Negli anni immediatamente precedenti alla cosiddetta «rivoluzione egiziana», Ala al-Aswani, romanziere, fra i fondatori del movimento d’opposizione Kilaya, scrisse una serie di articoli in cui lo sfacelo di un regime e la sua fine prossima ventura venivano analizzati e previsti con impressionante esattezza. Nello stesso periodo, nelle cancellerie occidentali e, più in generale, nei mezzi d’informazione a esse collegate nell’ottica di un cosiddetto interesse di governance internazionale, continuava a essere veicolato il mantra di un Egitto politico le cui pecche non inficiavano però la stabilità del suo governo né il ruolo di fedele alleato e baluardo contro ogni tentazione fondamentalista e antidemocratica. Le stesse leggi «d’emergenza», varate da Mubarak più di un ventennio prima e da allora mai abrogate, venivano disinvoltamente fatte passare per provvedimenti necessari a evitare il contagio estremista in una zona del mondo quanto mai calda, una sorta di democrazia messa a malincuore, ma a ragion veduta, sotto tutela per evitare il peggio... Più che un autocrate o un satrapo, l’ottantenne Mubarak veniva descritto come un anziano padre della patria, un po’ malandato nel fisico, ma fondamentalmente rispettato e amato dal suo popolo... Si sa come è andata a finire.
n termini politologici, l’Egitto non era una dittatura, ma un classico regime autoritario che nel mezzo secolo seguito alla caduta della monarchia, aveva sperimentato un leaderismo da capi carismatici, Nasser, pragmatici, Sadat e appunto Mubarak, alle prese comunque con un Paese a sua volta leader nel mondo arabo per dimensioni, storia, retaggio culturale. L’esistenza di un ceto medio consistente, medici, ingegneri, architetti, professori, scrittori quadri professionali, e quindi scuole, università, editoria, giornali, una forte apertura e commistione con il mondo esterno, una tradizione cosmopolita, avevano di fatto reso pressoché impraticabile una deriva completamente totalitaria, lasciando qui e là sacche di resistenza, libertà e diritti forali, garanzie individuali. Più che perseguitare sistematicamente e apertamente gli oppositori “borghesi”, il regime aveva preferito la strada delle blandizie e delle minacce, della legalità apparente che poteva anche trasformarsi in legalità sostanziale, ma sempre e comunque in virtù di un arbitrio dall’alto.
Consapevole che un tasso limitato di critica non erode il potere, ma semmai lo ammanta di liberalismo, il regime di Mubarak aveva insomma preferito tenere in vita i difensori delle cosiddette libertà borghesi, forte del fatto che il controllo della polizia, della magistratura, delle leve economiche gli garantivano comunque quello dell’intera nazione. Questo spiega perché Ala al-Aswani abbia potuto esporre opinioni fortemente critiche su quotidiani non allineati quali Al-Arabi, al-Dustour, al-Shorouk... E del resto, quando il tono delle critiche oltrepassava quello che dal regime era considerato il livello di guardia, non ci voleva molto per riabbassarlo: si cambiava la proprietà del giornale reprobo, si faceva licenziare un direttore troppo coraggioso, oppure lo si sfiniva attraverso processi e cause assurde.
Ciò che però manca alle autocrazie, specie nel loro trasformarsi in satrapie, governi familiari di padre in figlio, focolai di nepotismi e di cristallizzazione del potere, è la conoscenza del Paese reale. Persi e presi nei loro sogni di ricchezza, di accumulo e di relativo sperpero, catafratti nel loro chiuso universo di privilegi e di abusi, i suoi rappresentanti perdono il contatto con la realtà e questo finisce alla fine con il perderli. La rivoluzione egiziana (Feltrinelli, 263 pagine, 17 euro, traduzione e cura di Paola Caridi) di al-Aswani è illuminante proprio perché è un resoconto dall’interno di quel Paese reale altrimenti sconosciuto, è la denuncia delle angherie, delle umiliazioni, delle miserie e delle assurdità inflitte a un popolo a opera di un casta burocratico-militare. È la condivisione ad accomunare nella rassegnazione prima, nella reazione dopo. E quest’ultima esplode quando la crisi economica da un lato, il moltiplicarsi dell’inefficienza e dell’arbitrio dall’altro, segnano un punto di non ritorno: niente potrà essere peggio di quanto quotidianamente è stato già sperimentato.
Scriveva al-Aswani già tre anni fa: «Gran parte delle rivoluzioni della storia è cominciata con movimenti di protesta che non cercavano in fondo una rivoluzione, perché la rivoluzione non è uno slogan o un obiettivo prioritario, bensì una fase che una società attraversa in un momento dato, quando tutto diventa in predicato per esplodere. Noi siamo senza alcun dubbio in questa fase. Tutti gli egiziani sanno che il vecchio status quo non è più sostenibile né accettabile, e che il cambiamento è in corso, inevitabilmente».
