venerdì 29 luglio 2011

Il confronto con la modernità: un’eterna sfida per la Chiesa


“Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà”: è questa la LXXX e ultima proposizione del Sillabo, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo”, pubblicato nel 1864 dal beato Pio IX. L’anatema su quell’affermazione, nella sua intransigente radicalità, riassumeva l’intera lista di errori condannati allora dalla Cattedra di Pietro.

Molta acqua è nel frattempo passata sotto i ponti di Roma, ma il confronto/scontro con la modernità – nonostante il tentativo irenistico del Concilio Vaticano II – non cessa di coinvolgere e preoccupare la Chiesa cattolica, specie in un quadro come l’attuale, in cui molti dei miti sulle “magnifiche sorti e progressive” sono andati in frantumi e terrificanti scenari, creati dalla tracotanza transumanista (esito estremo di quelle stesse chimere), appaiono in un inquietante orizzonte.

A parlare crudamente di “grande guerra fra Chiesa e mondo” (e la modernità, nella sua prometeica anti-spiritualità, è lo specchio perfetto di ciò che il Vangelo concepisce come “mondo”) è stato, negli scorsi giorni, l’ “ateo devoto” Giuliano Ferrara, paventando “l’ipotesi non più così remota della caduta in disgrazia e della soppressione identitaria della chiesa (in minuscolo, ndr) che sopravvisse alla Riforma nel Cinquecento (in maiuscolo, ndr)”, ipotesi che costituirebbe “ansia per noi laici di adesso”. Per il direttore del Foglio, “la penetrazione invasiva nella tradizione dilaga come pura omologazione della costituzione apostolica della chiesa latina al dettato della modernità”, complice “un fronte interno” progressista che disobbedisce apertamente al Papa col fine di “abolire ogni dissimiglianza con il mondo, di aderire senza troppe riserve allo schema della democrazia eguale e dei diritti, di sradicare la costituzione dogmatica in cui è cresciuta per secoli la tradizione con i suoi dogmi, con i suoi libri”.

Parole certo condivisibili, benché rimanga il dubbio che, in quanto vergate secondo i dettami della straussiana “scrittura reticente”, a preoccupare il cristianista Ferrara non sia tanto il destino del Corpo Mistico di Cristo, quanto le sorti dell’attuale Occidente, da identificare e sovrapporre arbitrariamente alla Cristianità…

Ma al di là di ogni interpretazione, il cupo allarme lanciato dal Foglio riflette un oggettivo disagio diffuso in ampi settori del mondo cattolico e fra i più avveduti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche.

Così, per fare un paio di esempi, secondo monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, “il confronto vero” con il mondo attuale “richiede coraggio: inutile sfumare i toni e addolcire le ruvidezze della realtà. Bisogna andare al cuore del problema. Ciò vale anche per l’incontro/scontro tra laici e cattolici sull’uomo”. Secondo il presule, intervenuto recentemente a un convegno organizzato a Roma dal Centro di Orientamento Politico, la frammentazione dei saperi compiuta dalla modernità va respinta, attraverso un recupero della complementarietà fra fede e ragione. Citando la celebre enciclica di Giovanni Paolo II, monsignor Crepaldi evidenzia che la Fides et Ratio pone come obiettivo del nuovo millennio la ricostruzione del quadro unitario del sapere, la cui mancanza genera smarrimento antropologico”. E proprio l’atomizzazione, la frammentazione, la liquidità che contraddistinguono la dimensione contemporanea sono al centro della riflessione di monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontifico Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, che sottolinea “lo spezzamento della realtà in ambiti tra loro separati, la mancanza di unitarietà dell’uomo, della persona, al suo interno e nel rapporto con Dio”. Come proposta per superare questa frammentarietà, il prelato invita a ricreare in questa nostra epoca uno spirito umanistico caratterizzato, appunto, dall’unitarietà, uno spirito “desideroso di guardare all’uomo non con rivalità per emarginarlo, ma con simpatia per reinserirlo in modo coerente nel suo rapporto con il creato e con Dio”.

La medicina per guarire l’uomo moderno, dunque, ha come “principio attivo” la fede. E non a caso, il Romano Pontefice, in questo periodo di operoso riposo (otium, per gli antichi) a Castel Gandolfo, sta preparando una nuova enciclica, concernente proprio la fede. Secondo i bene informati, l’enciclica del Papa approfondirà non solo il tema della fede in sè, ma anche “il suo rapporto con la modernità e in particolare con le sfide più attuali che la modernità pone all’uomo e alla Chiesa”.

(di Siro Mazza)

mercoledì 27 luglio 2011

Ecco perché difendo la civiltà del «lei»


È da condividere, ovviamente, lo sfogo recente di Beppe Severgnini che - su Sette - dice il suo «fastidio per l’insopportabile dilagare del ‘tu’ sempre e comunque». Per quanto conta, io pure tendo istintivamente a irrigidirmi se qualcuno con cui non ho confidenza mi interpella con il tu; e mai penserei di fare altrettanto con lui. Dunque, mi è stata dura essere giovane nel Sessantotto, in cui sembrava tornato il tempo di Achille Starace che aveva abolito il lei. Quel gerarca in camicia nera imponeva il voi, mentre i figli dei borghesi in eskimo, travestiti da proletari, ti sprangavano se non usavi il tu.

Certo, nella mia allergia entrano pure i 17 anni di scuola statale della vecchia Torino, dove i professori ti davano del lei dalla quarta ginnasio, cioè dai 14 anni, e ti insegnavano che lasciarsi andare a familiarità intempestive era tra le impudicizie da lasciare agli immigrati. Che allora erano quelli che sbarcavano ogni mattina a Porta Nuova dal Treno del Sole. Credo però che, in questa resistenza, vi siano ragioni che vanno al di là del soggettivo. Sarà forse un caso se gli inglesi - il popolo cioè che meglio ha conservato il senso della Tradizione - hanno un thou ma lo riservano al Padreterno, e interpellano con lo you anche bambini, fratelli, amanti e pure cani, cavalli, gatti? E che dire del fatto che, sino a tempi recenti, anche da noi i figli davano del voi ai genitori e, spesso, le mogli ai mariti e viceversa?

Mio padre, militare per cinque anni nel Regio Esercito, ricordava che per gli ufficiali superiori, spesso aristocratici, era impensabile dare del tu persino all’ultima delle reclute. Naturalmente, chi è ancora impregnato di spirito sessantottardo replicherà che questo fa parte del classismo da abbattere per una società più giusta. E più «fraterna», aggiungeranno tanti cattolici, convinti che la fede abbia a che fare con l’uso e l’abuso della seconda persona singolare.

Ma a questi credenti - peraltro in buona fede - andrebbe osservato che la fraternità cui pensano è solo orizzontale, come quella che si crea in un sindacato, in un partito, magari in una loggia. Nella prospettiva di fede, si è davvero fratelli solo guardando a una dimensione verticale: i legami stretti tra noi derivano dal fatto che scopriamo di avere, nei Cieli, lo stesso Padre. Solo riconoscendoci credenti, dunque figli di Dio, possiamo scoprire la familiarità che ci accomuna e passare alla confidenza anche verbale. La quale è una scoperta e una conquista, non cosa scontata.

Mi ha sempre impressionato un particolare, straordinario eppure troppo spesso trascurato, delle 18 apparizioni di Lourdes. La Signora non diede mai del tu, ma sempre del voi, all’analfabeta quattordicenne, alla miserabile figlia di un padre straccione, che aveva conosciuto anche la prigione. L’Apparsa parlava nel dialetto di quella piccola rachitica per fame e stenti, eppure Bernadette aveva difficoltà a capire le frasi, in quel voi che nessuno ovviamente aveva mai usato con lei. Meno che mai preti e vescovi, che a lungo la interpellarono con un tu sbrigativo. Che cos’è questo sbracarsi dei cattolici, se sembra che si tengano educate distanze persino in Paradiso?

Per contrasto, e per restare alla vecchia Francia, vale la pena di ricordare quell’assemblea demoniaca che fu la Convenzione giacobina che gestì il Grande Terrore. Tra gli innumerevoli decreti pubblicati a ritmo affannoso da quegli invasati per creare, a colpi di ghigliottina di massa, «l’uomo e la società nuovi», ce ne fu uno che abolì i titoli di Monsieur e Madame e li sostituì con quelli di Citoyen e Citoyenne, imponendo al contempo a tutti de se tutoyer, di darsi del tu. Chi avesse osato restare al vous sarebbe caduto nella rete della «legge dei sospetti», uno dei decreti più infami della storia, che condannava a morte, senza diritto alla difesa, non solo chi avesse contrastato la Rivoluzione, ma anche chi non vi si fosse impegnato attivamente. L’esempio di Robespierre sarà poi seguito da Lenin e da Stalin: Siberia o plotone di esecuzione per chi usasse ancora signore e signora e non l’obbligatorio compagno. Ed era forse ammissibile un Sie tra i kamaraden del nazionalsocialismo?

Ogni totalitarismo impone la fraternità a colpi di tu obbligatorio. Dunque, non è questione solo di gusti o di galateo: l’impegno per salvare il lei (o, per chi preferisca, come al Sud, il voi) è forse un piccolo ma significativo impegno per la libertà. Sarà anche per questo che, a Lourdes, la voce dal Cielo si rivolse alla misera ragazzina come a una damigella?

(di Vittorio Messori)

La Lega fa il gioco degli americani


Prove tecniche di secessione l’altro ieri in Parlamento, con l’incarcerazione del deputato napoletano del Pdl Alfonso Papa e l’assoluzione del senatore pugliese del Pd, Alberto Tedesco, cui si somma l’indagine su Filippo Penati, che indebolisce ulteriormente Pier Luigi Bersani a Milano. Umberto Bossi, nonostante l’enorme riconoscenza nei confronti di Berlusconi che pagò di tasca propria la sua riabilitazione dopo l’infarto, s’è allineato all’ala secessionista della Lega. Risultato finale: indeboliti i due leader nazionali, Berlusconi e Bersani; affermate due leadership distinte, a Nord la Lega, nel Centro Sud da cercare nella sinistra, se non si sbraneranno prima.

Alberto Tedesco, nel 2006, fece varare dal Consiglio Regionale pugliese il Crat (Coordinamento Regionale delle Attività Trasfusionali) al cui vertice pose Michele Scelsi, fratello del sostituto procuratore di Bari, Giuseppe Scelsi, per gestire un budget di diversi milioni. Tedesco inoltre delegò Scelsi, il medico, a rappresentare la Puglia nella Consulta del ministero della Salute. Tedesco è connesso a Gianpaolo Tarantini, re delle protesi della sanità pugliese e mentore della signora Patrizia D’Addario. Quando Tarantini confessò i traffici di donne a favore di Berlusconi, su chi concentrò l’attenzione il magistrato Scelsi, su Tedesco o sulla D’Addario?

Alfonso Papa è accusato di favoreggiamento, concussione e rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 che lambisce Giulio Tremonti. Ragioni politiche e di diritto affonderebbero Tedesco ben più di Papa. Accadde invece il contrario. L’incarcerazione di Papa è un manifesto politico dei secessionisti della Lega, grosso esponente dei quali è Roberto Maroni: chi tocca Tremonti muore. Tremonti firma la manovra finanziaria che, pur sgretolando il sistema, poiché non taglia i costi della politica, non fu ostacolata da Bersani. È «un miracolo» disse Giorgio Napolitano, mentre per Guido Crosetto la manovra è un «caso psichiatrico». Miracolo? Caso psichiatrico? Forse, ma c’è da capire.

