La domanda “chi è il Papa?” sorge spontanea ogni qual
volta è eletto un nuovo Pontefice, soprattutto quando il suo nome o la
sua storia personale sono ignoti al grande pubblico. Tale non fu il caso
del cardinale Joseph Ratzinger, romano di adozione, dopo tanti anni
passati come prefetto della congregazione per la Fede, ma tale fu il
caso di Karol Wojtyla, venuto da Cracovia, e lo è oggi di Jorge Mario
Bergoglio, giunto da una diocesi ancora più lontana, ai confini del
mondo, come egli stesso ha detto il giorno della sua elezione.
E’ comprensibile che nei primi giorni e settimane successivi all’elezione
si cerchi di scandagliare il passato prossimo o remoto del nuovo
Pontefice, di conoscerne le idee, le tendenze, le abitudini, per dedurre
dalle parole e dai gesti del passato il programma del nuovo
pontificato. Il volume El jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge
Bergoglio (Vergara, Buenos Aires 2010, a cura di Sergio Rubin e
Francesca Ambrogetti), delinea già il volto di un papabile, e merita di
essere conosciuto. Meno nota è la reazione indignata che a quel volume
ha dedicato uno studioso argentino di orientamento tradizionale, Antonio
Caponnetto (La Iglesia traicionada, Editorial Santiago Apostol, Buenos
Aires 2010). Né si potrà capire chi è il nuovo Pontefice, senza
conoscere il giudizio che di lui dà il padre Juan Carlos Scannone, un
gesuita, discepolo di Karl Rahner, che lo ha avuto come allievo e che
ascrive l’arcivescovo di Buenos Aires alla “scuola argentina” della
teologia della liberazione (la Croix, 18 marzo 2013).
L’“opzione preferenziale dei poveri” del card. Bergoglio si
radica in particolare nell’insegnamento di Lucio Gera e Rafael Tello,
gli esponenti di una “teologia del popolo”, caratterizzata dalla
sostituzione della prassi della povertà alla ideologia della rivoluzione
armata. Carlos Pagni, analizzando, sulla Nación del 21 marzo il “Método
Bergoglio para gobernar”, spiega la ragione teologica per cui la
“periferia” occupa il posto centrale nel paesaggio ideologico
dell’arcivescovo Bergoglio. I poveri per lui non sono una realtà
sociologica da aiutare, ma un soggetto teologico da cui apprendere:
“Questa attitudine pedagogica ha una radice religiosa: la relazione del
popolo con Dio sarebbe più genuina perché manca di contaminazioni
materiali”. Anche Maurizio Crippa sul Foglio del 23 marzo (La povertà è
un segno teologico, non sociologia) sottolinea questo aspetto,
ricordandone le remote ascendenze: “La posta in palio è sempre
trasformare la chiesa nel popolo dei poveri in cammino, meglio se
autoconvocato: dai Poveri di Lione, detti poi valdesi, a tutte le
correnti ortodosse o ereticali che attraversano il Medioevo, gli
Umiliati e Fra’ Dolcino, con deviazioni che arrivano fino a Tolstoj, e
su su in un percorso di spoliazione e rigenerazione che ritorna identico
dalle ‘Cinque piaghe della santa chiesa’ di Antonio Rosmini – la quinta
è proprio ‘La servitù dei beni ecclesiastici’ – alle teologie della
chiesa povera conciliari”.
Si tratta di temi che sarebbe utile approfondire. Ma in
fondo non è questo il punto. La vita di un uomo, anche di un Papa, non
si misura con i gesti del passato, cambia ogni giorno e ogni giorno può
essere azzerata da svolte, maturazioni, direzioni di cammino nuove e
impreviste.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.
Il primo colpo di questa flagellazione è stato la
rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI, un evento
canonicamente legittimo, ma dall’impatto storico devastante. “Un Papa
che si dimette – ha osservato Massimo Franco – è già un avvenimento
epocale, nella storia moderna. Ma un Pontefice che lo fa nel pieno delle
proprie facoltà mentali, indicando come motivazione semplicemente la
fragilità che deriva dall’età, spezza una tradizione plurisecolare” (“La
crisi dell’impero vaticano”, Mondadori, Milano 2013, p. 9).
