lunedì 10 ottobre 2011

Che c'importa di Jobs. E' meglio un bigliettino che spedire una mail


Caro Direttore, vedo che anche Il Giornale ha salutato con commozione la scomparsa di Steve Jobs e quindi sono sicuramente dalla parte del torto, ma un po' perché ci sono abituato e un po’ perché ormai ho un'età, mi permetti di dire, che, salvo restando il rispetto per il talento, per il dolore, per la morte etcetera etcetera, a me di Steve Jobs non è mai importato nulla.

L'altro ieri ho visto sul Corriere un «Addio Steve» a firma di Beppe Severgnini, con tanto di Jackson Browne usato come dedica poetica. Severgnini è uno specialista in epitaffi: tempo fa ne fece uno di Indro Montanelli con tanto di quadro a olio, lui e Indro insieme nella stessa tela, riprodotta sul quotidiano di via Solferino immagino per gentile concessione del diretto interessato vivente. Sarò irrispettoso, ma allora mi venne da ridere.

Adesso mi viene da ridere leggendo Severgnini che verga il suo omaggio commosso non nella Cremona natia, ma «nella luce lattiginosa di Sa Pa, Vietnam settentrionale, la Cina oltre un fiume, wi-fi che funziona, Mac Book Air sulle ginocchia». E mi viene da ridere leggendo Jovanotti che sulla Stampa saluta Steve Jobs come «l'eroe di chi crede che la vita finisce solo quando finisce, neanche un attimo prima». Non mi sembra una grande novità, ma non «penso positivo», non scrivo canzoni dove madre Teresa di Calcutta abbraccia Che Guevara, non vado da Fabio Fazio. E va da sé che darei tutti i reportage, di Severgnini e no, scritti con un Mac Book per uno solo di Montanelli o di Malaparte battuto a macchina, dettato ai dimafoni, telefonato, inviato per posta...

Per quel che poco che so, dobbiamo a Jobs i personal computer e i cellulari, schematizzo e volgarizzo, ma credo di rendere l'idea. Sommessamente dico che ne avrei fatto volentieri a meno, ma che comunque non mi hanno cambiato la vita più di tanto. Continuo a usare il computer come una macchina per scrivere che mi evita la brutta copia, continuo a maledire il cellulare, di cui ignoro ogni altra funzione, perché lo devo tenere aperto qualora dal giornale qualcuno mi cerchi per farmi lavorare (a volte succede).

È curioso che gli amanti dello slow food e della qualità della vita, gli spregiatori della globalizzazione e i difensori della privacy, gli adepti della bicicletta nelle metropoli e della lentezza del vivere, siano al tempo stesso i corifei della rete, dell’email, della connessione in tempo reale. Sarà anche vero che non è più l'epoca dell'aut-aut, del sì sì, no no, ma mai come adesso si vuole tenere insieme tutto, il sogno e la sugna, per intenderci.

Il bello è che, tornati dalle vacanze, senti quegli stessi dirti: «Che pace, ho spento il telefonino, staccato il computer, nessuno che mi rompesse le palle...» ma se è questo quello che vogliono, perché rendersi schiavi di un meccanismo che li sovrasta?

Mi dirai che la modernità ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Sono sufficientemente intelligente (non molto, ma sufficientemente sì) per capire che macchine e aerei, radio e televisioni fanno parte del nostro vivere quotidiano, ma il loro trasformarli in feticci non mi sembra un traguardo. Saremo anche al dominio della tecnica profetizzato da Spengler, ma non vedo che piacere ci sia nell'essere dominati.

Ieri la figlia di una mia amica mi ha detto che andava «in manifestazione perché vogliono chiudere Wikipedia. Si imparano un sacco di cose su Wikipedia» mi ha detto seria. «Per esempio il significato di una parola, come se fosse un’enciclopedia...». Il bello è che lei, in casa, le enciclopedie ce l'ha, più documentate, ovviamente, di Wikipedia, ma non le usa. Non sono alla moda ed è più faticoso cercare su un libro che cliccare. Solo che la vita, culturale e no, non dovrebbe avere come criterio principe la comodità. Se così sarà, non mi aspetto un grande futuro per le prossime generazioni.