Giulio Tremonti ha distrutto l’esercito e messo fuori combattimento le Polizie. A Napoli fece trasferire il migliore degli investigatori dei carabinieri ed espresse solidarieta a un vicequestore cacciato via dai magistrati antimafia. In Val di Susa un centinaio di sediziosi tennero in scacco e bastonarono migliaia di sguarniti poliziotti. Con queste Polizie, piazze sediziosamente organizzate, come a Tunisi o al Cairo, avrebbero buon gioco. Dopo la manovra, gli onorevoli evitano i bar e i ristoranti, dove gente inferocita li bercia. Di questo passo, le piazze potrebbero accendersi da un momento all’altro. I preliminari sono dunque a buon punto.

Che cosa farebbe chi vuole la secessione? E perchè volerla? Un anno fa, Italia Oggi scrisse che la secessione padana era un bluff ma, aggiungemmo, vi è chi alla secessione del Meridione vorrebbe arrivarci, caricando la croce alla Lega. È «meglio primi in Gallia che secondi a Roma». Lo disse Cesare e lo impararono i marxisti. Il separatismo vagheggiato a Nord, è bene ricordarlo, rinacque in Sicilia nel 1992 e i mafiosi l’antimafia li lasciò in pace per mezzo secolo, com’è stato appurato. Per arrivare alla secessione occorre che le due ali più oltranziste (della Lega e della sinistra) rispettino un accordo tacito, anche perché i padrini delle redivive Brigate Rosse sarebbero in grado di scatenare le violenze nelle piazze settentrionali come abbiamo visto in Val di Susa.

Occorrerebbe quindi, nel disegno secessionista, creare due distinte leadership, per il Nord e per il Centro Sud, magari due magistrati. La Sicilia? Non è difficile attizzare il separatismo, come nel 1992, come del resto denunciò Bruno Siclari, primo procuratore nazionale antimafia. Esito finale, come presumevano ai tempi di Salvatore Giuliano: Sicilia, avamposto militare della NATO; Meridione (con Grecia e Balcani), stato cuscinetto; Settentrione col cuore ricco dell’Europa. Ma si vuole un’Europa ricca e stabile? In altre parole, è l’orrido scenario clintoniano del 1992, oggi più evidente per la congruità con l’intento dichiarato dagli USA di guerra permanente del Mediterraneo per chiuderlo alla Cina. Silvio Berlusconi, che approva la manovra finanziaria apparentemente suicida, è un ingenuo? O un complice? Ebbe una proposta che non potè rifiutare? Si vedrà in questa lunga estate torrida.

(di Gen. Piero Laporta)

martedì 26 luglio 2011

Breivik è un 'figlio' del nazionalismo nordico nient'affatto cristiano


Anders Behring Breivik è convinto di essere un eroe anti islamico, ma l’Islam in Europa non ha avuto, fino ad oggi, migliore alleato di lui. C’è da prevedere infatti che gli illiberali progetti di legge contro l’”islamofobia”, che faticano a imporsi in molte nazioni europee, riceveranno un decisivo impulso dalle stragi di Oslo e dell’isola di Utoya.

Breivik non è un pazzo, se con ciò si intende, nel senso stretto del termine, un uomo con turbe psichiche, incapace di intendere e di volere. Egli si è dimostrato lucido e determinato in quella che, in senso lato, si può definire la sua follia omicida. Ma Breirik è tutt’altro che un fondamentalista cristiano, perché, al di là della giustificazione ideologica del suo gesto apparsa su Internet, si è dimostrato, nei fatti, assolutamente privo di fondamenti etico-religiosi e del tutto estraneo a quei valori assoluti che guidano la condotta di chi si dice cristiano. Il primo di questi valori, secondo Benedetto XVI, è il riconoscimento del diritto alla vita, mentre lo stragismo di Breivik manifesta il più radicale disprezzo per il precetto morale che vieta di uccidere l’innocente. Il principio secondo cui il fine giustifica i mezzi (anche i più criminosi) ha caratterizzato il totalitarismo del Novecento ed è figlio del relativismo che dissolve ogni legge naturale e morale.

Beirik dovrebbe essere più precisamente definito come uno squilibrato, cioè come un uomo mancante di baricentro morale e di punti di riferimento assoluti. Lo squilibrio psichico, che non è la follia, oggi è un fenomeno diffuso, come la depressione. Esso ci sconvolge quando si trasforma in aggressività sociale, ma non dobbiamo dimenticare che si manifesta anche in forme in cui lo squilibrato è la vittima e non il giustiziere. L’uomo del XXI secolo è psichicamente instabile, perché relativista e priva e di fondamenti è la società contemporanea, in cui gli eccessi rimandano ad altri eccessi. L’Eurabia paventata da Breivik non è un brutto sogno, ma una drammatica realtà: immaginare però di combatterla con il terrore è una forma di squilibrio che evoca incubi non meno terribili di quelli cui pretende opporsi.

Eppure sarebbe miope voler fare di questo caso un problema psicologico, senza comprenderne la dimensione anche ideologica, così come sarebbe fuorviante inseguire i presunti legami operativi di Breivik, senza preoccuparsi del contagio psichico che la sua azione può avere, al di là delle sue relazioni organizzative. Gesti come il suo, carichi del fascino sinistro del male, possono avere purtroppo un effetto moltiplicatore, come dimostra il caso dei kamikaze islamici. C’è da dire, però, che dietro i terroristi di Allah c’è una cultura jihadista ampiamente condivisa nel mondo islamico, mentre Breivik non ha ricevuto, e sarebbe impensabile che ricevesse, alcuna espressione di solidarietà in Occidente. Ciò non toglie che lo stragista di Oslo sia portatore di una esasperata visione del mondo che inizia ad affiorare all’estremo nord dell’Europa in antitesi a quella che preme dalle sponde sud del Mediterraneo.

Al nazionalismo islamico, panarabo e panturco, si contrappone un nazionalismo nordico, di impronta non cristiana, ma paganeggiante, che ricorda la “morale dei signori” hitleriana contrapposta alla morale degli schiavi plebea e democratica. C’è un’unica risposta di fronte alle ideologie del male del nostro tempo: il ritorno all’equilibrio, che è la tranquillità dell’ordine di cui parla sant’Agostino: l’ordine dei valori immutabili a cui l’Occidente ha voltato le spalle e che deve ritrovare se non vuole trasformarsi in campo di battaglia tra fanatici di opposte tendenze. La guerra tra razze prevista da Oswald Spengler è un fantasma che si affaccia all’orizzonte del XXI secolo. Favorire Eurabia, come vorrebbero i multiculturalisti, non risolve il problema, ma lo aggrava pesantemente.

(di Roberto De Mattei)

L’incubo è vostro


Mettetevi d’accordo con i vostri incubi, cari liberali d’occidente. Un massone ammiratore di Churchill che ammazza ottantaquattro ragazzi in Norvegia – e stiamo parlando di un pazzo che parla la lingua di chi teme l’Eurabia, fortunato slogan della compianta Oriana Fallaci – è ben diversa cosa da Osama bin Laden o da Rudolph Hess, due cui avete cancellato la tomba giusto per farne ancora più potenti i fantasmi, a maggior guadagno del parco horror di cui siete gestori.

Non serve accostare le fotografie dello sceicco armato di kalashnikov con quelle del biondo bionico altrettanto armato. Non sono speculari i due. Dovete mettervi d’accordo su cosa spaventare e di cosa spaventarvi perché ogni fobia ha il suo catalogo, non una medesima fenomenologia e se vi è venuto meno il nazi-islam per l’evidenza del reo confesso (che ridicolo, infatti, tutto quel rincorrere mullah dei giornali liberali, specificatamente di destra, mentre le agenzie battevano le notizie della consumante strage), se dunque non avete il musulmano con cui allestire la caccia non potete adesso cavarvela con il nazi-killer perché la sostanza è un’altra.

Tanto per cominciare quello, il norvegese, i suoi lavori di loggia se li fabbrica – anzi, se li tegola – con tanto di Bibbia in mano che è il vostro libro, giusto? E perfino quello strizzare l’occhio al white power non è la nazione ariana del Walhalla, non ci sono né Thule né il Carro di Krsna, ma una variante del KKK, ovvero il razzismo biologico di derivazione protestante che è cristianissima cosa (con tanto di croce in fiamme), ottimo per il folclore americano ma che non c’entra – in punto di filologia e di storia – con tutte le figurine delle Legioni SS evocate a sproposito perché saranno pure state il Male Assoluto, queste legioni, ma erano truppe d’assalto di un esercito transnazionale fatto di bosniaci, indiani, arabi, tedeschi ovviamente ma anche di turkmeni, tagiki, cinesi, italiani, belgi, spagnoli, russi, magiari, romeni, mongoli, ceceni e perfino sciamani, un reparto dei quali fatto di pellerossa americani con i quali probabilmente si sarebbe creato l’Inferno in terra ma difficilmente una “nazione bianca”.

Mettetevi d’accordo dunque, specialmente voi, cari liberali di derivazione destrorsa, a fare a gara con gli esorcismi e rassegnatevi a un fatto conclamato: a furia di evocare i fondamentalismi, specie quelli fatti ad arte, vi nascono in casa quelli genuini. E con radici ideologiche generate da aborti mostruosi qual è, prima di tutti, la xenofobia. E’ quella degli svignettatori del Profeta, quella di chi brucia il Santo Alcorano, quella delle micragnose botteghe elettorali cui fate sempre il pat pat affettuoso anche voi, colleghi giornalisti dell’opinione liberalcapitalista, per il servizievole incarico che vi fanno a voi e a quelli che poi diventano deputati, ministri e amministratori dello smagliante occidente: quello di tenere lontani i saraceni con le vostre sagre dell’odio. Era da manuale l’editoriale di Magdi Allam sul Giornale. Spiegava che la colpa dell’avvenuta strage era da ricercare nell’estrema liberalità della Norvegia, troppo tollerante con i musulmani, e perciò terreno di coltura degli esagitati incapaci di sostenere tanta multietnicità. Quando si dice l’Abate Vella! (cfr. “Il Consiglio d’Egitto”, Leonardo Sciascia).

E nel mettervi d’accordo con i vostri stessi incubi però, una cosa: non sbagliate a parlare, non sbrodolate facilonerie come quella di colorare la biografia di questo pazzo armato con Odino, con le divinità nordiche in genere, con quel pantheon sacrissimo di ghiaccio e luce perché, appunto – unicuique suum – Anders Behring Breivik, infatti, di suo, s’è scelto la Bibbia. Qui non si vuol fare la furbata di rendere pan per focaccia ma non si venga a parlare di citazioni sbagliate del killer solo perché non vi combacia l’incubo con il fantasma. Per quel che ci riguarda, qui si cerca di mettere un argine in nome e per conto della Tradizione: la vicenda di Odino e delle rune al seguito non può dunque essere considerata alla stregua dello scroto, quasi una coperta utile a coprire il Male laddove vengono a mancare gli utilissimi musulmani cui aggiudicare uno sterminio. La Tradizione, insomma, non si pone mai il biblico problema di raddrizzare il legno storto dell’umanità. Quello è affar vostro. La Tradizione, appunto, non è biblica e soprattutto non ammira Churchill. Piuttosto contempla il Sole. E il Carro di Krsna.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

domenica 24 luglio 2011

Montanelli ora icona anti-Cav prima fascista da bruciare


Per me, che a un certo punto della mia vita e della mia formazione l'ho avuto come un padre, è come se non lo riconoscessi appieno nella buona parte delle celebrazioni giornalistiche che gli vengono dedicate a dieci anni dalla morte. Parlo di Indro Montanelli. Perché il Montanelli che balza fuori dalle pagine targate 2011 è tutto modellato sul segmento ultimo, ma forse non il più decisivo, della sua vita, quello che trasformò il direttore e fondatore di un Giornale negli anni '70 sopravvissuto grazie alle erogazioni dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi in un nemico accanito di un Cavaliere che nel frattempo era entrato in politica.