Proprio per aver previsto ciò che è poi avvenuto, l’autore di La rivoluzione egiziana è in grado di analizzare con freddezza la situazione odierna a un anno dalla caduta di Mubarak. Sa bene che il governo dei militari che ne ha preso il posto non ha permesso una nuova costituzione, né ripulito le forze dell’ordine e la magistratura, né celebrato libere elezioni: in sostanza, che una rivoluzione è stata commissariata da un colpo di Stato... «Abbiamo sostituito un dispotismo con un altro» ha scritto sul Financial Times di qualche giorno fa, c’è ancora molta strada da fare per una vera legittimità democratica, ovvero popolare. La rivoluzione egiziana è anche il libro di un romanziere, di uno abituato a sceneggiare storie, caratterizzare personaggi, approfondire psicologie.
Dietro di esse c’è l’impianto di quel Palazzo Yacoubian che all’inizio del Duemila rivelò Ala al-Aswani agli egiziani e al mondo. In quel racconto a più voci delle tante esistenze presenti in un antico stabile del Cairo, era già presente la cartina di tornasole della società egiziana contemporanea: c’era il rispettoso e studioso figlio del portiere dello stabile, più bravo al liceo della media dei coetanei che lo abitano, che si vede sbarrare l’ingresso all’accademia di polizia dalla modesta condizione del padre e, per una sorta di rivalsa morale e sociale, finisce per ingrossare le milizie islamiche e morire in una delle tante azioni suicide. C’era la sua ex fidanzata, che impara a convivere con le molestie sessuali dei datori di lavoro, ma anche con il potere che le deriva dal suo corpo ben tornito. C’era il vecchio gaudente, nostalgico di Faruk e della società euro-araba della sua giovinezza, innamorato della femmina e però rispettoso della femminilità, e il maturo omosessuale, borghese e intellettuale, con il debole per i ragazzi del popolo. C’era l’affarista che si è fatto da solo e ora vuole entrare a tutti i costi in politica per essere ancor più socialmente legittimato e la giovane vedova che cerca nelle carni vecchie di un possidente quella sicurezza economica che la morte del marito le ha negato. Ciascuno di questi personaggi era insomma una sfaccettatura del moderno Egitto dove il malaffare politico, le ricchezze illegittime, le ipocrisie religiose, la corruzione estesa e la sfiducia nella classe dirigente e nelle istituzioni, l’estremismo e la difesa delle tradizioni contribuivano a creare una situazione di contrasti e di scontri, di speranze e di ribellioni, di delusioni e di volontà di cambiamento. Nelle sue tante esistenze individuali, Palazzo Yacoubian raccontava in fondo il fallimento della società politica egiziana e fotografava un Paese in cerca d’identità.
Dieci anni dopo, è saltato il coperchio del regime, ma solo il futuro potrà dirci se con esso è esploso il vecchio Egitto autocratico, familista, corrotto e corruttore.
(di Stenio Solinas)
n termini politologici, l’Egitto non era una dittatura, ma un classico regime autoritario che nel mezzo secolo seguito alla caduta della monarchia, aveva sperimentato un leaderismo da capi carismatici, Nasser, pragmatici, Sadat e appunto Mubarak, alle prese comunque con un Paese a sua volta leader nel mondo arabo per dimensioni, storia, retaggio culturale. L’esistenza di un ceto medio consistente, medici, ingegneri, architetti, professori, scrittori quadri professionali, e quindi scuole, università, editoria, giornali, una forte apertura e commistione con il mondo esterno, una tradizione cosmopolita, avevano di fatto reso pressoché impraticabile una deriva completamente totalitaria, lasciando qui e là sacche di resistenza, libertà e diritti forali, garanzie individuali. Più che perseguitare sistematicamente e apertamente gli oppositori “borghesi”, il regime aveva preferito la strada delle blandizie e delle minacce, della legalità apparente che poteva anche trasformarsi in legalità sostanziale, ma sempre e comunque in virtù di un arbitrio dall’alto.
Consapevole che un tasso limitato di critica non erode il potere, ma semmai lo ammanta di liberalismo, il regime di Mubarak aveva insomma preferito tenere in vita i difensori delle cosiddette libertà borghesi, forte del fatto che il controllo della polizia, della magistratura, delle leve economiche gli garantivano comunque quello dell’intera nazione. Questo spiega perché Ala al-Aswani abbia potuto esporre opinioni fortemente critiche su quotidiani non allineati quali Al-Arabi, al-Dustour, al-Shorouk... E del resto, quando il tono delle critiche oltrepassava quello che dal regime era considerato il livello di guardia, non ci voleva molto per riabbassarlo: si cambiava la proprietà del giornale reprobo, si faceva licenziare un direttore troppo coraggioso, oppure lo si sfiniva attraverso processi e cause assurde.
