Nelle vetrine di Ferìn, la libreria cara all’ottocentesco Eça de Queirós come al novecentesco Fernando Pessoa, i titoli dei libri esposti sono un grido di dolore. A dividadura, la dittatura del debito, proclama il saggio a due mani di Francisco Louça e Mariana Mortágua, Debito pubblico e deficit democratico, rilancia quello di Paulo Trigo Pereira, Contro l’autoflagellazione è l’invito di Bonaventura de Sousa Santos...
Un anno dopo il diktat della Troika europea, Fondo monetario, Banca
Centrale e Ue, che in cambio di un pacchetto triennale di aiuti di 78
miliardi di euro aveva chiesto e ottenuto più tasse, libertà di
licenziamento nel settore pubblico, privatizzazioni a piovere, riduzione
dei salari e delle pensioni, tagli sociali, aumento delle tariffe dei
trasporti, raddoppio dell’Iva, l’impressione è che la cura da cavallo
inflitta ai portoghesi non avrà termine con il 2013, avrà bisogno di un
nuovo prestito, pena il fallimento, nel 2014, e rischia di ammazzare il
«cavallo» nel 2015. Oggi gli interessi sui buoni del Tesoro sono al 22
per cento (sopra il 7 per cento le agenzie di rating considerano uno
Stato economicamente inaffidabile), la disoccupazione è al 13 per cento,
non c’è crescita. Secondo Francisco Louça è una politica che porta «a
una nuova recessione, alla moltiplicazione del debito, alla distruzione
della produzione». De Sousa Santos è ancora più categorico quando
osserva che il Portogallo è vittima «dell’arma di distruzione di massa
del neoliberismo», ovvero «il capitale finanziario». Più che una moneta,
l’euro è una dannazione: «Cosa accadrà quando gli europei si
accorgeranno che a un cambio di governo non corrisponde un cambio di
politica? Cosa accadrà quando ci renderemo conto che Papademos, Monti e
Draghi hanno passaporti differenti, ma di fatto un’unica nazionalità,
quella di Goldman Sachs?».
Negli anni ’90 il Portogallo era, stando all’allora presidente dell’Unione Europea Jacques Délors, «il buon allievo dell’Europa». C’erano stati l’Expo ’98 di Lisbona, il Nobel della Letteratura a José Saramago nello stesso anno, poi i campionati europei di calcio del 2004, con la nazionale portoghese in finale... L’immagine polverosa, ereditata dal salazarismo, di un Paese povero, rurale, di forte emigrazione, aveva lasciato il posto all’urbanizzazione e a una società dei consumi che, grazie ai fondi strutturali dell’Ue, favoriva la crescita e insieme l’indebitamento. Il ritorno di Macao alla Cina, l’indipendenza di Timor Orientale nel 2002, ne avevano ulteriormente marcato l’ancoraggio continentale, eppure è dal Brasile, antica colonia e insieme paradossale madrepatria, che è venuto appena un anno fa un soccorso economico, è nella Cplp, la Comunità dei Paesi di lingua portoghese che ingloba le ex colonie africane, che ha trovato nuova linfa l’antico luso-tropicalismo salazariano, una sorta di patria intemporale che parla in portoghese a 200 milioni di persone, il sogno di Fernando Pessoa: «La mia patria è la mia lingua».
Ancora negli anni ’70 del ’900 lo scrittore Miguel Torge aveva
annotato nel suo diario: «Noi che siamo stati i nomadi del mondo,
dovremo d’ora in avanti essere le sedentarie comparse di un’Europa in
cui ci siamo sempre sentiti stretti e nella quale non abbiamo mai saputo
realizzarci. Partire era il nostro modo di emanciparci. Adesso la
nostra strada non sarà più quella della ricerca di vasti spazi dove
affermare ciò che ci era stato rifiutato nella culla, ma quella di una
scoperta interiore».
Basta girare per Lisbona per rendersi conto del paradosso di una
capitale imperiale e insieme terra di frontiera, «testa dell’Europa»
eppure «cafro d’Europa», patria malata e «patria enigmatica»,
l’imperialismo pessoiano come «fatto mentale»... Nel XIX secolo delle
colonie e delle conquiste, l’anacronismo coloniale del Portogallo è
qualcosa di cui gli stessi intellettuali portoghesi hanno perfetta
cognizione. Storicamente parlando, l’impero è morto tre secoli prima,
quel giorno d’agosto del 1578 in cui l’imperatore-bambino D. Sebastiao
scomparve nelle sabbie marocchine di Alcácer-Quibir. Da allora, il corpo
dell’impero non è stato altro che un «cadàver adiado», un cadavere
procrastinato, e quindi un impero materiale postumo, tutto da
reinventare, ma solo ormai in forma mitica e poetica. Quando nel 1890 il
Portogallo pensa d poter dire la sua nella spartizione africana unendo
Angola e Mozambico, e quindi Atlantico e Pacifico, è l’Inghilterra a
porre il veto con un ultimatum tanto protervo e scarno quanto efficace.