«È il solito antimoderno», sento già le obiezioni. Ma ti confesso che gli innamorati tout court del progresso li trovo insopportabili. Facci caso, le cose più intelligenti e più profetiche sulla modernità le hanno dette e scritte i non moderni e sono loro ad aver lasciato un'impronta, un segno di diversità. E certo, indietro non si torna, ma bisognerebbe però chiedersi in nome di che cosa si debba andare avanti.

Leggo in Jovanotti che grazie a Jobs siamo passati «dall’analogico al digitale»: non so bene che cosa significhi, ma a me l'analogico, qualsiasi cosa sia stato, mi andava bene e non vedo perché mi debba riposizionare come digitale e in quanto tal andarne fiero. Continuo a leggere libri di carta e a sfogliare giornali di carta, penso che il bello di un film sia il vederlo al cinema, posseggo un cellulare ma solo perché sono un vile e non ho il coraggio di quel mio amico professore di scienza politiche che ha minacciato di denunciare la sua università al Tribunale dell’Aja per i diritti umani se si ostinava a volergliene imporre l’uso. E ancora, se devo ringraziare qualcuno gli scrivo un biglietto e sai benissimo che questo articolo è stato scritto con la stilografica e poi ricopiato al computer. Mi sono perso qualcosa? Sicuramente. Mi sono perso l’essenziale? Non credo proprio.

(di Stenio Solinas)

venerdì 7 ottobre 2011

Perché Steve Jobs non mi ha cambiato la vita


Vorrei spiegare per quali ragioni Steve Jobs non mi ha cambiato la vita (diversamente da quel che è accaduto a Jovanotti, a Beppe Severgnini e a quanto pare ad alcuni milioni di altre persone) e perché questo piagnisteo universale – da Obama a Filippo Rossi – sul genio che ci ha lasciati prematuramente, lasciando un vuoto incolmabile, mi sembra francamente esagerato e sospetto.

Bisognerebbe intendersi, per cominciare, sul concetto di rivoluzione applicato alla vita delle persone. Cos’è che ha realmente modificato l’esistenza quotidiana di miliardi di individui negli ultimi settant’anni, diciamo dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, in termini materiali e concreti, esonerandoli da incombenze e problemi secolari? Mi vengono in mente, a casaccio, la plastica e la lavatrice, e magari mettiamoci anche, giusto per apparire banali sino in fondo, gli antibiotici e l’elica doppia della molecola del Dna (che magari non sarà il “segreto della vita”, come si disse all’epoca della sua scoperta, ma insomma, un bel salto in avanti l’ha rappresentato). Non mi viene in mente, invece, l’attrezzo per ascoltare la musica mentre si corre o si sta seduti nel tram: rilassante e divertente, per carità, ma se non sbaglio c’era già prima di Jobs.

Intendiamoci, l’iPod, l’iPhone, l’iPad sono “fighissimi”, come dicono i miei nipotini: pieni di applicazioni, intuitivi, veloci, coloratissimi, ma già l’idea di un prodotto che cambia ogni anno e mezzo, che costringe milioni di persone a sbarazzarsi della versione “vecchia” per prendere quella appena lanciata sul mercato, più leggera di cinquanta grammi, dall’identico design ma più accattivante, che fa una cosa in più dell’altra ma ad una velocità maggiore, mi sembra una gran furbata commerciale: se la bulimia da consumo è un segno di cambiamento epocale, allora è vero, Jobs ha cambiato la vita di molte persone, rendendole però dipendenti non da una filosofia di vita quale non si era mai vista nella storia, ma da una strategia di marketing questa sì geniale e rivoluzionaria. La stessa che ha portato il Nostro a fare meglio, con più originalità e intelligenza, le cose che già altri facevano. E dunque a rendere esteticamente gradevoli e di più facile uso i personal computer. Ovvero a dare un nome proprio alle cose, a personalizzare con denominazioni intriganti e davvero easy oggetti altrimenti tutti eguali a se stessi e di solito aridamente marcati dai produttori: vuoi mettere la differenza tra chi ha l’iPhone (e per questa sola ragione pensa di appartenere ad una comunità di eletti) e chi, come il sottoscritto, possiede un Nokia-N95 avendo prima posseduto un Samsung SGH-S3000M.
Ma questo appunto è marketing creativo, peraltro con venature gnostiche: fa volare le quotazioni in Borsa, crea utenti fedeli e devoti ad un marchio che entrano negli Applestore come si trattasse di un tempio e non d’un normale negozio, ma è tutto da dimostrare che ciò renda l’umanità migliore.