Ciò che però manca alle autocrazie, specie nel loro trasformarsi in satrapie, governi familiari di padre in figlio, focolai di nepotismi e di cristallizzazione del potere, è la conoscenza del Paese reale. Persi e presi nei loro sogni di ricchezza, di accumulo e di relativo sperpero, catafratti nel loro chiuso universo di privilegi e di abusi, i suoi rappresentanti perdono il contatto con la realtà e questo finisce alla fine con il perderli. La rivoluzione egiziana (Feltrinelli, 263 pagine, 17 euro, traduzione e cura di Paola Caridi) di al-Aswani è illuminante proprio perché è un resoconto dall’interno di quel Paese reale altrimenti sconosciuto, è la denuncia delle angherie, delle umiliazioni, delle miserie e delle assurdità inflitte a un popolo a opera di un casta burocratico-militare. È la condivisione ad accomunare nella rassegnazione prima, nella reazione dopo. E quest’ultima esplode quando la crisi economica da un lato, il moltiplicarsi dell’inefficienza e dell’arbitrio dall’altro, segnano un punto di non ritorno: niente potrà essere peggio di quanto quotidianamente è stato già sperimentato.
Scriveva al-Aswani già tre anni fa: «Gran parte delle rivoluzioni della storia è cominciata con movimenti di protesta che non cercavano in fondo una rivoluzione, perché la rivoluzione non è uno slogan o un obiettivo prioritario, bensì una fase che una società attraversa in un momento dato, quando tutto diventa in predicato per esplodere. Noi siamo senza alcun dubbio in questa fase. Tutti gli egiziani sanno che il vecchio status quo non è più sostenibile né accettabile, e che il cambiamento è in corso, inevitabilmente».
Proprio per aver previsto ciò che è poi avvenuto, l’autore di La rivoluzione egiziana è in grado di analizzare con freddezza la situazione odierna a un anno dalla caduta di Mubarak. Sa bene che il governo dei militari che ne ha preso il posto non ha permesso una nuova costituzione, né ripulito le forze dell’ordine e la magistratura, né celebrato libere elezioni: in sostanza, che una rivoluzione è stata commissariata da un colpo di Stato... «Abbiamo sostituito un dispotismo con un altro» ha scritto sul Financial Times di qualche giorno fa, c’è ancora molta strada da fare per una vera legittimità democratica, ovvero popolare. La rivoluzione egiziana è anche il libro di un romanziere, di uno abituato a sceneggiare storie, caratterizzare personaggi, approfondire psicologie.
Dietro di esse c’è l’impianto di quel Palazzo Yacoubian che all’inizio del Duemila rivelò Ala al-Aswani agli egiziani e al mondo. In quel racconto a più voci delle tante esistenze presenti in un antico stabile del Cairo, era già presente la cartina di tornasole della società egiziana contemporanea: c’era il rispettoso e studioso figlio del portiere dello stabile, più bravo al liceo della media dei coetanei che lo abitano, che si vede sbarrare l’ingresso all’accademia di polizia dalla modesta condizione del padre e, per una sorta di rivalsa morale e sociale, finisce per ingrossare le milizie islamiche e morire in una delle tante azioni suicide. C’era la sua ex fidanzata, che impara a convivere con le molestie sessuali dei datori di lavoro, ma anche con il potere che le deriva dal suo corpo ben tornito. C’era il vecchio gaudente, nostalgico di Faruk e della società euro-araba della sua giovinezza, innamorato della femmina e però rispettoso della femminilità, e il maturo omosessuale, borghese e intellettuale, con il debole per i ragazzi del popolo. C’era l’affarista che si è fatto da solo e ora vuole entrare a tutti i costi in politica per essere ancor più socialmente legittimato e la giovane vedova che cerca nelle carni vecchie di un possidente quella sicurezza economica che la morte del marito le ha negato. Ciascuno di questi personaggi era insomma una sfaccettatura del moderno Egitto dove il malaffare politico, le ricchezze illegittime, le ipocrisie religiose, la corruzione estesa e la sfiducia nella classe dirigente e nelle istituzioni, l’estremismo e la difesa delle tradizioni contribuivano a creare una situazione di contrasti e di scontri, di speranze e di ribellioni, di delusioni e di volontà di cambiamento. Nelle sue tante esistenze individuali, Palazzo Yacoubian raccontava in fondo il fallimento della società politica egiziana e fotografava un Paese in cerca d’identità.
Dieci anni dopo, è saltato il coperchio del regime, ma solo il futuro potrà dirci se con esso è esploso il vecchio Egitto autocratico, familista, corrotto e corruttore.
(di Stenio Solinas)
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