restano solo i comizi in tv o nelle Mirabello d’Italia, vincitore del festival delle parole vuote di cui narrava ieri il Corsera. Sono loro oggi i simboli viventi di un sistema morente, i testimonial e indossatori dello spappolamento nazionale. Benvenuti nella spappolocrazia.
(di Marcello Veneziani)
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