Se il mondo intero sostiene che Jobs era un genio, mi riesce difficile argomentare il contrario. Accettiamo dunque che lo sia stato, sapendo però che lo stesso verrà detto – ancor più a ragione, a mio giudizio – per Bill Gates e Mark Zuckerberg; e sapendo altresì che gli altrettanto geniali inventori di Internet e della posta elettronica – strumenti senza i quali la storia di Jobs nemmeno sarebbe cominciata e la vicenda personale di ognuno di noi sarebbe stata per davvero differente – non se li ricorda nessuno: forse sono ancora vivi, ma se sono morti di sicuro non si è andati oltre un trafiletto in cronaca. Perché quello che colpisce nel caso di Job è appunto il rilievo mediatico di questa morte, prematura e largamente annunciata. E il fatto che il cordoglio planetario si stia appuntando non, come dovrebbe essere normale, su un capitano d’industria di vaste idee, perciò regolarmente definito “intraprendente” e “visionario”, che ha contribuito a creare un sistema di organizzazione aziendale, una tecnica di vendita e una forma di relazione con i consumatori in effetti diverse da quelle dei diretti competitori (che è poi la vera ragione del successo della Apple, come ben sanno gli esperti di cultura d’impresa), ma sul fondatore di una sorta di religione pop o light, su un capo setta che sembrerebbe aver lasciato orfani milioni di devoti inconsolabili.

Morire (relativamente) giovani e drammaticamente, secondo un’antica legge, è preferibile che tirare le cuoia nel proprio letto ad un’età veneranda, se si vuole accedere se non al mito almeno alla leggenda. E’ accaduto anche stavolta. Ma va anche detto che le uscite di Jobs in pubblico degli ultimi anni, dimagrito a causa del male, spartanamente abbigliato in nero come si conviene ad un guru che abbia già preso distacco dal mondo, solo sul palco come si conviene ad un predicatore che debba annunciare verità universali alle folle, hanno senz’altro contribuito a creargli attorno un’aura misticheggiante: una scelta anche questa – non si offendano i vertici di Cupertino – abilmente studiata a tavolino, con l’evidente obiettivo di trasformare ogni lancio di un nuovo prodotto, per solito indirizzato alla rete vendita dell’azienda e agli operatori del settori, in una celebrazione liturgica in mondovisione. Geniale e mirabile, senz’altro, ma sempre di marketing stiamo parlando, applicato a quanto pare anche post-mortem con non poco cinismo.

Se poi si aggiunge il vuoto emotivo e spirituale che caratterizza l’epoca nostra, il senso di solitudine universale che le invenzioni alla Jobs hanno paradossalmente alimentato a dispetto del convincimento che, maneggiando un pezzo di plastica colorato o toccando uno schermo (siamo una civiltà regredita alla tattilità), si sia tutti fratelli e amici in rete, a contatto con l’umanità intera in ogni momento della nostra esistenza, si capisce meglio il diluvio di banalità encomiastiche cui stiamo assistendo: le stesse già sentite per Lady Diana o Michael Jackson. Un mondo sempre più abitato da coscienze fragili e inquiete, alla disperata ricerca di figure e personalità esemplari nelle quali riconoscersi, forse farebbe meglio ad andare in chiesa a pregare, piuttosto che portare fiori o scrivere messaggi disperati a ricordo dell’idolo del momento asceso in cielo. Con tutto il rispetto, è morto un inventore con un grande senso per gli affari. Umanamente mi dispiace, ma né piango disperato né mi sento meno solo di prima. E tranquilli che l’umanità, tra alti e bassi, andrà avanti lo stesso.

