Rifondare la destra? Non era francamente la mia intenzione principale nel momento in cui ho ragionato sulle cause che ne hanno prodotto l’implosione dal punto di vista politico-partitico. In ogni caso, prima di ricostruire una casa bisognerebbe capire perché essa è crollata. Il meritorio dibattito avviato da Libero ha risentito - se posso esprimermi con franchezza - del limite tipico d’ogni discussione à l’italienne: si parte, all’apparenza, da una tesi o da un ragionamento, che andrebbe criticato ed eventualmente inficiato nel merito, ma in realtà ogni intervenuto si sente in diritto di andare per la sua strada. E pazienza se tra il punto di partenza e quello d’arrivo, se tra l’oggetto di contesa e il suo sviluppo dialettico, non ci sia alcuna connessione.
Mi trovo dunque costretto a reiterare la mia posizione, nella speranza che appaia finalmente chiaro ciò che intendevo dire allorché ho parlato di una catastrofe politico-antropologica, di un colossale fallimento umano ed esistenziale, come causa principale della pubblica irrilevanza, anticamera di una sostanziale scomparsa dalla scena, cui mi sembra condannata la destra italiana.
Per cominciare non ho ragionato del centrodestra, del governo Berlusconi o del berlusconismo, ma appunto della destra e segnatamente della destra politica, intendendo con quest’espressione una realtà assai particolare: il gruppo dirigente che nel 1995, dopo la fine del Movimento sociale italiano, diede vita ad Alleanza nazionale, a sua volta confluita nel 2009, quasi compattamente, nel Popolo della libertà, sino alla diaspora di quel medesimo gruppo fedelmente registrata dalle cronache nell’ultimo anno.
Da poco mi sono interessato al tema cosiddetto della “cultura di destra”. Tema in realtà vecchiotto e generico, che da sempre si presta ad equivoci e truismi, a scontate polemiche giornalistiche e a ripetitivi elenchi di nomi e parole d’ordine. Può darsi che esista una destra intellettuale diversa e autonoma da quella politica, come tale destinata a sopravvivere alle miserie di quest’ultima. È sicuramente vero che di destre culturali, indigene e forestiere, ne esistono un’infinità, tra di loro non sempre compatibili. Altrettanto certo che incasellare le idee secondo categorie politiche, peraltro sempre più logore, non ci fa intendere il loro reale significato e valore. Ma non è di questo, ripeto, che mi sono occupato nel mio contributo.
IL NOSTRO DESTINO
Il mio ragionamento era riferito, banalmente ma in modo assai concreto e diretto, al singolare destino di una comunità politica (la destra ex-nostalgica, d’estrazione missina, post-fascista, nazionale, ognuno la chiami come crede, l’importante è capirsi) che nei cinquant’anni circa in cui ha vissuto ai margini della società e della politica ha dimostrato un’indubbia compattezza, è stata animata da robuste passioni ideali ed è stata capace di grandi fermenti anche intellettuali, mentre nei vent’anni scarsi in cui ha goduto di pubblica considerazione, di crescenti consensi elettorali, di inediti spazi d’azione e di quote non irrilevanti di potere ha messo in mostra una totale inconsistenza progettuale e una sostanziale incapacità a incidere sul piano politico e degli equilibri sociali, al punto da disperdere le proprie energie in mille rivoli e da condannarsi ad una subalternità assai maggiore di quella sperimentata nel passato.
Cosa ha prodotto un esito tanto rovinoso? Una ragione “esterna”, da non trascurare affatto, è che quel mondo, senza nemmeno accorgersene, è stato progressivamente fagocitato da Berlusconi, che l’avrà pure “sdoganato” e legittimato come forza di governo, ma al prezzo di trasmutarlo geneticamente, finanche sul piano del linguaggio e dei comportamenti.
NIENTE DI NUOVO
Ma c’è una ragione tutta interna, sulla quale ho inteso richiamare l’attenzione, che ha a che fare con l’incapacità a rinnovarsi - sul piano personale e conseguentemente su quello delle idee - della classe dirigente della destra italiana, che dal 1993-’94 ad oggi, salvo inneschi sporadici ben presto espulsi alla stregua di corpi estranei, è rimasta praticamente immutata e immobile.
