Alimentato, abilmente, dal progressismo europeo prima e poi dalla sinistra post-comunista, ha retto fino a quando uno scandaglio critico delle sue idee e dei suoi comportamenti non ha portato alla luce contraddizioni stridenti con la rappresentazione che da parte di taluni ambienti liberal ne è stata fatta, fino a consegnarlo, a cinquant'anni dalla sua elezione alla Casa Bianca, come icona mondiale a chi nel frattempo si è perduto tra le rovine delle vecchie ideologie.
Ogni riferimento all'orticello politico-culturale di casa nostra è tutt'altro che casuale, naturalmente. Sta di fatto che JFK era altra cosa rispetto a come lo si è descritto da parte di una pubblicistica compiacente che in lui ha visto il carismatico promotore di una "nuova frontiera" che era senz'altro una buona intenzione, ma sostanzialmente non ha mai preso corpo nei tre anni di presidenza ed ancor più non ha mostrato segni rimarchevoli nella lunga presenza al Congresso del giovane ed ambizioso politico. Piuttosto affiorano, come nella biografia, suggestiva ed apertamente controcorrente, che gli dedica Lanfranco Palazzolo, «Kennedy shock» (Kaos edizioni, pp.185, 18,00 euro), atteggiamenti politici ed orientamenti ideologici che non sono certo compatibili con l'immagine che è stata fabbricata su misura dopo l'assassinio a Dallas che sconcertò il mondo.
Bisogna pur dire, infatti, che Kennedy era un politico realista, scaltro, libero dai pregiudizi ideologici e soprattutto consapevole della minaccia comunista contro l'Occidente. Le sue tesi in proposito non lasciano dubbio alcuno sulla sua riprovazione delle politiche sovietiche e del pericolo rappresentato dal castrismo nascente. Fu il protagonista occulto dell'invasione della Baia dei porci a Cuba nel 1961; ordinò il primo bombardamento nel 1962 di un villaggio di civili in Vietnam, conscio che quella guerra era "necessaria" per fermare la comunistizzazione del Sud-Est asiatico; decretò il blocco navale dell'isola dove spadroneggiava Fidel Castro; avallò, un mese prima di morire, il colpo di Stato militare che destituì a Saigon il cattolico Ngo Dinh Diem, ucciso all'indomani dagli insorti.
Il "bellicismo", comunque, non ebbe bisogno di entrare nello studio ovale per scoprirlo. Fin dal 1940 aveva valutato la necessità dell'uso della forza teorizzandola in un libro che i progressiti non citano mai, «Perché l'Inghilterrà dormì», un duro atto d'accusa alla politica militare britannica di fronte al nazismo, che venne pubblicato in Italia, guarda un po', dalle edizioni del Borghese, le stesse che proposero, per iniziativa di un grande intellettuale, Henry Furst, «Ritratti del coraggio», scritto nel 1956, nel quale JFK analizzava le biografie politiche di otto senatori americani additati come esempi di coraggio intellettuale e politico in quanto assunsero posizioni in dissenso dal loro partito e dai loro elettori. Tra i "biografati" c'imbattiamo nel senatore Robert A. Taft, noto per essersi scagliato contro il processo di Norimberga. Ritratti del coraggio è una sorta di "manifesto" conservatore, apprezzato all'epoca anche da Barry Goldwater e dall'establishment repubblicano, mentre venne valutato con diffidenza in ambienti democratici che non si fidavano del giovane politico che ancora nel 1957 si rifiutava di prendere una posizione netta contro la segregazione razziale. Ma anche sul maccartismo fu ambiguo, al punto di non votare la mozione di sfiducia contro il senatore McCarthy, promotore di una virulenta campagna anticomunista.
Kennedy, insomma, non è quello che ci è stato raccontato. A prescindere anche dalla sua vita privata. La sua personalità complessa, come fa intendere Palazzolo, è attraversata da luci e da ombre. Averne fatto un mito liberal non rende giustizia alle sue idee. Osiamo ritenere che se fosse vissuto oggi, il suo campo non sarebbe stato neppure quello democratico nel quale si trovò, con ogni probabilità, per puro opportunismo. Ciò, naturalmente, nulla toglie alla sua non indifferente statura politica.