(di Alessandro Campi)

martedì 4 ottobre 2011

Rivoluzionario nello stile ma conservatore nei costumi


Mai scrittori furono così presenti nel loro tempo, eppure così inadatti a esso, sempre irrimediabilmente in anticipo e sempre terribilmente in ritardo, rivoluzionari nello stile, ma conservatori nei costumi, reazionari per indole, ma progressisti nello spirito, appassionati di politica, ma incapaci di essere al servizio di altro che non fosse loro stessi... Testimone della fine di un mondo, di un cambiamento epocale che è poi all'origine della modernità, Chateaubriand attraversa Ancien Régime, Rivoluzione, restaurazione inseguendo una fedeltà individuale e di carattere che sfugga alle contingenze e non sia preda dei compromessi. Sismografo sensibilissimo degli umori e delle passioni che lo circondano, cerca di dare loro una forma e un senso che vadano di là dal momento, dagli schieramenti, dalle alleanze. Megalomane in un tempo di giganti, non si rassegna alla mediocrità, pubblica e privata, che di quelli prende il posto, crede solo nella grandiosità, individuale e collettiva. Ancora oggi la sua è una lezione di straordinaria attualità per chi voglia navigare a vista, non avendo più una bussola ideologica cui fare riferimento, fra i relitti del vecchio che scompare e i contorni del nuovo che fatica ad apparire, fra ciò che si era e ciò che si sarà, salvando il salvabile, osando qualche volta l'inosabile. Nelle transizioni, chi non si adegua è apparentemente lo sconfitto, ma, come insegna Chateaubriand, «l'orgoglio della vittoria mi è insopportabile».

Antimoderno è la definizione che meglio lo comprende e che naturalmente non ha niente a che vedere con l'etichetta di reazionari, conservatori, accademici, codini che negli ultimi due secoli ha colpito indiscriminatamente tutti quelli che non si facevano cantori della modernità.

Gli antimoderni sono un'altra cosa, siamo un'altra cosa. Non gli avversari del moderno, ma i suoi teorici, quelli che lo hanno pensato, gli emigrati dell'interno, gli «esuli in patria». E dunque i moderni loro malgrado, la retroguardia dell'avanguardia, i vitalisti disperati, i pessimisti attivi, la modernità più la libertà. Di criticarla. E naturalmente gli antimoderni sono, siamo, impolitici, ovvero tendono a subordinare la categoria del Politico a elementi estetici ed etici; quasi sempre stanno dalla parte degli sconfitti e quando gli capita di sedersi fra i vincitori è sempre per una causa che, come noterà l'autore delle Memorie d'oltretomba, «una volta portata al successo mi si rivolterà contro». Di estrazione nobiliare, Chateaubriand visse la Rivoluzione francese lacerato da un'insanabile contraddizione, tipica di chi è comunque “altrove” rispetto al proprio tempo. Da un lato l'assolutismo monarchico aveva finito con il privare di ogni contropotere l'aristocrazia del regno, riducendola a pura etichetta costretta a recitare a Versailles la realtà del cortigiano. Ciò spiega perché l'elemento nobiliare più avvertito dei rischi di una simile involuzione e più attaccato alla propria dignità perduta, vedesse positivamente la convocazione degli Stati Generali, cogliendovi l'opportunità di meglio bilanciare i poteri con un ritorno alle libertà. Dall'altro lato, la deriva egualitaria, l'istinto di rivalsa, il desiderio di fare tabula rasa del passato accelerarono talmente i tempi che il regicidio di Luigi XVI mise improvvisamente l'intera nobiltà, la più retriva e codina come la più avvertita e liberale e la più corrotta e cinica, nell'alternativa fra il sostenere il nuovo che al vecchio si sostituiva, ma così facendo rinnegare se stessa, oppure rifiutarlo, ma con ciò condannandosi a una battaglia di retroguardia.