È questa tendenza a rinserrare i ranghi nel nome dello spirito di militanza, paradossale per un partito che pure ha visto triplicarsi la sua storica base elettorale e che così tante speranze di cambiamento aveva suscitato all’epoca della svolta di Fiuggi, la causa principale dello sfascio cui oggi assistiamo. Senza contare il permanere, all’interno di quel gruppo di inamovibili dignitari, di riflessi mentali già ben presenti nella loro precedente esperienza politica, quando venivano trattati da “esuli in patria”: un atteggiamento di costante polemica e risentimento verso il mondo esterno, un approccio sempre strumentale alla cultura e alla produzione intellettuale, il prevalere del sentimentalismo e della retorica nei loro discorsi pubblici, la tendenza a percepirsi come una minoranza sempre assediata, la sindrome ricorrente del tradimento tipica dei gruppi settari.
Una classe dirigente rimasta tanto chiusa e autoreferenziale non poteva che implodere e disperdersi nel momento in cui, venute nel frattempo meno le ragioni ideali e ideologiche che l’avevano cementata all’origine, rimosse o occultate senza alcun vaglio critico solo per darsi una patina di pubblica rispettabilità, si sono anche esaurite le motivazioni d’ordine personale, amicali e affettive, che ancora la tenevano unita. Da qui i litigi, i risentimenti, le piccole ripicche e rivalse, il cumulo di ambizioni individuali e antipatie a lungo soffocate, che hanno scandito l’ultimo anno e mezzo di storia della destra italiana, evidentemente giunta alla conclusione del suo ciclo.
OLTRE LE ROVINE
Questa la mia tesi riferita a una vicenda specifica, probabilmente peregrina o errata. Ma nel caso mi piacerebbe sapere, soprattutto dai diretti interessati, per quali ragioni e sulla base di quali argomenti contrari. Di tutto il resto di cui s’è discusso in questi giorni in risposta al mio intervento - della destra divina, del conservatorismo di Burke, del libertarismo, dei provvedimenti del governo Berlusconi, di come questa stessa destra possa eventualmente rinascere dalle sue rovine - parleremo, in un’altra occasione. La questione stavolta era un’altra e mi sembra che nessuno l’abbia affrontata nel merito, come forse avrebbe meritato.
(di Alessandro Campi)
Mi trovo dunque costretto a reiterare la mia posizione, nella speranza che appaia finalmente chiaro ciò che intendevo dire allorché ho parlato di una catastrofe politico-antropologica, di un colossale fallimento umano ed esistenziale, come causa principale della pubblica irrilevanza, anticamera di una sostanziale scomparsa dalla scena, cui mi sembra condannata la destra italiana.
Per cominciare non ho ragionato del centrodestra, del governo Berlusconi o del berlusconismo, ma appunto della destra e segnatamente della destra politica, intendendo con quest’espressione una realtà assai particolare: il gruppo dirigente che nel 1995, dopo la fine del Movimento sociale italiano, diede vita ad Alleanza nazionale, a sua volta confluita nel 2009, quasi compattamente, nel Popolo della libertà, sino alla diaspora di quel medesimo gruppo fedelmente registrata dalle cronache nell’ultimo anno.
Da poco mi sono interessato al tema cosiddetto della “cultura di destra”. Tema in realtà vecchiotto e generico, che da sempre si presta ad equivoci e truismi, a scontate polemiche giornalistiche e a ripetitivi elenchi di nomi e parole d’ordine. Può darsi che esista una destra intellettuale diversa e autonoma da quella politica, come tale destinata a sopravvivere alle miserie di quest’ultima. È sicuramente vero che di destre culturali, indigene e forestiere, ne esistono un’infinità, tra di loro non sempre compatibili. Altrettanto certo che incasellare le idee secondo categorie politiche, peraltro sempre più logore, non ci fa intendere il loro reale significato e valore. Ma non è di questo, ripeto, che mi sono occupato nel mio contributo.