Un secondo colpo all’istituzione è stata la scelta, da
parte di Benedetto XVI, di autodefinirsi “Papa emerito”, conservando il
nome e la veste pontificia e continuando a vivere in Vaticano. Canonisti
autorevoli, come Carlo Fantappiè, hanno rilevato la novità del gesto,
sottolineando come “la rinuncia di Benedetto XVI ha posto gravi problemi
sulla costituzione della chiesa, sulla natura del primato del Papa
nonché sull’ambito ed estensione dei suoi poteri dopo la cessazione
dell’ufficio” (Papato, sede vacante e “Papa emerito”. Equivoci da
evitare, in chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350457).
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?
Uno studioso di Storia del cristianesimo, Roberto Rusconi, ha
descritto da parte sua lo scenario dell’enciclica incompiuta di Joseph
Ratzinger sulla fede, dopo quelle già promulgate sulla carità e la
speranza. “L’enciclica non terminata, – osserva Rusconi – potrebbe
essere in seguito pubblicata alla stregua di qualsiasi altro testo di
Joseph Ratzinger, il quale durante il pontificato ha ripetutamente
sostenuto che i propri ultimi volumi in nessun modo dovessero essere
ritenuti espressione diretta del suo magistero pontificio” (Roberto
Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana,
Brescia 2012, pp. 143-144). Se ciò dovesse accadere, il risultato
sarebbe quello di minare alla base l’autorevolezza non solo dei
precedenti documenti promulgati da Benedetto XVI, ma anche quelli
emanati dal successivo Pontefice, perché si dissolverebbe la percezione
di ciò che è atto magisteriale e ciò che non lo è, frantumando quel
concetto di infallibilità, di cui tanto a sproposito spesso si parla.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.
Queste tesi sono state riproposte, sul piano teologico, in un recente libro
che il decano degli ecclesiologi italiani Severino Dianich ha dedicato
al ministero del Papa (Per una teologia del papato, Cinisello Balsamo,
San Paolo 2010). Il centro del discorso è il passaggio da una visione
giuridica della chiesa, basata sul criterio di giurisdizione, a una
concezione sacramentale, basata sull’idea di comunione. Il nodo del
problema risale alla discussione che si ebbe in concilio sulla
interpretazione del n. 22 della Lumen Gentium e sulla Nota praevia che a
questo documento seguì durante quella che i progressisti definirono la
“settimana nera” del Vaticano II. I rapporti tra il Papa e i vescovi,
dopo il Vaticano II, secondo Dianich, non possono più essere improntati
alla delega e alla subordinazione. Il Papa non governa “dall’alto” la
chiesa, ma la guida nell’ordine della comunione. Il suo potere di
giurisdizione verrebbe infatti dal sacramento e, sotto l’aspetto
sacramentale, il Papa non è superiore ai vescovi. Egli, prima di essere
pastore della chiesa universale, è vescovo di Roma, e il primato che
sulla chiesa universale esercita non è di governo ma di amore, proprio
perché, ontologicamente, come vescovo, il Papa è sullo stesso piano
degli altri vescovi. Per questo Dianich vorrebbe attribuire maggior
potere al collegio episcopale attribuendo a esso la possibilità di
legiferare autorevolmente. Il Papa dovrebbe esercitare il suo primato in
maniera nuova, associando al suo potere organi deliberativi o
consultivi, quali possono essere conferenze episcopali, sinodi, o
comunque organismi permanenti, che lo coadiuvano nel governo della
chiesa. Si tratterebbe di un primato di “onore” o di “amore”, ma non di
governo e di giurisdizione della chiesa.
Queste tesi però sono, in primo luogo, storicamente false.
La storia del papato non è infatti la storia di forme storiche diverse e
tra loro confliggenti, ma l’evoluzione omogenea di un principio di
suprema giurisdizione presente nelle parole di Gesù Cristo che a san
Pietro e a lui solo disse: Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò
la mia chiesa (Mt. 16, 14-18). Quando san Clemente (92-98 o 100), terzo
successore di Pietro come vescovo di Roma, agli inizi dell’impero di
Nerva (circa il 97), intervenne per ristabilire l’unità nella chiesa di
Corinto, sconvolta da una violenta discordia, si richiamò al principio
di successione stabilito da Cristo e dagli apostoli, esigendo obbedienza
e minacciando persino sanzioni qualora le sue disposizioni non
venissero eseguite (Lettera Propter subitas ai Corinzi, in Denz-H, nn.