I fatti. Fino all'apocalisse del 1992-1994, e dunque alle elezioni politiche che videro Berlusconi mettersi alla testa della coalizione di centro-destra, Montanelli era stato il dominus assoluto del quotidiano lombardo che aveva fondato nel 1974, dopo essersi congedato da un Corriere della Sera che lui giudicava troppo inclinato verso la sinistra. Già alla fine degli anni '70 la proprietà del quotidiano era interamente nelle mani della famiglia Berlusconi. Da quella proprietà erano di certo investite le pagine che si occupavano della nascente televisione commerciale, ma per il resto Montanelli faceva il buono e il cattivo tempo. Solo che, a partire dall’estate del 1993, e mentre stava andando a brandelli quella Prima Repubblica di cui Montanelli era figlio dalla punta dei piedi fino alla cima dei capelli, Berlusconi voleva che il quotidiano di via Negri lo appoggiasse nel modellare Forza Italia e farla debuttare nella politica di prima linea.

Inclassificabile

Ebbene, se c’era un giornalista inadatto alla funzione miserevole di far da sicario al suo editore, quello era Montanelli. Tutta la sua vita era stato imprevedibile, non facile da classificare. Da giornalista fascista era stato radiato dall’Ordine per quanto erano controcorrente alcune sue corrispondenze dall'Africa. Da anticomunista di ferro aveva scritto che quella di Budapest 1956 era una insurrezione di comunisti contro altri comunisti. Da giornalista del tempo in cui le verità del fascismo erano verità assolute, di calci negli stinchi del regime Montanelli ne aveva sferrati non pochi. Da giornalista del tempo in cui l'antifascismo era divenuto una religione e una mitologia, s'era dato come pseudonimo quello di un campo di reclusione dove erano stati rinchiusi i "vinti" dell'aprile 1945.

Un Montanelli che nel 1994 si trasforma in cassa di risonanza del Berlusconi leader politico? Da non pensarci neppure per un attimo. E difatti lui se ne andò dal quotidiano che per vent'anni era stato tutta la sua vita e di cui aveva detto che ne sarebbe uscito solo in orizzontale e con i piedi davanti. Fin qui il Montanelli vero, il Montanelli reale, il più grande giornalista italiano del Novecento.

Non che il Montanelli successivo, quello che dà vita al quotidiano La Voce e che ne fa un'arma puntata tutti i giorni contro il Cavaliere, non sia vero e reale. Dico solo che non è il Montanelli più decisivo, e a parte il fatto che il giornale andò a picco dopo pochi mesi, segno che il pubblico di Indro non lo aveva seguito per quella strada. Padronissimo Montanelli di pensare e scrivere di Berlusconi tutto quello che scrisse sulla Voce, ed erano cose terribili (ripubblicate in un recente volume della Rizzoli, cui Massimo Fini ha apposto una intelligente prefazione).

I senza memoria

Meno legittima l’iscrizione a pieno titolo di Montanelli all'industria dell'antiberlusconismo, un coro dove la sua voce ci sta così e così. Meno legittima comunque nel momento della celebrazione di un destino e di una carriera, la carriera tutta intera di questo maledetto toscanaccio. Grottesco poi quello che di Montanelli pensano e scrivono in tanti della sinistra odierna, loro che sono figli di un mondo politico e culturale che per decenni ha reputato Montanelli "un fascista" ributtante, un giornalista da maledire e bruciare. E che dell’esistenza di quel mondo fingono di dimenticarsi.

Parlo di cose che ho sperimentato sulla mia pelle. Era successo che alcuni di noi che venivamo dalla sinistra demmo vita nel 1983 a un mensile revisionista ante litteram, Pagina. Cercavamo piste inedite, volevamo uscire dai recinti e dalle contrapposizioni tradizionali, mettere assieme il diavolo e l’acqua santa. Altro non era che mettere assieme il diavolo e l'acqua santa scrivere «una lettera aperta» a Montanelli, in cui lo dicevamo chiaro e alto quanto lo ammirassimo, borghese e anticomunista com'era. E siccome quella "lettera" la scrissi io, ed era la primissima volta che gente con un curriculum di sinistra facesse un tale elogio di Montanelli, dopo alcuni mesi lui mi telefonò e mi offrì una rubrichetta sul suo quotidiano: "L'invitato". Non che le opinioni del giornale e le mie collimassero, un po' com'è oggi della mia collaborazione a Libero. Solo che questa diversità lui la giudicava vitale.

Ebbene a quel tempo, e nel mondo generazionale e professionale che era stato il mio, dire Montanelli e del Giornale era come bestemmiare in chiesa. "Ma come fai a collaborare con un giornale fascista come quello?", mi chiese una volta una mia amica. Un altro "montanelliano" di ferro era Cesare Marchi, quello che ultrasessantenne era stato scoperto alla Rizzoli da Edmondo Aroldi, il più grande editor italiano degli ultimi trent'anni. Mi raccontò una volta che nella cittadina di provincia veneta dove viveva era per lui un problema trovare e comprare una copia del quotidiano di Montanelli: perché molti edicolanti (di sinistra) si rifiutavano persino di esporlo. Potrei continuare così per pagine e pagine.

Il pugno di Romeo

Un fascista ributtante. Un quotidiano che aveva la lebbra e non andava nemmeno toccato. Uno dei suoi collaboratori più illustri, il professor Rosario Romeo, che nel 1977 si sente dare del fascista da un suo collega dell’università di Roma e lo stende con un cazzotto ben diretto. E guai a nominare a quell’epoca i maestri di Montanelli, il fascista di sinistra Berto Ricci (che andò a morire da volontario in Africa) o Giuseppe Prezzolini, che fascista non lo era nemmeno un poco ma nemmeno un poco era antifascista.

Questo era il tempo del Montanelli più vero, più decisivo, più contraddittorio e dunque più vitale. Questi erano gli anni. Queste erano le parole. Questi erano i recinti e le contrapposizioni degli anni Settanta e Ottanta. Anni in cui io di cazzotti ne avrei dovuto dare un giorno sì e l’altro pure: e non certo perché fossi divenuto di "destra", ma solo perché avevo cominciato a trovare insopportabile la retorica "di sinistra". Esattamente come oggi. Oggi che di piste e di parole nuove ne avremmo bisogno di tutti.

(di Giampiero Mughini)

sabato 23 luglio 2011

L’«euro» dell’Ottocento


Le attuali difficoltà dell’Unione monetaria europea incontrano nella storia un precedente interessante, per le analogie che presenta e gli insegnamenti che può offrire. È il caso dell’Unione monetaria latina, detta anche Lega latina, costituita nel dicembre 1865, tre anni dopo l’unificazione monetaria italiana avvenuta nel 1862, e dichiarata ufficialmente defunta nel 1925. Di quell’unione monetaria facevano parte quegli Stati che avevano conservato o deciso negli anni precedenti di adottare il sistema monetario napoleonico.

Il ruolo di capogruppo era rivestito ovviamente dalla Francia, patria di quel sistema, si aggiungevano l’Italia erede del Regno di Sardegna, il Belgio e la Svizzera. Segno distintivo era il nome della moneta di riferimento, il franco, ideato dai tecnici della Rivoluzione all’inizio del secolo e mai presente, salvo un piccolo episodio, tra i nomi delle monete del passato. La parola franco evocava una terra, un popolo, proprio come il nostro Euro con, in più, il significato di "libero", "affrancato", del termine nell’originaria lingua francese. L’Italia si volle discostare dagli altri Paesi e, pur adottando il franco, mantenne l’antico nome di lira, l’antica unità di peso (libbra) divenuta universale moneta di conto, cui aggiunse la scontata specificazione di "nuova".

La stessa scelta fece poi la Grecia che, due anni dopo adottò il franco, chiamandolo però dracma. Poco importava se il nome di alcune valute era diverso: identico era il principio su cui tutto il sistema si basava, identiche erano le monete in circolazione per peso e per titolo. Questa specificazione ci dà la cifra della differenza rispetto alla nostra unione monetaria attuale. Oggi si tratta di una unione di monete per lo più cartacee, non aventi in sé il valore dichiarato. Allora, parte preponderante delle monete in circolazione era "a valore intrinseco": il valore commerciale del metallo, ovviamente prezioso, di cui erano fatte, corrispondeva cioè al valore "facciale" della moneta.

Questo principio non valeva naturalmente per la moneta cartacea e per quella "divisionale", ossia gli spiccioli, ma le banconote e le divisionali dovevano essere obbligatoriamente convertibili in oro o in argento da chi le aveva emesse (banche o zecche nazionali) a richiesta del portatore. Si capisce allora perché sembrò in quel momento relativamente semplice costituire un’Unione monetaria senza il presupposto di alcuna unione politica tra Stati membri: la base di partenza era solida, si fondava su oro e argento, a cui si aggiungeva un rapporto fisso tra oro e argento (1:15,50).

Ai fondatori dell’unione sarebbero così bastate poche regole: stabilire quali pezzi monetari d’argento e d’oro coniare, quale titolo (percentuale di metallo prezioso rispetto al metallo di conio) e quale peso adottare. Ma se tutto era così ovvio, perché l’esperienza fallì? Rispondere a questa domanda permette di trarre qualche insegnamento per l’oggi. Federico Marconcini, economista della Cattolica e autore nel 1929 di un volume sull’Unione ancora molto attuale, lo spiegò descrivendo il senso di sollievo che, solo pochi anni prima, aveva accolto lo scioglimento formale di una Unione monetaria latina ormai al capolinea: finalmente i piccoli Stati nazionali di cui si era popolata l’Europa postbellica si sentivano emancipati da restrizioni monetarie che sembravano del tutto estranee.

La miopia di quegli anni non permise però di vedere che un’altra moneta sovranazionale (questa volta veramente eterodiretta), il dollaro statunitense, sarebbe subentrata all’unione volontaria tra stati compartecipi. E che la Lilliput monetaria europea si auto-condannò a svolgere un ruolo subalterno per lungo tempo.

Per una certa politica, probabilmente, era meglio evocare libertà, autonomia, scelte spontanee, ed ottenere il consenso (di corto respiro) che accompagna l’euforia drogata da manipolazioni monetarie. Fu questo il virus che si insediò, inaspettato ospite, tra le pieghe dell’Unione, complici il crescente divario tra il valore commerciale dell’oro rispetto a quello dell’argento, i problemi di bilancio di Stati oberati da un insostenibile debito pubblico, le crisi economico-finanziarie e le tensioni internazionali sfociate poi nella Grande guerra.

Ecco allora Italia, Grecia e Belgio adottare a più riprese il corso forzoso: si stampava cartamoneta non convertibile in metallo per i bisogni del Tesoro, alzando la base monetaria propria e, di conseguenza, di tutta l’Unione. Si fruiva di un provvisorio dumping valutario a spese anche degli altri, per poi ritrovarsi intrappolati al punto di partenza. Nel momento di maggior deprezzamento dell’argento rispetto all’oro si continuavano a coniare in modo irresponsabile più scudi del dovuto per poter fruire di vantaggio del cambio in carta o in oro.