Lo scegliere la seconda strada porterà Chateaubriand a far parte dell'emigrazione, e quindi dell'esilio, e alla lotta contro la Rivoluzione. Una scelta fatta in nome della fedeltà a un mondo, a una parola data, a uno stile di vita, a se stesso, insomma, nella consapevolezza però di ritrovarsi alleato agli elementi più deteriori, più ottusi e meno moderni della propria classe sociale, quegli stessi elementi che nell'accettare di appiattirsi supinamente sulla corona erano poi stati una delle cause del tracollo della stessa.

(di Stenio Solinas)

Stenio Solinas, "Da Parigi a Gerusalemme" per raccontare il suo maestro Chateaubriand


Questo nuovo libro di Stenio Solinas (Da Parigi a Gerusalemme. Sulle tracce di Chateaubriand, Vallecchi, pagg. 163, euro 15,50) offre a ogni pagina qualche momento intenso di piacere intellettuale. È un libro arioso, marino, che sa di vento e di vele. È il documento di una passione, è una confessione, è un ritratto letterario, è un discorso sul passato e sul presente, è un racconto di viaggio. Ed è la manifestazione sintomatica di quella «sindrome mimetica» senza la quale nessuno può scrivere un libro così.

Solinas racconta che compì 18 anni lo stesso giorno in cui trovò dal libraio Tombolini a Roma una copia antica di un libro di Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem. E quel libro e quell’autore gli confermarono che esiste uno spirito, un genio della giovinezza che nessuna ricorrenza anagrafica può cancellare. Cominciò a specchiarsi nel visconte bretone che fu insieme uomo di mare, scrittore, viaggiatore, ministro, ambasciatore. E oggi paga il suo debito di ammirazione e di identificazione con queste pagine. Nella prima parte, il libro è un bellissimo saggio sulla figura di Chateaubriand dal punto di vista non di un critico letterario, con tutte le sue distanze e astuzie, ma di uno scrittore che descrive uno scrittore attualizzandolo e calandosi appassionatamente in lui. E nella seconda parte racconta un itinerario per mare che segue le orme di quello compiuto dall’autore di Memorie d’oltretomba due secoli fa.

Chateaubriand, l’aristocratico che era sfuggito alla Rivoluzione e al Terrore viaggiando in Inghilterra e in America, tornato in patria e deluso da Napoleone, parte ora per l’Oriente. Va per raccogliere materiali per il romanzo storico ed epico che sarà I martiri, ma intanto dai suoi appunti esce un’opera che rinnova il genere stesso del libro di viaggio. Era stato un genere sottomesso alla scoperta scientifica e geografica per tutto il Settecento, ora invece comincia a raccontare sensazioni, emozioni, e quando esplora, esplora innanzi tutto l’ego dello scrittore.

Solinas, sia pure con aristocratica discrezione, si racconta nel corso di tutto il libro. Si proclama antimoderno come Chateaubriand, e sa che ciò vuol dire anteporre l’etica e l’estetica alla politica, amare la vitalità e non aver paura della disperazione, non desiderare comandare e non accettare di essere comandato (anche il conte Alfieri, che oggi purtroppo nessuno legge più, sentiva così). Sa che cosa vuol dire stare dalla parte degli sconfitti, il massimo della nobiltà dello spirito.

Il viaggio di Solinas avviene per mare, su uno sloop di 13 metri a un albero, con uno skipper di nome Gianpa, un tipo hemingwayano, dalle molteplici vite. Va da Trieste alle isole joniche e poi attraverso l’istmo di Corinto ad Atene, alle Cicladi e a Smirne, con l’approdo finale a Istanbul. La descrizione del viaggio è affascinante, niente lungaggini, nessun eccesso di dottrina, tutto viene fuori da dettagli, annotazioni di vita, riflessioni improvvise. Se per i profani Chateaubriand è il nome di una bistecca, Solinas non si tira indietro e offre indicazioni sul burro per condirla, sulla tecnica del taglio, sul posto migliore al mondo in cui mangiarla (per inciso, la Coffee Room del Travellers Club, a Londra). Una verità profonda è che l’ouzo non ha senso berlo lontano dalla Grecia. E una gioia per tutti noi che abbiamo avuto problemi ad adattarci alla società di massa è la risposta alla ragazza che da un motoscafo chiede una coca-cola: «Ma per chi ci ha preso?».