IL NOSTRO DESTINO
Il mio ragionamento era riferito, banalmente ma in modo assai concreto e diretto, al singolare destino di una comunità politica (la destra ex-nostalgica, d’estrazione missina, post-fascista, nazionale, ognuno la chiami come crede, l’importante è capirsi) che nei cinquant’anni circa in cui ha vissuto ai margini della società e della politica ha dimostrato un’indubbia compattezza, è stata animata da robuste passioni ideali ed è stata capace di grandi fermenti anche intellettuali, mentre nei vent’anni scarsi in cui ha goduto di pubblica considerazione, di crescenti consensi elettorali, di inediti spazi d’azione e di quote non irrilevanti di potere ha messo in mostra una totale inconsistenza progettuale e una sostanziale incapacità a incidere sul piano politico e degli equilibri sociali, al punto da disperdere le proprie energie in mille rivoli e da condannarsi ad una subalternità assai maggiore di quella sperimentata nel passato.
Cosa ha prodotto un esito tanto rovinoso? Una ragione “esterna”, da non trascurare affatto, è che quel mondo, senza nemmeno accorgersene, è stato progressivamente fagocitato da Berlusconi, che l’avrà pure “sdoganato” e legittimato come forza di governo, ma al prezzo di trasmutarlo geneticamente, finanche sul piano del linguaggio e dei comportamenti.
NIENTE DI NUOVO
Ma c’è una ragione tutta interna, sulla quale ho inteso richiamare l’attenzione, che ha a che fare con l’incapacità a rinnovarsi - sul piano personale e conseguentemente su quello delle idee - della classe dirigente della destra italiana, che dal 1993-’94 ad oggi, salvo inneschi sporadici ben presto espulsi alla stregua di corpi estranei, è rimasta praticamente immutata e immobile.
È questa tendenza a rinserrare i ranghi nel nome dello spirito di militanza, paradossale per un partito che pure ha visto triplicarsi la sua storica base elettorale e che così tante speranze di cambiamento aveva suscitato all’epoca della svolta di Fiuggi, la causa principale dello sfascio cui oggi assistiamo. Senza contare il permanere, all’interno di quel gruppo di inamovibili dignitari, di riflessi mentali già ben presenti nella loro precedente esperienza politica, quando venivano trattati da “esuli in patria”: un atteggiamento di costante polemica e risentimento verso il mondo esterno, un approccio sempre strumentale alla cultura e alla produzione intellettuale, il prevalere del sentimentalismo e della retorica nei loro discorsi pubblici, la tendenza a percepirsi come una minoranza sempre assediata, la sindrome ricorrente del tradimento tipica dei gruppi settari.
Una classe dirigente rimasta tanto chiusa e autoreferenziale non poteva che implodere e disperdersi nel momento in cui, venute nel frattempo meno le ragioni ideali e ideologiche che l’avevano cementata all’origine, rimosse o occultate senza alcun vaglio critico solo per darsi una patina di pubblica rispettabilità, si sono anche esaurite le motivazioni d’ordine personale, amicali e affettive, che ancora la tenevano unita. Da qui i litigi, i risentimenti, le piccole ripicche e rivalse, il cumulo di ambizioni individuali e antipatie a lungo soffocate, che hanno scandito l’ultimo anno e mezzo di storia della destra italiana, evidentemente giunta alla conclusione del suo ciclo.
OLTRE LE ROVINE
Questa la mia tesi riferita a una vicenda specifica, probabilmente peregrina o errata. Ma nel caso mi piacerebbe sapere, soprattutto dai diretti interessati, per quali ragioni e sulla base di quali argomenti contrari. Di tutto il resto di cui s’è discusso in questi giorni in risposta al mio intervento - della destra divina, del conservatorismo di Burke, del libertarismo, dei provvedimenti del governo Berlusconi, di come questa stessa destra possa eventualmente rinascere dalle sue rovine - parleremo, in un’altra occasione. La questione stavolta era un’altra e mi sembra che nessuno l’abbia affrontata nel merito, come forse avrebbe meritato.
(di Alessandro Campi)
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