Oppure, come fece la Svizzera, si evitava di coniare moneta argentea propria per attrarre nei propri confini l’argento altrui. I continui aggiustamenti cui si fece ricorso per arginare queste deviazioni finirono per "burocratizzare" l’Unione, fissando regole sempre più stringenti e regolarmente aggirate dai singoli governi. In quel momento sarebbe invece stata necessaria una maggior coesione politica, ma nell’ultimo scorcio del secolo tutto divenne più difficile. La guerra e il dopoguerra diedero il colpo di grazia a un’istituzione che continuava a vivere solo sulla carta. Quando fu ufficialmente dichiarata morta, nel dicembre 1925, ben pochi se ne accorsero. E l’Unione monetaria latina fu condannata all’oblio.

(di Pietro Cafaro)

martedì 19 luglio 2011

Nuove sintesi per l'Europa. Intervista a Franco Cardini


Professor Cardini, lei ha affermato più volte di non riconoscersi nell’area politica “di destra” nella quale era comunque cresciuto ed aveva mosso i primi passi dell’impegno civile. Cosa rimane, oggi, dei suoi ideali di allora, e come pensa di rigenerarli in assenza di chiare delimitazioni fra destra e sinistra, entrambe subalterne al mito dello sviluppo capitalistico ad oltranza?

Un’adeguata risposta alla vostra domanda dovrebbe cominciare con un’analisi storica sull’origine della parola Destra nel lessico politico europeo dalla Rivoluzione francese ad oggi. In sintesi, la parola Destra nasce – in contrapposizione alla parola Sinistra – all’inizio della grande Rivoluzione, per indicare chi resta fedele al Trono e all’Altare in contrapposizione al valore e all’ideale nuovo, la Nazione; e chi quindi, coerente con tale scelta, difende i valori delle comunità locali, dei corpi intermedi e delle loro antiche libertates contro il livellamento individualista ed egalitario imposto dal giacobinismo. In questo senso storico, che ha assunto nel tempo – in una linea che da De Maistre a Donoso Cortés fino a Miguel de Unamuno e a Carl Schmitt – un valore metastorico e metapolitico, io resto un uomo di Destra. Ma, sia chiaro, solo in questo senso. Un senso che investe in modo primario una profonda convinzione: che siano cioè l’individualismo, il primato dell’economia e il progressismo materialista che il giacobinismo ha trasmesso alla borghesia liberal-liberista otto- e novecentesca i principali nemici della giustizia, della libertà e del genere umano.

Professor Cardini, lei ha affermato più volte di non riconoscersi nell’area politica “di destra” nella quale era comunque cresciuto ed aveva mosso i primi passi dell’impegno civile. Cosa rimane, oggi, dei suoi ideali di allora, e come pensa di rigenerarli in assenza di chiare delimitazioni fra destra e sinistra, entrambe subalterne al mito dello sviluppo capitalistico ad oltranza?

Un’adeguata risposta alla vostra domanda dovrebbe cominciare con un’analisi storica sull’origine della parola Destra nel lessico politico europeo dalla Rivoluzione francese ad oggi. In sintesi, la parola Destra nasce – in contrapposizione alla parola Sinistra – all’inizio della grande Rivoluzione, per indicare chi resta fedele al Trono e all’Altare in contrapposizione al valore e all’ideale nuovo, la Nazione; e chi quindi, coerente con tale scelta, difende i valori delle comunità locali, dei corpi intermedi e delle loro antiche libertates contro il livellamento individualista ed egalitario imposto dal giacobinismo. In questo senso storico, che ha assunto nel tempo – in una linea che da De Maistre a Donoso Cortés fino a Miguel de Unamuno e a Carl Schmitt – un valore metastorico e metapolitico, io resto un uomo di Destra. Ma, sia chiaro, solo in questo senso. Un senso che investe in modo primario una profonda convinzione: che siano cioè l’individualismo, il primato dell’economia e il progressismo materialista che il giacobinismo ha trasmesso alla borghesia liberal-liberista otto- e novecentesca i principali nemici della giustizia, della libertà e del genere umano.

Lo storico israeliano Zeev Sternhell è colui che a mio avviso ha meglio inteso e interpretato questa dinamica storica e politica (rinvio al suo Naissance de l’déologie fasciste, Paris, Fayard, 1989). Nella Firenze degli Anni Cinquanta-Sessanta, il luogo e il periodo della mia formazione (sono nato nel 1940), alla scuola di un giovane pensatore tradizionalista prematuramente scomparso, Attilio Mordini (1923-1966), si formò un gruppo di giovanissimi l’ardua e in gran parte oscura ambizione dei quali era collegare i valori metastorici e metafisici dell’Europa di de Maistre e di Donoso Cortés alle lotte politiche del presente. Quei ragazzi passarono attraverso l’europeismo proposto da Jean Thiriart, che negli Anni Sessanta proponeva di lottare per una “Nazione Europea” che si svincolasse dai due opposti blocchi liberista statunitense e collettivista sovietico e creasse una realtà nuova, solidaristica e socialista, che si collegasse con le lotte per la liberazione di quello che allora si definiva il “Terzo Mondo”. Essi provenivano in gran parte dal MSI, ma al suo interno avevano simpatizzato per il “fascismo movimentista” (Berto Ricci ecc.), per la primissima Falange spagnola (De Rivera, Redondo, Hedilla), per la stessa “sinistra” nazionalsocialista (i fratelli Strasser), per il giustizialismo argentino e per il guevarismo; ed erano stanchi dell’anticomunismo unilaterale e dell’accademia socializzante che in quel partito regnava, e che si traduceva in una costante retorica elettoralista mentre i dirigenti di quel partito, in parlamento, conducevano regolarmente scelte conservatrici e filoccidentalistiche.

Il “movimento di Valle Giulia”, quando nel ’68 i ragazzi “di destra” che si erano uniti a quelli “di sinistra” per protestare contro l’establishment capitalistico-borghese furono trattati da “traditori” e fatti pestare dalle bande di Almirante e di Caradonna, fu il segnale che ormai nessun ulteriore malinteso dialogo tra loro e quel tipo di “destra” (che riempiva il suo vuoto culturale con le maiuscole, autodefinendosi “la Destra”) era possibile.

La critica al concetto stesso di “Occidente” fu uno degli elementi che consentirono al gruppo, numericamente ristretto, cui appartenevo, di simpatizzare un decennio più tardi, tra Anni Settanta e Anni Ottanta, per la “Nuova Destra” di Alain de Benoist e per le posizioni che in quella direzione venivano portate avanti da altri allora giovanissimi, guidati da Marco Tarchi. Si deve ad Alain de Benoist di avere “rotto” con la massima chiarezza con qualunque equivoco “di destra”, proponendo di non parlare più di “Nuova Destra” bensì di “Nuove Sintesi”.

Si può dire che almeno dall’inizio degli Anni Ottanta gli amici, giovani e meno giovani, che – naturalmente con molte articolazioni e variabili – si riconoscevano e che storicamente continuano a riconoscersi in questo main stream politico e culturale, abbiano cessato definitivamente di dirsi “di destra”: per quanto possano aver mantenuto a titolo personale qualche legame di amicizia con persone rimaste per vari motivi all’interno della formazione autodefinitasi “Destra” che ha finito per passare in Alleanza Nazionale a infine confluire nella sua quasi-totalità nel partito-azienda di Berlusconi, una ben triste fine, che qualcuno di loro non meritava ma alla quale avrebbe dovuto sottrarsi.

Attualmente, la mia posizione consiste nell’impegnarmi nei limiti delle mie possibilità per il raggiungimento di un’Unione Europea che sia un’autentica compagine politica (non l’Eurolandia finanziario-bancario-burocratica che esiste oggi), che si opponga sia al “pensiero unico” ispirato al conformismo internazionale che oggi trionfa nei mass media, sia all’impero anonimo (ma non troppo) delle lobbies multinazionali e al suo “braccio armato”, costituito fino all’esperienza Bush anzitutto dalla superpotenza statunitense, e oggi vivo e attivo anche all’interno di gran parte dell’ONU. Credo che la grande battaglia da combattere nel XXI secolo sia quella contro le forze che, con l’obiettivo del profitto e dello sfruttamento del pianeta, lavorano alla sua distruzione.

Le mie posizioni di oggi si identificano largamente in quelle di pensatori come Serge Latouche, Noam Chomsky e Vandana Shiva.

Come cattolico, ritengo che la grande battaglia cattolica di oggi consista nello stare accanto ai 5/6 del pianeta, a chi soffre, a chi è povero e s’impoverisce sempre di più a causa del criminale assalto del turbocapitalismo internazionale contro il pianeta, a chi lotta affinché non gli siano rubate almeno l’aria e l’acqua.

Come europeo, il 16 luglio scorso ho fatto parte, da anonimo, alla massa di centinaia di migliaia di cittadini europei anonimi che sono accorsi a Vienna per prestare l’estremo omaggio alle spoglie di Otto d’Asburgo, l’ultimo erede al trono imperiale d’Austria: nel nome della vecchia Europa che fu distrutta nel 1918 dall’iniqua pace di Versailles, la quale scatenò nel mondo la follia dell’isterismo nazionalista e la ferocia dell’egoismo capitalista progressivamente sciolto da qualunque forma di controllo.

Esser definito “di destra” o “di sinistra” non m’interessa: ma le posizioni che oggi difendo e con le quali solidarizzo sono comunque, in massima parte, ormai sostenute da formazioni che si dicono “di sinistra”: questo è un fatto. Dal canto mio, mi definisco cattolico, europeista e socialista. Se qualcun altro mi appiccica altre etichette, è affar suo: non mio.

Da cattolico quale idea si è fatto del ruolo giocato negli ultimi trent’anni dalla Chiesa nel processo di giustificazione dell’esistente, ovvero dell’attuale sistema dei consumi? È sensato aspettarci proprio da un certo cristianesimo di base la spinta ad un rinnovamento delle categorie etiche e politiche della post-modernità?

Anche qui, ho molto sperato, e a lungo, nella rinascita di un “cattolicesimo tradizionalista” che riscoprisse la sacralità e che si opponesse a un cattolicesimo che negli Anni Cinquanta-Sessanta, specie poi col Vaticano II, sembrava muoversi a gran passi nel senso della “secolarizzazione” e dell’appiattimento dei valori religiosi, della riduzione insomma della religione a umanitarismo e a sociologia. Anche il “pacifismo” cristiano mi sembrava parte di quella resa della Chiesa dinanzi ai valori della Modernità, insomma di tutto quel che aveva indotto Jacques Maritain a stigmatizzare “quella chiesa che s’inginocchiava davanti al mondo”.

Ma la svolta in gran parte provocata da Giovanni Paolo II ha prodotto – e non per colpa di quel grande pontefice – un esito singolarmente negativo: l’emergere di una sorta di pseudo-neotradizionalismo che identifica la Chiesa cattolica con i “valori” occidentali moderni, proclama la Modernità figlia unica e legittima del cristianesimo (dimenticando lo “strappo” della rivoluzione moderna, che tra XVI e XVIII secolo avviò e legittimò la vittoria dell’individualismo e dello strapotere dell’economia e della tecnologia consentendo che l’Occidentale, per sostenere, asservisse e sfruttasse tutto il mondo) e bandisce crociate per la “difesa della Cristianità” (magari strumentalizzando la tragedia dei cristiani che oggi vengono uccisi nel mondo, spesso perché chi li sopprime li ritiene - a torto - complici dei crimini dell’Occidente). Questo pseudo-neotradizionalismo sedicente “cattolico” è un’autentica lebbra: i cattolici che lo fanno proprio in buona fede dimenticano che alla Fine dei Tempi Dio non ci giudicherà sulla base dell’ortodossia teologica o della pratica ecclesiale o della correttezza liturgica, ma sulla sola base dell’amore e della carità. Questa è la verità cristiana, che corrisponde alla profezia di Gesù nel Vangelo di Matteo, 25, 31-46: e non ci sono sofismi alla von Hayez, non ci sono chiacchiere alla Novak che tengano.

