C'è chi si indigna che la politica si occupi di eutanasia e testamento biologico, tornati ieri alla Camera. Ma se detestiamo la politica ridotta a fuffa e teatrino, sesso e tribunali, affari e poltrone, non possiamo deprecarla quando affronta temi concreti, alti ed essenziali che riguardano la dimensione bioetica, civile e drammatica della vita umana. Non auspico la politicizzazione della morte, l'uso elettorale di aborti, eutanasie, malattie e tragedie personali. Ma la politica sale di livello, ad altezza d'uomo, quando si occupa del diritto alla vita, di famiglia e coppie, di aborto e d eutanasia, di droga e adozioni, di violenze ai minori o alle donne. Cinico è il silenzio sulla biopolitica. E senza legge decidono i giudici.
Ogni evento significativo della vita investe una dimensione personale ed una comunitaria: c'è una tensione dialettica, anche drammatica, tra la sfera pubblica e la sfera privata. A livello personale, davanti all'agonia infinita di una vita che perde in modo irreversibile coscienza e dignità, può insorgere la scelta - non cristiana ma umana, molto umana- di non prolungare la sofferenza. Una scelta stoica, nel migliore dei casi, che riconosce una soglia di dignità e sopportazione. La capisco, la rispetto, non chiamerò assassino chi la sostiene. Però chi compie questa scelta, per sé o per i suoi, si assuma la responsabilità dell'atto. Una giustizia saggia condannerà l'atto ma commuterà la pena in pietas. Sul piano pubblico, sanitario e legislativo, salvaguardare la vita è il dovere primario e assoluto. Una vera comunità, tramite il medico, ha il dovere di soccorrere una vita, assisterla e prolungarla fino a che ci sarà un pur flebile alito di vita e di speranza. Tu puoi decidere di sottrarti, assumendoti però le conseguenze.
È schizofrenica questa divaricazione tra persona e comunità? Può darsi, ma non vedo soluzioni migliori sul piano umano e civile. È il punto di mediazione più alto tra diritti e doveri, tra etica e sofferenza, tra libertà e responsabilità, tra pubblico e privato. Per rispettare i diritti della vita senza violare il diritto sacrosanto alla vita. E viceversa.
(di Marcello Veneziani)
Ogni evento significativo della vita investe una dimensione personale ed una comunitaria: c'è una tensione dialettica, anche drammatica, tra la sfera pubblica e la sfera privata. A livello personale, davanti all'agonia infinita di una vita che perde in modo irreversibile coscienza e dignità, può insorgere la scelta - non cristiana ma umana, molto umana- di non prolungare la sofferenza. Una scelta stoica, nel migliore dei casi, che riconosce una soglia di dignità e sopportazione. La capisco, la rispetto, non chiamerò assassino chi la sostiene. Però chi compie questa scelta, per sé o per i suoi, si assuma la responsabilità dell'atto. Una giustizia saggia condannerà l'atto ma commuterà la pena in pietas. Sul piano pubblico, sanitario e legislativo, salvaguardare la vita è il dovere primario e assoluto. Una vera comunità, tramite il medico, ha il dovere di soccorrere una vita, assisterla e prolungarla fino a che ci sarà un pur flebile alito di vita e di speranza. Tu puoi decidere di sottrarti, assumendoti però le conseguenze.
È schizofrenica questa divaricazione tra persona e comunità? Può darsi, ma non vedo soluzioni migliori sul piano umano e civile. È il punto di mediazione più alto tra diritti e doveri, tra etica e sofferenza, tra libertà e responsabilità, tra pubblico e privato. Per rispettare i diritti della vita senza violare il diritto sacrosanto alla vita. E viceversa.
(di Marcello Veneziani)
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