101-102). Il tono autorevole della lettera e la venerazione con cui essa
fu accolta sono una prova chiara del Primato del vescovo di Roma alla
fine del primo secolo.
Circa dieci anni dopo, sant’Ignazio, vescovo di
Antiochia, durante il viaggio da Antiochia a Roma, dove fu martirizzato,
scrisse una lettera ai romani in cui riconosce alla chiesa di Roma una
posizione di preminenza sull’intera chiesa universale, affermando: “Voi
avete istruito gli altri ed io desidero che restino ferme quelle cose
che voi prescriveste col vostro insegnamento” (Epistula ad Romanos, 3,
1). La sua affermazione, tanto spesso citata a sproposito, secondo cui
la chiesa di Roma “presiede all’agape”, va intesa nel suo retto senso.
L’“agape”, non è generica “carità”, ma è, per Ignazio, la chiesa
universale (che egli per primo chiama cattolica), unita dal vincolo
dell’amore.
Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.
Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.
Il munus specifico del Sommo Pontefice non consiste nel suo potere di ordine,
che egli ha in comune con tutti gli altri vescovi del mondo, ma nel suo
potere di giurisdizione, che lo distingue da ogni altro vescovo, perché
solo nel suo caso questo potere è pieno ed assoluto ed è fonte del
potere degli altri vescovi. Il potere di Magistero fa parte del primato
di giurisdizione e l’infallibilità costituisce l’espressione più alta e
perfetta del Primato pontificio, una sovranità ancor più necessaria di
quella delle società temporali.
Il potere di giurisdizione è eminentemente potere di governo.
Il Papa è tale perché governa la chiesa esercitando una giurisdizione
dottrinale e disciplinare che non può delegare: non esiste infatti una
differenza tra il potere di governo e il suo esercizio, quasi
immaginando la possibilità di un governo la cui caratteristica sia
quella di non governare. L’essenza del papato ha in questo senso
caratteristiche immutabili: è un governo assoluto, che non può essere
delegato ad altri, né in tutto né in parte. Il papato è una monarchia
assoluta in cui il Sommo Pontefice regna e governa e non può essere
trasformato in una monarchia costituzionale, in cui il sovrano regna ma
non governa. Un cambiamento di tale governo non toccherebbe la forma
storica, ma l’essenza divina del papato.
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri
L’autorità e la forza degli Stati nazionali e delle
democrazie rappresentative si sbriciola e il vuoto è occupato da lobby
ideologiche e finanziarie, visibili e occulte. La chiesa cattolica dovrà
modellarsi su questo processo di polverizzazione, autodemolendosi? Di
fronte al relativismo, la chiesa dovrà accantonare l’infallibilità, come
chiede il pastore valdese Paolo Ricca (il Foglio, 19 marzo 2013), per
presentarsi al mondo debole e rinunciataria o non piuttosto servirsi di
questo carisma, che essa sola possiede, per contrapporre la sua
sovranità religiosa e morale alle macerie della modernità? L’alternativa
è drammatica, ma ineludibile.
Quel che è certo è che la domanda “chi è oggi il Papa?”,
prima che ai mass media va rivolta alla teologia, alla storia e al
diritto canonico della chiesa. Essi ci rispondono che, dietro le persone
di Benedetto XVI e di Francesco, esiste un trono pontificio istituito
da Cristo stesso. Papa san Leone Magno, che può essere considerato il
teologo più completo del papato nel primo millennio, spiegò con
chiarezza il significato della successione petrina, riassumendola nella
formula: “Indegno erede di san Pietro”. Il Papa diveniva l’erede di san
Pietro per quanto riguardava il suo status giuridico e i suoi poteri
oggettivi ma non per quanto riguardava il suo status personale e i suoi
meriti soggettivi. La distinzione tra l’ufficio e il detentore
dell’ufficio, tra la persona pubblica del Papa e la sua persona privata è
fondamentale nella storia del papato.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.
(di Roberto de Mattei)
Nessun commento:
Posta un commento