Giovanni Paolo II, che appena eletto aveva visitato l’America Latina inferendo un colpo durissimo alla “teologia della liberazione”, nel suo secondo viaggio in quel continente, nel 1979, s’informò puntualmente sui crimini delle dittature dei gorilas – spesso, come in Guatemala, sostenute dai servizi statunitensi più o meno “coperti” da missioni religiose protestanti – e sul tacito o esplicito appoggio che in alcuni casi gli alti gradi della Chiesa cattolica avevano loro accordato. Del resto, tra i coraggiosi oppositori di quel “blocco criminal conservatore” c’erano stati anche personaggi come l’arcivescovo di El Salvador Oscar Romero, uomo di assoluta fiducia della Santa Sede e oppositore della “teologia della liberazione” che però, una volta insediato, si rese conto dell’ottusità e della spregiudicatezza di chi, anche fra i prelati cattolici, favoriva una repressione che si presentava come “anticomunista” mentre puntava solo al mantenimento dell’ingiustizia e dello sfruttamento, in linea con gli interessi di lobbies criminali quali la United Fruits Company. Ma di autentici martiri, quali monsignor Romero, poco si curano gli attuali estensori dei nuovi martirologi cattolici, per i quali contano solo i martiri uccisi dai fondamentalisti musulmani.

Oggi, non mi aspetto nulla dalle “destre” cattoliche guadagnate al conservatorismo occidentalista. Confido invece in alcuni movimenti di base e in alcuni gruppi che svolgono un’intensa attività di tipo ecologistico e solidaristico, che s’impegnano nell’aiuto agli immigrati e nella lotta contro il pregiudizio e la discriminazione, che danno vita a un volontariato capace di divenire nel tempo – e che sta già divenendo – un nuovo grande ideale, quello della lotta capillare per l’avvento di un mondo diverso nel quale il malvagio cerchio magico produzione-profitto-sfruttamento-consumo sia battuto in breccia.

Ancor oggi, troppi cattolici sono teledipendenti acritici e la domenica – magari dopo la messa – accompagnano la famigliola nel rito delle infauste gite festive ai centri commerciali. È questo conformismo, questo inginocchiarsi dinanzi al materialismo del profitto e del consumo, che bisogna sconfiggere. Non tutti gli ambienti della Chiesa cattolica si sono ancora resi conto che questa è la grande, sacrosanta battaglia dei nostri giorni. Il governo italiano, ad esempio, è inadempiente dei confronti della lotta mondiale contro l’AIDS, rispetto alla quale continua a non versare i contributi ai quali si era impegnato. Nonostante la crisi economica, o magari proprio per quella, la Chiesa cattolica dovrebbe stigmatizzare duramente queste inadempienze. Ma può darsi che essa preferisca accettare dal governo italiano altri “favori”, fiscali o di altro tipo, anziché ricordargli i suoi doveri umanitari. È da queste viltà che la chiesa deve guarire.

Come legge, professor Cardini, i tentativi di Obama e degli Stati Uniti d’America di indirizzare le rivolte arabe verso esiti U.S.A-compatibili? Crede che esista davvero, nel mondo musulmano, un’attrazione crescente per la democrazia liberale occidentale?

Quando si è trattato di battere l’infausto Bush, siamo stati tutti obamisti: non c’era scelta. Si trattava di essere contro Bush, che andava battuto con qualunque mezzo e mandato a casa (come in Italia, oggi, bisogna mandare a casa Berlusconi). Ma la “santificazione” di Obama è stata, negli Stati Uniti come da noi, in una certa misura opera di ex-bushisti più o meno “pentiti” desiderosi di riciclarsi: certe conversioni, tra i giornalisti e i politici, sono state tra il grottesco e il patetico. Ci voleva poco, invece, a capire che il presidente Obama sarebbe stato un bluff, magari al di là delle sue personali intenzioni. In particolare, Obama ha “subaffittato” la politica estera all’infausta signora Clinton, che lavora in una linea si sostanziale continuità soft rispetto alla gestione dei criminali Cheney, Rumsfeld e Rice, nonostante l’evidente fallimento delle loro scelte.

desiderosi di riciclarsi: certe conversioni, tra i giornalisti e i politici, sono state tra il grottesco e il patetico. Ci voleva poco, invece, a capire che il presidente Obama sarebbe stato un bluff, magari al di là delle sue personali intenzioni. In particolare, Obama ha “subaffittato” la politica estera all’infausta signora Clinton, che lavora in una linea si sostanziale continuità soft rispetto alla gestione dei criminali Cheney, Rumsfeld e Rice, nonostante l’evidente fallimento delle loro scelte.

Che nella “primavera araba” vi fossero anche istanze tese a raccogliere alcuni elementi dalla “democrazia rappresentativa” all’occidentale, è vero. Ma l’affermarlo, se è cosa necessaria, non è tuttavia sufficiente. All’interno dell’Islam vi sono anche altre componenti. E in esso nel suo complesso è forte la volontà di cercare strade nuove, che siano coerenti rispetto alle molte versioni della cultura musulmana elaborata all’interno di varie realtà etniche, nazionali, sociali eccetera. D’altronde, non va dimenticato che anche l’Islam – una religione che, a differenza da quella cristiana, non dispone di centri istituzionali organizzati paragonabili alle Chiese – soffre di una forte crisi derivante dall’impatto con la Modernità e con la Postmodernità: non si possono valutare solo le componenti “fondamentaliste”, superficialmente giudicandole “oscurantiste” e “reazionarie” nel loro complesso, né quelle “progressiste” e “occidentalizzanti”, giudicandole invece “progressiste” e compatibili con il nostro mondo e i nostri trend di sviluppo. La realtà è più complessa.

Qual è, secondo lei, la strada più realistica e solidale per affrontare l’emergenza immigrazione nell’Unione Europea, tenendo conto degli sconvolgimenti sociali che ci aspettano a seguito delle politiche di austerità imposte, proprio in questi giorni, dal potere dei grandi centri finanziari?

È necessario valutare con molto rigore, ma anche con serenità, le possibilità di assorbimento di forza-lavoro extraeuropea che i vari paesi dell’Unione possono sostenere nel loro complesso e presi uno del uno; dotarsi di strumenti di accoglienza e di solidarietà di base in modo da far fronte alle ondate immigratorie senza venir meno ai doveri umanitari ma al tempo stesso prevenendo per quanto possibile i fenomeni di sovrappopolamento dei profughi e coinvolgendo in modo serio i paesi mediterranei non-europei in modo da indurli a una seria collaborazione nella sorveglianza e nel contenimento del fenomeno; favorire dei rimpatri ordinati e provvisti delle necessarie garanzie (non si può “riconsegnare” nessuno a governi in grado di rispondere alle istanze del tempo presente con i soli strumenti della repressione, della detenzione concentrazionaria e della violenza); mettere a punto strumenti che ci consentano di porre da canto le soluzioni desuete fondate sia sull’assimilazionismo “alla francese” (che umilia le persone e le culture), sia sul “multiculturalismo” all’inglese o all’olandese (che crea “isole” di “diversi” all’interno di società che li tollerano e li sfruttano ma che non li comprendono).

Si deve puntare verso nuove sintesi che permettano ai futuri cittadini europei, nati in Europa da genitori extracomunitari, di vivere nella loro patria europea senza per questo venir meno alle tradizioni dei loro padri o essere obbligati a dimenticarle e a tradirle.

Quanto alle politiche di austerità, è evidente che non si può accettare il principio secondo il quale profitti e proventi degli speculatori (quelli spesso eufemisticamente definiti “imprenditori” e “azionisti”) debbano essere salvaguardati nel nome della “ripresa” e dello “sviluppo”, a spese unilaterali delle categorie a reddito fisso e dei ceti meno abbienti. Bisogna lottare contro concentrazione della ricchezza e rendite parassitarie, compresi i profitti finanziari, che non possono essere salvati attraverso i “tagli” a quel che resta dello stato sociale. Gli extracomunitari non vanno considerati estranei a questa lotta: il “lavoro nero”, ad esempio, si traduce in una forma di enorme evasione fiscale che va a danno nostro come loro. Il punto è che oggi ormai purtroppo, in Italia, non esiste più una “coscienza sociale” come parte della “coscienza civica”.

La grande battaglia sta tutta nella sua ricostruzione e nel coinvolgimento in essa degli stessi extracomunitari. E bisogna ricominciare tutto da capo, dai giovani, dai ragazzi. Le vecchie generazioni sono perdute: se così non fosse, gli operai che oggi sono cinquanta-sessantenni non si sarebbero mai convertiti alla xenofobia leghista. Prendersela con gli extracomunitari che “rubano il lavoro” è lo stesso errore del cane che, percosso dal padrone, morde il suo bastone. Bisogna ricominciare da capo: insegnare ad azzannare i padroni. Meglio se alla gola.

Quanto alle politiche di austerità, è evidente che non si può accettare il principio secondo il quale profitti e proventi degli speculatori (quelli spesso eufemisticamente definiti “imprenditori” e “azionisti”) debbano essere salvaguardati nel nome della “ripresa” e dello “sviluppo”, a spese unilaterali delle categorie a reddito fisso e dei ceti meno abbienti. Bisogna lottare contro concentrazione della ricchezza e rendite parassitarie, compresi i profitti finanziari, che non possono essere salvati attraverso i “tagli” a quel che resta dello stato sociale. Gli extracomunitari non vanno considerati estranei a questa lotta: il “lavoro nero”, ad esempio, si traduce in una forma di enorme evasione fiscale che va a danno nostro come loro. Il punto è che oggi ormai purtroppo, in Italia, non esiste più una “coscienza sociale” come parte della “coscienza civica”.

Nel libro che lei ha scritto assieme a Sergio Valzania, “Le radici perdute dell'Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali”, raccorda molti indizi che dimostrano un possibile diverso destino dell’Europa, non quello poi modellato dagli stati nazionali. Oggi che sono in crisi verticale sia gli Stati nazionali sia il modello di Europa degli ultimi sessanta anni, e senza un Carlo V all’orizzonte, possiamo immaginare un ulteriore diverso destino storico, un altro cammino culturale e politico per il continente?

Per questo, e non per un sussulto di reazionarismo estetizzante, ero il 16 luglio 2011 a Vienna per render omaggio alle spoglie dell’ultimo erede degli Asburgo. L’Europa deve ritrovare se stessa in un cammino che la Modernità ha interrotto imponendo la vittoria degli assolutismi prima, degli stati nazionali poi. Una scelta che ci ha regalato due guerre fratricide. Il cammino da riprendere è quello interrotto progressivamente tra Cinque e Settecento: il cammino del solidarismo, della restaurazione dei “corpi intermedi” costituiti dalle comunità locali con le loro prerogative e i loro diritti, del riconoscimento generale di una comune patria europea che fin dal medioevo ha costruito una cultura fondata sul pluralismo delle lingue e delle tradizioni e sull’unicità della tradizione giuridica ed etica proveniente dall’incontro della romanità con il cristianesimo e con il contributo delle etnie che nell’eredità di quelle tradizioni si sono riconosciute.