Di lì a un decennio la monarchia portoghese vedrà un duplice regicidio,
re ed erede al trono, e l’avvento della repubblica, e il Novecento darà
al Portogallo il primato dell’instabilità: 45 governi fra l 1910 e il
1926, assassinii politici e colpi di Stato.
Arroccata sull’estremo limes dell’Europa, a picco su un Oceano
Atlantico che è scoperta, viaggio, esplorazione, ma non culla di
civiltà, Lisbona ha nella settecentesca Praça do Comércio la
celebrazione di un destino che è anche una maledizione. La volle il
marchese di Pombal dopo il terremoto che aveva distrutto la città, ne
fece il simbolo di un popolo di navigatori che intanto era divenuto un
popolo di emigranti. L’Arco della Vittoria che la delimita sul fronte
della terra ferma ha per corona le statue dei navigatori illustri del
passato, ma è sulle pietre di quella piazza che re Carlos I e suo figlio
vennero assassinati in nome dell’anarchia e della repubblica. Fino
ancora a quarant’anni fa, studi e studiosi nordamericani classificavano i
portoghesi come l’unico gruppo di emigranti di un Paese europeo a cui
era rifiutata l’origine europea.
Nel suo Atlantico periferico (Diabasis), Boaventura de Sousa Santos,
prendendo gli shakespeariani Prospero e Calibano come simboli del
colonizzatore e del colonizzato, non può fare a meno di notare che il
Portogallo-Prospero era non solo calibanizzato nella sua realtà
continentale, ma meticcio per origine, finiva cafrizzato nelle sue
proprie colonie e semi-calibanizzato in quelle delle altre potenze
europee... Fuori luogo e fuori tempo, sempre e comunque.
Eppure, non è meno anacronistico il riposizionamento sull’Europa che
nel XIX secolo la «generazione del ’70» capitanata da Eça de Queirós
propugnò in saggi e romanzi e che come un fiume carsico arriverà alla
«rivoluzione dei garofani» del secolo successivo, nata per mano di
militari che non volevano più combattere per difendere un impero
coloniale che costava alla madre patria più di quello che rendeva.
Cosmopolita, amante della Francia e dell’Inghilterra, diplomatico di
carriera, Eça ne era perfettamente consapevole. I Maia, La colpa del
prete Amaro, L’illustre casa dei Ramìres, romanzi straordinari,
descrivono una nazione popolata da nobili decaduti e da politici
corrotti, dove l’ignoranza e il bigottismo la fanno da padrone e di là
dalle scimmiottature delle mode altrui e dalla retorica su un passato
glorioso non si sa andare. C’è un’identità e una specificità portoghese
che portano il Paese a essere comunque e sempre periferia dell’Europa,
una periferia atlantica senza un centro cui fare riferimento.
I Maia di Eça de Queirós è anche però un canto d’amore per Lisbona
dello stesso tenore di quello che, trent’anni dopo, Pessoa dedicherà, in
lingua inglese, alla città. Ancora oggi la pasticceria Cister e il
ristorante Tavares, il teatro de Trinidade e la Casa Havaneza, l’Hôtel
Central e i salotti del Gremio, le sale di Las Janelas verdes, divenuto
albergo, e che nel romanzo raffiguravano il Ramalhete, la casa della
dinastia dei Maia che dava il nome al romanzo, rimandano a una geografia
sentimentale, i quartieri di Rossio e di Chiado, che è la stessa della
Lisbona pessoiana.
La statua in bronzo di questo poeta dalle molteplici identità, che
campeggia davanti al caffè La Brasileira, si gemella con quella di
Queirós che non molto lontano avvolge una Verità femminile nuda e a
braccia spalancate. Fra i due, il monumento a Luis de Camöes, nella
omonima piazza, lega anche il cantore dei Lusiadi nella disperata
ricerca di un ubi consistam: «I portoghesi siamo d’Occidente/ andiamo
cercando la terra d’Oriente».
Frontiera in movimento, universalismo precoce. Dal 2001, con il Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, il Portogallo è anche il principale laboratorio critico della cosiddetta «globalizzazione alternativa e antiegemonica», ennesima rilettura di un rapporto incompiuto e della volontà di evadere da confini assegnati e segnati. Un altro modo per non rassegnarsi a «calzare troppo presto le pantofole dei pensionati della storia», secondo la formula di Eduardo Lourenço in Mitologia della saudade. E per pensare che se il Portogallo resta un problema, forse l’Europa non è la sua soluzione.
(di Stenio Solinas)
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