(di Gennaro Malgieri)
Ogni riferimento all'orticello politico-culturale di casa nostra è tutt'altro che casuale, naturalmente. Sta di fatto che JFK era altra cosa rispetto a come lo si è descritto da parte di una pubblicistica compiacente che in lui ha visto il carismatico promotore di una "nuova frontiera" che era senz'altro una buona intenzione, ma sostanzialmente non ha mai preso corpo nei tre anni di presidenza ed ancor più non ha mostrato segni rimarchevoli nella lunga presenza al Congresso del giovane ed ambizioso politico. Piuttosto affiorano, come nella biografia, suggestiva ed apertamente controcorrente, che gli dedica Lanfranco Palazzolo, «Kennedy shock» (Kaos edizioni, pp.185, 18,00 euro), atteggiamenti politici ed orientamenti ideologici che non sono certo compatibili con l'immagine che è stata fabbricata su misura dopo l'assassinio a Dallas che sconcertò il mondo.
Bisogna pur dire, infatti, che Kennedy era un politico realista, scaltro, libero dai pregiudizi ideologici e soprattutto consapevole della minaccia comunista contro l'Occidente. Le sue tesi in proposito non lasciano dubbio alcuno sulla sua riprovazione delle politiche sovietiche e del pericolo rappresentato dal castrismo nascente. Fu il protagonista occulto dell'invasione della Baia dei porci a Cuba nel 1961; ordinò il primo bombardamento nel 1962 di un villaggio di civili in Vietnam, conscio che quella guerra era "necessaria" per fermare la comunistizzazione del Sud-Est asiatico; decretò il blocco navale dell'isola dove spadroneggiava Fidel Castro; avallò, un mese prima di morire, il colpo di Stato militare che destituì a Saigon il cattolico Ngo Dinh Diem, ucciso all'indomani dagli insorti.
Il "bellicismo", comunque, non ebbe bisogno di entrare nello studio ovale per scoprirlo. Fin dal 1940 aveva valutato la necessità dell'uso della forza teorizzandola in un libro che i progressiti non citano mai, «Perché l'Inghilterrà dormì», un duro atto d'accusa alla politica militare britannica di fronte al nazismo, che venne pubblicato in Italia, guarda un po', dalle edizioni del Borghese, le stesse che proposero, per iniziativa di un grande intellettuale, Henry Furst, «Ritratti del coraggio», scritto nel 1956, nel quale JFK analizzava le biografie politiche di otto senatori americani additati come esempi di coraggio intellettuale e politico in quanto assunsero posizioni in dissenso dal loro partito e dai loro elettori. Tra i "biografati" c'imbattiamo nel senatore Robert A. Taft, noto per essersi scagliato contro il processo di Norimberga. Ritratti del coraggio è una sorta di "manifesto" conservatore, apprezzato all'epoca anche da Barry Goldwater e dall'establishment repubblicano, mentre venne valutato con diffidenza in ambienti democratici che non si fidavano del giovane politico che ancora nel 1957 si rifiutava di prendere una posizione netta contro la segregazione razziale. Ma anche sul maccartismo fu ambiguo, al punto di non votare la mozione di sfiducia contro il senatore McCarthy, promotore di una virulenta campagna anticomunista.
Kennedy, insomma, non è quello che ci è stato raccontato. A prescindere anche dalla sua vita privata. La sua personalità complessa, come fa intendere Palazzolo, è attraversata da luci e da ombre. Averne fatto un mito liberal non rende giustizia alle sue idee. Osiamo ritenere che se fosse vissuto oggi, il suo campo non sarebbe stato neppure quello democratico nel quale si trovò, con ogni probabilità, per puro opportunismo. Ciò, naturalmente, nulla toglie alla sua non indifferente statura politica.
(di Gennaro Malgieri)
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