L’Unione Europea nata nel 1951 ha cominciato, come si usa dire, col piede sbagliato: dal denaro, dalla moneta unica, e dalla istituzioni burocratiche sostenute da un’impalcatura democratica formale. Ma i popoli sono rimasti fuori da quella impalcatura che hanno pur subìto. Non sono nati difatti né una scuola europea comune per tutti i cittadini futuri, né un esercito comune (la difesa del nostro continente è stata affidata alla NATO), né un vero apparato giurisdizionale.

Secondo i principi della politica internazionale, per costituire una corretta compagine politica occorrono quattro cose: la Bandiera, vale a dire le istituzioni (noi disponiamo solo di un ipertrofico e costosissimo parlamento Europeo, dotato di pochi poteri reali); la Moneta (ce l’abbiamo, l’euro: ma da sola non basta); la Toga, cioè le istituzioni giudiziarie (a loro volta confuse); la Spada, cioè la difesa (ma l’esercito “europeo” non esiste: è rimpiazzato dalla NATO, vale a dire da una Spada in mano altrui). Bisogna ricominciare da zero, con un obiettivo: la creazione di un autentico patriottismo europeo, che porti alla fondazione di un’Europa che non sia più quella dei governi e degli stati, ma quella dei popoli.

Il primo obiettivo realistico, oggi, è il ribadire la volontà europeistica di stare insieme contro le tentazioni micronazionalistiche, le quali servono a dividerci di nuovo per mantenerci al servizio della NATO e delle lobbies multinazionali, che ovviamente tendono a dividerci per meglio controllarci. Negli Anni Cinquanta, gente come Altiero Spinelli credeva che l’unità europea fosse dietro l’angolo e s’illudeva che le superpotenze lo avrebbero permesso. Mezzo secolo dopo, sappiamo che tutto è molto lontano e che i poteri forti mondiali non permetteranno mai il nascere di un’Europa effettivamente libera, indipendente e unita. Oggi, per sperarvi, ci vuole un sogno coraggioso, al limite della follia. Bisogna essere al contrario realistici: e chiedere l’impossibile.

(fonte: www.cometa-online.it)

Omaggio agli eroi libici. Da un italiano disonorato


Se il mondo non fosse rovesciato, ossia se l’Occidente fosse ancora fedele alla sua civiltà storica, onoreremmo commossi l’eroismo dei soldati libici e dei loro comandi. Un esercito da operetta, ci è stato detto; fatto per lo più di mercenari, ossia di disoccupati venuti dall’Africa nera; che Gheddafi ha armato di Viagra perchè potessero violentare le donne libiche.

E questa è propaganda; ma gli stessi servizi francesi avevano assicurato che quell’armata ridicola si sarebbe sgretolata ai primi colpi della NATO, i soldati avrebbero disertato a migliaia. È stato questo a convincere Sarkozy a tentare il colpo: presentarsi alle prossime elezioni presidenziali con la gloria del condottiero vincitore di una guerra-lampo facile. Da Washington, anche Obama annunciò che la guerra contro Gheddafi sarebbe durata qualche giorno, al massimo qualche settimana.

Invece ecco, sono quattro mesi che la truppa libica, lungi dallo sgretolarsi, resiste e contrattacca. In condizioni di assoluta inferiorità, con lo spazio aereo interdetto da forze aerei totalmente preponderanti, che colpiscono i mezzi corazzati, i pezzi d’artiglieria e le batterie antimissile, più edifici e supposti bunker di Gheddafi, al ritmo di una cinquantina di bombardamenti e attacchi aerei al giorno, seimila dall’inizio delle operazioni. Ogni movimento dell’armata libica a terra è rilevato da almeno 3 satelliti-spia che sorvolano il Paese ogni giorno, senza contare gli aerei-radar Awacs americani (sono gli americani ad indicare ai caccia-bombardieri francesi e britannici l’80% dei loro bersagli, a fornire gli aerei-cisterna per riforninento in volo, i droni, i missili antiradar, gli apparati di guida-laser per le bombe intelligenti...).

Chiunque abbia una qualche nozione di cose militari capisce che cosa significhi per una piccola armata continuare ad operare militarmente in queste condizioni, col ventre molle esposto dal cielo, con la coscienza psicologica di aver contro la NATO e la Superpotenza, senza prospettive di vittoria; quale coesione e tenuta morale ciò richieda.

Eppure i militari libici operano, ostinatamente riconquistano il terreno occupato dai ribelli sotto copertura aerea NATO, costringono i Raphale e gli F-16 a tirare da alta quota per non essere colpiti dalla contraerea; avanzano benchè i loro cingolati vengano centrati e distrutti dal cielo; e le loro azioni mantengono un limpido senso strategico.

Il tentativo di bloccare il porto di Misurata (da dove i ribelli possono ricevere materiale pesante) con reti di mine, benchè non riuscito o non del tutto, induce a rendere onore ai loro ufficiali. La loro chiarezza strategica contrasta con l’azione della NATO, che un responsabile militare francese ha definito, parlando al Nouvel Observateur, «colpi senza capo nè coda. Per gli ufficiali della NATO, si tratta di far eseguire un certo numero di sortite aeree al giorno. Non c’è alcun obbiettivo strategico coerente, solo dei casi da schiacciare. Questa burocrazia fa la guerra come l’INPS».

Migliori allievi di Clausewitz di noialtri europoidi, i comandanti libici hanno raggiunto col sacrificio dei loro uomini, un risultato politico di prim’ordine: Sarkozy, entrato à la guerre con lo scopo dichiarato di detronizzare Gheddafi, di colpo ha dichiarato che il colonnello Gheddafi può essere un interlocutore politico, insomma che si può trattare con lui.

La signora Clinton ha dovuto precipitarsi a dire che no, lo scopo dell’operazione non è cambiato, che Gheddafi deve andarsene; Frattini ha ripetuto la lezione, con in più il sospetto (espresso a metà) che Sarko si preparasse a trattare personalmente con il colonnello, tagliando fuori la NATO e l’ONU. La Clinton e Frattini hanno dichiarato il comitato dei ribelli, il CNT, l’unico governo legittimo riconosciuto dall’Occidente... Un neocon d’accatto italiano, di nome Vittorio Emanuele Parsi (che riceve le imbeccate dai pensatoi israelo-americani, e per questo viene ospitato su media importanti) ha persino accusato Sarkozy – incredibile sprezzo del ridicolo – di tradimento.

Ma che fare? I comandi francesi hanno fatto sapere che praticamente non hanno più missili e munizioni sofisticate, che la portaerei Charles De Gaulle, in mare da otto mesi, deve tornare nei bacini. Insomma, la resistenza militare libica ha messo Sarko più o meno nella stessa posizione di Gheddafi: entrambi col bisogno di trovare una via di sconfitta onorevole, con la prospettiva di «ritirarsi nella propria tenda a scrivere e meditare», a vita privata. Anzi, l’aggressione della NATO, che dura troppo e uccide troppi civili, ha provocato – pare – una ri-esplosione di popolarità per Gheddafi tra i suoi tripolini: prima, dicono a Tripoli, occorre «vincere gli invasori della NATO e i ribelli della NATO».

Gheddafi, ridicolo e ambiguo farabutto con problemi mentali, non è più il fulcro della questione. Se l’esercito libico fosse giudicato come un esercito occidentale, parleremmo di nascita di una nazione, nel sangue e nel fuoco di una guerra contro un nemico disonorato ma schiacciante.

Ove nascesse e fosse riconosciuta, questa nazione potrebbe addirittura trascinare il governo italiano davanti ad un tribunale dell’ONU per violazione di trattati internazionali.

Basta scorrere i titoli dei capoversi del Trattato di eterna amicizia firmato da Belusconi nel 2008, per capire – caro Parsi – chi è il traditore in questo gioco.

(di Maurizio Blondet)

Le metamorfosi di Malaparte


Fu idealista o opportunista, ribelle o camaleonte, protagonista o millantatore? Quando si parla di Kurt Erich Suckert, divenuto dopo il 1925 Curzio Malaparte, simili domande sono inevitabili. I suoi biografi sono stati finora impegnati a sciogliere l'alternativa. Compito tutt'altro che facile nel caso di uno scrittore che fu interventista combattente nella Grande Guerra, poi apologeta dei vinti di Caporetto, e poi ancora fautore di un fascismo rivoluzionario totalitario. Che fu amico di Piero Gobetti e testimone in favore degli assassini di Matteotti; che fu cantore di Mussolini, di Farinacci, di Balbo, di Ciano finché furono potenti, per denigrarli quando il loro potere declinò o cadde in rovina. Che fu sovvenzionato dal ministero della Cultura popolare fino al 1943, ma dopo il crollo del fascismo si presentò come un perseguitato dal regime, e fu pronto a dichiarare a Togliatti nel 1944 che il comunismo era stato «motivo dominante di tutta la mia attività intellettuale», «motivo profondo di tutti i miei atti d'intelligenza e di coscienza». Né le metamorfosi di Malaparte cessarono allora: dopo il 1946, infatti, divenne anticomunista e fustigatore della «razza marxista», denunciò il «fascismo degli antifascisti» e fu sostenitore di De Gasperi nelle elezioni del 1948, per concludere infine la sua esistenza terrena nel 1957, esaltando Mao e il comunismo cinese, accettando la tessera del Partito repubblicano e del Partito comunista, e forse accettando, in punto di morte, di convertirsi alla Chiesa cattolica, che lo aveva messo all'Indice.

Di fronte all'evidenza dell'incoerenza, la risposta più veritiera alle domande alternative sta forse nel constatare che Malaparte fu idealista e opportunista, ribelle e camaleonte, protagonista e millantatore, in diversi momenti della sua esistenza, da lui stesso avvolta in un alone di ambiguità. Non tutti i suoi biografi hanno però accettato il giudizio di Antonio Gramsci, che gli attribuiva «uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità, uno snobismo camaleontesco». Franco Vegliani, che nel 1957 pubblicò la prima biografia di Malaparte, lo giudicava «uno degli uomini più coerenti che mai mi sia accaduto di incontrare», coerente perché rimase sempre fedele al personaggio «che aveva voluto, o accettato, di essere». Tale giudizio, tuttavia, prescindeva dalla verifica delle credenziali autobiografiche di Malaparte, che dopo il 1943 aveva riscritto continuamente il racconto della sua vita, trasfigurandola con invenzioni, esagerazioni e bugie, per dare di sé l'immagine di uno spirito libero, impavido, ribelle, spregiatore dei potenti e paladino degli umili.

Di questo apologetico autoritratto poco è sopravvissuto alle indagini dei suoi biografi più recenti, non sedotti dal fascino dell'affabulatore afflitto da narcisismo acuto, ma neppure condizionati dalla pregiudiziale moralistica che per lungo tempo ha gravato su Malaparte, molto più di quanto non sia accaduto per altri, numerosi intellettuali che come lui vissero nel fascismo e con il fascismo (e spesso anche del fascismo), ma furono lesti ad attribuirsi, caduto il fascismo, un passato antifascista o afascista. Solo un decennio dopo la sua morte, nel 1968, con un saggio di Gianni Grana, fu avviata una valutazione critica dello scrittore, disincagliandola dal giudizio moralistico sull'uomo, che pure non era un giudizio privo di ragioni.

Cominciò Giordano Bruno Guerri nel 1980 a sfrondare la vita di Malaparte dalla leggenda autobiografica: «Sono pochissime le cose che comunemente si sanno di Malaparte che siano davvero andate come lui ha tramandato», osservava Guerri narrando la vita di «un personaggio molto meno drammatico, epico e favoloso di quanto egli si è fatto credere», ma anche «meno ambiguo e scandaloso di quanto gli viene attribuito." Quasi venti anni dopo, nel 1998, Giuseppe Pardini ha cercato di mettere in risalto la coerenza del percorso ideologico e politico-culturale di Malaparte, definendolo un «esteta della politica» importante «per comprendere pienamente molte delle posizioni, delle istanze morale, sociali e culturali, espresse dal fascismo». Anche il più recente biografo di Malaparte, Maurizio Serra, ha rintracciato nella sua vita e nella sua opera «la coerenza intima e la modernità» di un «interprete profetico della decadenza del l'Europa di fronte alla nuove potenze globali (Urss, Stati Uniti, Cina) e alle ideologie di massa: fascismo, comunismo, terzo-mondismo».

In un corposo e composito volume (oltre 600 pagine), Serra racconta la vita di Malaparte intrecciandola con la valutazione critica della sua opera, mostrando come l'una e l'altra fossero dominate da un persistente e straripante culto di sé e del l'immagine che Malaparte volle tramandare di sé stesso come un eroe rappresentativo della propria epoca, osservatore e testimone spregiudicato di un'Europa corrotta e decadente, travolta da guerre e rivoluzioni, fatalmente condannata al disfacimento della propria civiltà. L'Europa di Malaparte, come appare nei suoi libri più letti Kaputt e La pelle, e come è descritta nei frammenti dell'ultimo romanzo appena abbozzato, Mamma marcia, era un cadavere marcescente che non poteva essere salvato: «L'Europa non è che una famiglia d'assassini, di ruffiani, di vigliacchi. Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo... È finita, ormai, è un continente marcio. Ha già i vermi, è coperto di vermi».

Ponendo al centro della sua interpretazione il tema della decadenza dell'Europa, Serra ha dato maggiore risalto alla originalità dell'opera di Malaparte, che egli giudica «un grande scrittore e un uomo, malgrado tutto, superiore alla sua reputazione». Tuttavia, dopo la sua puntigliosa verifica, nulla è rimasto delle bugie e delle esagerazioni con le quali lo scrittore aveva trasfigurato la sua vita. Per questo aspetto, la biografia di Serra può considerarsi forse definitiva, tale, cioè, da consentire di proseguire l'esame critico dello scrittore senza doversi porre nuovamente le domande alternative sull'uomo.

(di Emilio Gentile)

lunedì 18 luglio 2011

PAOLO BORSELLINO

Nazisti senza prescrizione


Il Tribunale militare di Verona ha condannato all'ergastolo sei ufficiali, sottufficiali e soldati della Panzer-Division 'Hermann Goering' che nel marzo-maggio del 1944, quando i tedeschi erano in ritirata, incarogniti per il tradimento dell'alleato italiano che, in un momento cruciale della guerra, mentre si lottava per la vita o per la morte, li aveva pugnalati alle spalle passando dalla parte dei probabili vincitori, si rese responsabile, sull'appennino tosco-emiliano, di alcuni atroci eccidi di civili. I condannati sono tutti ultranovantenni, tranne il più giovane, il caporale Alfred Lhuman, oggi taglialegna in pensione, che ha 86 anni e all'epoca dei fatti ne aveva venti. Da allora sono passati infatti quasi settant'anni (quanto vivono questi nazisti, solo i partigiani gli stani pari).

Confesso che processi di questo genere, come altri che si sono celebrati nei confronti di criminali nazisti, mi lasciano perplesso. Non metto qui in discussione che il Tribunale di Verona, sia pur a tanti anni di distanza, sia riuscito a individuare con esattezza chi, in quei tragici frangenti, uccise e chi no. Non si tratta di questo. È che prima che, con la vittoria del 1945, si affermassero le democrazie occidentali, vale a dire la 'cultura superiore', non si erano mai visti nella Storia processi celebrati a settant'anni di distanza dai fatti, tantomeno per 'crimini di guerra', una categoria di reati, con efficacia retroattiva, nata con i processi di Norimberga e di Tokyo quando i vincitori non si accontentarono di essere i più forti ma pretesero di essere anche moralmente migliori dei vinti e quindi tali da poterli giudicare, invece di passarli per le armi come era stato fatto fino ad allora.

Per quanto si vada a scavare nel tempo e nelle varie storie e culture non si trovano precedenti. Forse l'unico è quello che riguarda Giulio Cesare che nel 63 a.C. volle trascinare in tribunale, per certi suoi motivi, il vecchio senatore Rabirio che nel 100 a.C. aveva partecipato al linciaggio del tribuno della plebe Aurelio Saturnino. Il tribunale competente in appello (in primo grado Rabirio era stato condannato) erano i comizi centuriati, una giuria popolare che certamente non aveva nessuna simpatia per un aristocratico come Rabirio che, per giunta, aveva ucciso uno dei loro. Ma il popolo si dimostrò saggio, 37 anni di distanza dai fatti gli parevano troppi. Con uno stratagemma si fece in modo che il processo non si celebrasse.

Anche a me settant'anni, o quasi, sembrano troppi per istruire un processo contro chicchessia. La prescrizione è sempre esistita, anche per il più orrendo dei reati. Ma i vincitori hanno deciso che per i crimini dei nazisti non c'è prescrizione. Su questo punto ci sarebbe da discutere perché viola il fondamentale principio di civiltà giuridica per cui la legge penale non può essere retroattiva. Che è uno dei motivi per cu il giurista americano Rusten Vambery, liberale (quando i liberali esistevano ancora e non erano le parodie di oggi), in un articolo pubblicato il 1 dicembre del 1945 sul settimanale The Nation, contestava la legittimità del processo di Norimberga:" Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati o fucilati dal potere politico e militare non c'è bisogno di dirlo: ma questo non ha niente a che vedere con la legge. Giudici guidati da 'sano sentimento popolare', introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro… ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerava legge".

Ma in fondo, oggi, nemmeno queste considerazioni sono importanti. Il fatto è che il processo di Verona contro dei fantasmi più che il sapore della giustizia ha quello amaro della rappresaglia. Proprio quella rappresagli in nome della quale, tante volte, abbiamo condannato i nazisti.

(di Massimo Fini)

Attenti, cari politici furbetti: qua tira l'aria del 1992


Attenzione alla rabbia dei moderati. Dovrebbero considerarla molto seriamente i nostri cari (nel senso del loro costo) parlamentari e ministri. L’indignazione sta montando sempre di più nel Paese.

Evidentemente nei palazzi romani non se ne rendono conto, ma chi vive fra la gente comune ne ha un fortissimo sentore già da alcuni giorni, precisamente da quando si è precisata, nei suoi contorni pesantissimi, la manovra di correzione dei conti pubblici.

E’ un clima che ricorda moltissimo quello che si avvertiva nel 1992. Fu la rabbia del ceto medio che allora fece da detonatore facendo saltare per aria la classe politica della prima repubblica.

Oggi ciò che fa indignare non è il pur salatissimo costo – 80 miliardi di euro in quattro anni - della manovra economica. La necessità di farla, accollandosi dei sacrifici, è evidente a tutti e gli italiani non sono sciocchi irresponsabili. Sanno che bisogna tirare la cinghia e si sono sempre dimostrati pronti a farlo, sia pure con qualche mugugno, per salvare la “nave Italia”.

Quello che non riescono a digerire è l’atteggiamento della classe politica. A loro avviso mentre la cosiddetta “casta” impone pesanti sacrifici al paese, soprattutto i sacrifici più odiosi che vanno a gravare sui malati, sulle famiglie con figli, sui pensionati, sul terzo settore e l’istruzione non si mostra disposta a dare alcun segnale di partecipazione a questo sforzo nazionale e anzi sta attaccata con le unghie e con i denti a dei propri privilegi anacronistici.

Non che la gente dia ascolto al qualunquismo e allo sfascismo di certi demagoghi. Siamo un popolo realista e nessuno s’illude di ripianare il debito pubblico dimezzando le retribuzioni dei parlamentari. Così come nessuno pretende una classe politica fatta di virginali suore orsoline e asceti penitenti.

Tuttavia nessuno capisce perché mai dobbiamo avere i parlamentari più pagati d’Europa, oltretutto sapendo che hanno un carico di lavoro che li impegna solo qualche giorno la settimana, mentre evidenziano una preparazione media sotto la sufficienza.

Nessuno comprende perché debbano essere così tanti (i parlamentari) quando – considerate le altre democrazie – il loro numero potrebbe essere tranquillamente dimezzato, né si capisce come possano pretendere di usufruire di una sequela di immotivati e costosissimi benefici, a cominciare dalle pensioni facili (oltretutto non sono neanche stati scelti dagli elettori con le preferenze).

Così come nessuno comprende perché il presidente della provincia di Bolzano debba guadagnare più del presidente americano Barack Obama e un consigliere regionale italiano debba percepire più del governatore di New York (che è tra i più pagati degli Stati Uniti) o perché i nostri parlamentari europei siano tra i più remunerati del parlamento di Strasburgo o perché dobbiamo tenerci il costoso carrozzone delle province che servono solo ad ampliare il ceto politico degli amministratori che è già troppo vasto.

Se davvero siamo sul “Titanic” e rischiamo di fare la stessa fine – come dice il ministro Tremonti – tutti dovrebbero collaborare alla salvezza.

Dunque ragionevolezza, realismo e senso della decenza avrebbero dovuto consigliare un drastico taglio fatto dalla classe politica al proprio stesso costo. Sarebbe stato solo un segnale simbolico? Anzitutto quando i popoli passano brutti momenti e si chiede uno sforzo di coesione nazionale, anche i segnali simbolici di rigore e serietà sono importanti (come dimostra la storia). Inoltre sarebbe stata una dimostrazione di responsabilità, di intelligenza e di doverosa equità.

Invece non se ne parla nemmeno. L’idea di diminuzione dei parlamentari – sempre vagamente ventilata – resta nel libro dei sogni. La proposta di decurtare le loro retribuzioni o cancellare la loro incredibile previdenza viene accolta con pernacchie. Invece di fermare subito il continuo aumento dei costi di gestione di istituzioni come la Camera dei deputati rimandano tutto alle calende greche. Che è un modo per non farne nulla.

Sappiamo poi – lo ha raccontato benissimo su queste colonne Franco Bechis - come sono state bombardate a tappeto le proposte “rigoriste” di Tremonti, da quella – veramente minima – che proibiva i doppi incarichi (c’è chi cumula la carica di parlamentare con quella di sindaco o presidente di un’amministrazione provinciale) alla liberalizzazioni delle varie professioni, come quella degli avvocati. I quali avranno avuto anche delle ragioni, ma la reazione degli avvocati-parlamentari è apparsa a tutti odiosa.

Ad abolire le province del resto neanche ci provano… Le persone comuni hanno la sensazione di una casta – che è considerata (a torto o a ragione) di sfaccendati - che si mostra sempre prontissima nella difesa dei propri privilegi, mentre impone durissimi sacrifici a chi non può difendersi.

Anche sacrifici veramente ingiusti, lesivi dell’interesse nazionale, come il taglio delle (già esigue) detrazioni per i figli a carico, cosicché l’Italia, che ha già la maglia nera per le politiche familiari e ha il record della denatalità, correrà ancor più speditamente verso l’estinzione. Puniamo l’istituzione famiglia che ha il merito di averci fatto resistere alla crisi?

C’è persino qualche dettaglio che sembra sia stato pensato con la deliberata intenzione di accrescere l’indignazione “antipolitica”. Come l’aggravamento delle pene pecunarie previsto per chi attacca manifesti pubblicitari fuori dagli spazi e dalle regole, aggravamento delle pene da cui però sono stati esentati i manifesti politici (che poi sono la maggior parte dei manifesti abusivi).

Di questa situazione sono responsabili tutti, anzitutto forse di governo, ma anche di opposizione. Infatti la rabbia della gente – che capisce al volo come stanno le cose è generalizzata, verso tutti. Però oggi la si percepisce più fortemente proprio in quel corpaccione del ceto medio che perlopiù vota i partiti moderati.

Così il centrodestra potrà vantare il merito – di enorme importanza – di aver salvato i conti pubblici e il futuro del Paese, ma –come il pentapartito nel 1992 – sta seriamente compromettendo il rapporto di fiducia con la sua base sociale.

Nelle gravissime tempeste finanziarie del 1992-1993 fu il pentapartito che salvò il paese dal crollo, con misure drastiche come la manovra di Amato da 90 mila miliardi di lire e quella successiva di Ciampi, ma lo fece con delle modalità (penso al prelievo forzoso sui conti correnti e alla minimum tax) che suscitarono indignazione per l’iniquità (nel primo caso) o (nel secondo) interpretarono male la situazione sociale del Paese: vi fu infatti il crollo del consumi privati del 2,5 per cento (il dato peggiore dal dopoguerra), il crollo del pil dell’1,2 per cento, quello del 20 per cento degli investimenti in macchinari e attrezzature, chiusero centinaia di migliaia di partite Iva e si ebbero 611 mila posti di lavoro in meno.

Tutto questo accadeva proprio mentre emergeva il fenomeno del finanziamento illegale dei partiti (spesso la corruzione) e il perverso “effetto tangenti” sull’economia nazionale in quegli anni veniva quantificato in dimensioni colossali.

La frattura che si produsse con le rispettive basi sociali portò alla delegittimazione morale dei partiti che a quel punto poterono facilmente essere spazzati via dalle inchieste giudiziarie.

Sulle loro ceneri e in polemica con le degenerazioni del “ceto politicante” e con il peso della politica e dello Stato sulla società, nacque nel 1994 una nuova compagine di centrodestra, che da Berlusconi, alla Lega ai post-missini aveva un forte accento “antipolitico”, così come forti accenti “antipolitici” sono presenti nel centrosinistra.

Si sperava dunque che fosse questa classe dirigente a riformare il sistema e alleggerire il peso della politica. Ma non l’ha fatto. Potrebbe e dovrebbe farlo almeno oggi, per giustizia, nelle attuali ristrettezze finanziarie. Se non ora, quando?

(di Antonio Socci)

Padre Pio è scappato dalla sua tomba d’oro

Padre Pio ha compiuto un miraco­lo a rovescio e a sue spese. Da quando l’hanno imbottito d’oro in una tomba faraonica, il pellegrinaggio dei devoti è crollato. Stimmate di rabbia e di dolore avranno ripreso a sanguina­re al burbero e schivo frate cappucci­no. Jatavenne , avrà detto nel suo ruvi­do gergo. Padre Pio è a disagio in quella cripta d’oro che sembra il caveau della banca mondiale, circondata da un business osceno, un’ottantina di alberghi or­mai vuoti, una marea di statue kitsch diffuse ovunque e in particolare a Sud, pompe di benzina incluse, più pile di superstiziosi gadget ormai invenduti. A San Giovanni Rotondo l’oro di Pa­dre Pio è crollato in borsa. La gente pre­ferisce visitare il vecchio sepolcro vuo­to piuttosto che quella cripta da Pape­rone estesa quanto una trentina di ap­partamenti.

Per carità, ha ragione il mio amico Frate Antonio Belpiede, portavoce dei frati, che l’oro ha sempre gremito le chiese e i culti. Ma nella Chiesa fatta da Renzo Piano non si respira il sacro, non si avverte il santo,non c’èspiritua­lità e religione. E un francescano me­dievale come Padre Pio non può finire in una roba asettica da Manhattan o nella riserva aurea di Fort Knox. Così Padre Pio è scappato dalla sua tomba, disperdendo anche i suoi fede­li. Andatelo a cercare nelle campagne e nei silenzi assolati del sud, tra i poveri e nei ricoveri, nelle chiese agresti e nel­le cattedrali antiche, nei corpi malati, nei cuori devoti e nei cieli gloriosi. Non lì, nella cripta d'oro. Non prendete la fe­de per il loculo.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 14 luglio 2011

Dove va la Nuova destra


Il domani appartiene al Noi. Tale il titolo del libro scritto da Federico Eichberg e Angelo Mellone, il cui sottotitolo scandisce 150 passi per uscire dal presentismo (Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, pp. 180, 14 euro). Un sottotitolo che suona come una sacrosanta promessa: non c’è dubbio che sia necessario uscire dalla “deriva presentista” fatta di piccoli e bassi egoismi, di mancanza di capacità di comprendere il passato e di progettare il futuro, di voglia di apparire e di possedere senza nessun riguardo per l’essere (vi ricordate del vecchio Erich Fromm?), di bisogno di “visibilità” e di effimero.

Ma rivelatore è il titolo, parafrasi del verso conclusivo di un canto per certe persone e in certi ambienti molto rivelatore e dannatamente serio. E più ancora il Prologo, segnato da due sentenze, la prima delle quali appartiene a don Giussani (e fin qui...) e la seconda a uno – ebbene, sì! – dei miei più cari e venerati Maestri, il “fascista di sinistra” (quasi un fasciocomunista) Beppe Niccolai, leggendario deputato missino di Pisa degli anni Sessanta-Settanta rispetto al quale Bordiga era un liberista.

«Il domani appartiene a noi» era il verso finale ed entusiasticamente reiterato di una bella canzone, il cui testo ricordava, su una tastiera dall’elegiaco- romantico all’eroico, un Lied tedesco. Et pour cause. La sua musica era difatti quella di un bel canto eseguito da un ragazzo della Hitlerjugend, reso celebre fin dagli anni Settanta perché parte di una scena-chiave del film Cabaret.

In realtà, non apparteneva al vero repertorio nazista: s’intitolava Tomorrow belongs to me ed era stata composta dai due originali, formidabili autori della colonna sonora del film, John Kander e Fred Ebb.

Quella canzone, con un testo più o meno liberamente tradotto in italiano, divenne l’inno ufficioso dei “Campi Hobbit” della Nuova destra che s’ispirava – ma con molta originalità e libertà – ad Alain de Benoist e a quello ch’era allora il G.r.e.c.e. e che in Italia aveva trovato allora un leader prestigioso e carismatico nel poco più che ventenne Marco Tarchi, un brillante universitario lombardo naturalizzato fiorentino che, come capo dei giovani missini, aveva quasi soffiato a furor di popolo il posto al suo coetaneo Gianfranco Fini, il quale era stato tuttavia insediato d’autorità come delfino di Giorgio Almirante.

Quei ragazzacci scrivevano di letteratura e di musica; amavano Conrad, Melville e Kerouac; organizzavano concerti di rock alternativo; si dicevano nemici al tempo stesso del liberismo americano e del collettivismo sovietico. Non erano clericali e non facevano professione di cattolicesimo militante: ma puntavano a una «risacralizzazione della vita» e per questo il loro autentico nume tutelare era il Tolkien del Signore degli Anelli, il padre degli Hobbit sui quali avevano incentrato il mito fondatore della loro esperienza comunitaria e ai quali dedicavano i loro “Campi”.

Eichberg e Melloni sono tra i più intelligenti sostenitori d’una linea di recupero politico e intellettuale, all’interno del Pdl di almeno qualcosa dell’eredità della “Nuova destra”: alla quale si rifanno tuttavia solo implicitamente, con molta cautela e non senza reticenze. Ma è proprio questo il punto debole del comunitarismo del quale Eichberg e Mellone si fanno testimoni.

La “Nuova destra” tarchiana si era smarcata con decisione dai vecchi limiti e dalle vecchie frontiere tra “destra” e “sinistra”; aveva un taglio decisamente anti-occidentalista; non si occupava di mantener rapporti con la cucina politica del Belpaese; puntava con decisione a un nuovo «patriottismo europeo» che avrebbe dovuto superare l’impasse nel quale il continente era caduto in seguito ai patti di Yalta che lo avevano irrimediabilmente spaccato in due e condannato alla fine di ogni processo di unificazione che non fosse quello di Bruxelles/Strasburgo sorvegliato a vista da Washington e dalla Nato.

Il comunitarismo della “Destra nuova”, il “Noi” proposto da Eichberg e Mellone, punta a rispolverare il micronazionalismo italiano, tacendo del tutto sull’Europa, non dicendo una parola sui grandi problemi del mondialismo e della globalizzazione, parlando sì di comunità ma senza alcun accenno (in tempi di crisi morale e occupazionale dei giovani, in tempi di indignados) alla questione sociale.

Dove andava la “Nuova destra”? Senza dubbio nella direzione di un’identità etico-politica solida, incurante però di approdi politici realistici e concreti. Dov’è andata e dove continua per ora ad andare la “Destra nuova”? Nella direzione di scelte tattiche fondate sul recupero implicito e il più asettico possibile di valori comunitari che sarebbero in sé anche vino nuovo, se non venissero immessi nel vecchio otre di un nazionalismo italiano di stampo superficiale e convenzionale, che tace sui contesti europei e mondiali e che – non pronunziandosi – non disturba i manovratori del centrodestra occidentalista, atlantista, liberista: manovratori ancor in grado di spartire fettine della torta del potere, posti di sottogoverno, incarichi in enti e istituzioni statali, parastatali e privati.

Questo libro è un tentativo intelligente e non privo di spunti degni di discussione: il cui scopo ultimo è però quello di dare una risposta non scandalosa a una certa “nostalgia” non già del futuro, bensì del passato prossimo di una generazione di giovani ormai non più giovanissimi che da adolescenti hanno aderito al sogno di una “destra diversa”, in grado di uscire senza equivoci dal tunnel del neofascismo mantenendo una sua specificità che, nei “Campi Hobbit”, si era espressa nei termini del comunitarismo a forte connotato europeistico, sociale e – sul piano internazionale” – terzaforzistico.

Eichberg e Mellone, nonostante gli elementi di simpatìa e di affinità con l’esperienza dei Campi Hobbit ne restano estranei.

Nipoti dei missini micheliniani degli anni Cinquanta che sognavano la Grande destra con monarchici, liberali e democristiani conservatori, figli della “svolta di Fiuggi” che un buon trentennio più tardi ne portò qualche epigono al potere, essi hanno di fatto poco a vedere con don Giussani; e nulla con Niccolai, che li avrebbe presi (ed essi lo sanno benissimo) a parolacce pisane.
Loro scopo è dare una qualche anima a quel che resta dell’ostinata volontà di dirsi “di destra” da parte di giovani e d’intellettuali ai quali in realtà la “destra” è sempre andata stretta (specie da quando il liberal-liberismo l’ha decisamente egemonizzata), ma che sono in cambio ben consapevoli che in “quella” destra sussistono ancora e nonostante tutto possibilità di gestire un potere e di costruirsi delle carriere.

(di Franco Cardini)