Il tono cambia nelle pagine dedicate a Gerusalemme. Chateaubriand volle essere Cavaliere del Santo Sepolcro. Solinas parla del Muro, dei campi profughi, della condizione dei palestinesi, con ammirevole equilibrio. Arriva al Mar Morto, e beve un sorso di quell’acqua nerastra perché l’aveva bevuta Chateaubriand. La sua sindrome mimetica è scoperta, vitale. Non ha l’immaginazione cattolica del suo modello, ma ne ama sino alla fine il gusto della sfida e dell’ignoto.

(di Giuseppe Conte)

domenica 2 ottobre 2011

Un milione di firme non significano voto anticipato


Il successo registrato dalla raccolta di firme per l'abrogazione della legge elettorale non può rimanere senza risposta dal Parlamento. Se le forze politiche si comportassero come se niente fosse accaduto, certificherebbero la loro condanna davanti al corpo elettorale una cui parte considerevole ha inteso inviare un messaggio inequivocabile a chi ha l'obbligo, a questo punto, di cambiare la legge elettorale, la peggiore della storia repubblicana.

In un Paese normale sarebbe lecito attendersi, senza ulteriori indugi, che i rappresentanti del popolo si dessero da fare immediatamente per esaudire un bisogno diffuso e limitare il discredito di cui godono nel Paese. Ma da noi, dove il più delle volte le indicazioni dei cittadini vengono aggirate o archiviate con protervia, è quasi sempre necessario ricordare ai partiti e ai gruppi parlamentari che il referendum è una cosa fin troppo seria per gabbarlo e non soltanto perché scritto nella Costituzione, ma come strumento principe della sovranità popolare. Dunque, se oltre un milione e duecentomila cittadini, in rappresentanza di un numero infinitamente più grande di non-firmatari perché impossibilitati ad esprimere il loro consenso sulla proposta abrogativa, si sono pronunciati per un cambiamento della legge elettorale, è bene che alla pressante richiesta si dia immediatamente seguito orientando la riforma nel senso indicato dai quesiti. Lo prescrive la legge, lo consiglia il buon senso.

A nessuno, insomma, venga in mente di eludere l'impegno immaginando la scorciatoia delle elezioni anticipate per non varare un provvedimento che taglierebbe (non radicalmente, purtroppo) le mani alla partitocrazia nella determinazione della composizione del Parlamento dove, nelle due ultime legislature, è stato convogliato di tutto, e non certo il meglio, grazie al potere di nomina delle segreterie dei partiti che del primato della scelta dei cittadini se ne sono bellamente fregati. Tutti, a cominciare da coloro che il «Porcellum» lo vollero fortissimamente e anche quanti finsero di avversarlo, oggi, unanimemente, chiedono un ritorno allo status quo ante o, quanto meno, ad una regolamentazione che giustamente riporti in una dimensione accettabile il rapporto tra eletto, popolo e territorio.

Perciò si lasci perdere l'idea di sciogliere le Camere, ipotesi irresponsabile di fronte ad una crisi economico-finanziaria che non può essere certo governata con i comizi e le contrapposizioni frontali in piazza, e ci si ingegni ad approvare una legge nella quale finalmente i cittadini possano vedersi riconosciuto il diritto di mandare in Parlamento chi vogliono. È curioso che siano stati negli ultimi giorni esponenti del centrodestra a vagheggiare il ritorno alle urne per evitare il referendum. Non so se i guai italiani gli abbiano fatto perdere la testa, certo è che non mi sembra abbiano più tanta voglia di ragionare di politica e siano piuttosto inclini a guardare il proprio ombelico.

Ma credono davvero che se si dovesse andare a votare tra pochi mesi, con questa legge, riuscirebbero a tutelare se stessi ed i loro famigli? Non sono sfiorati dal pensiero che andrebbero incontro, con tutto il loro schieramento, ad una disfatta dalle proporzioni colossali? E neppure immaginano che c'è bisogno di tempo per tentare di rasserenare il clima generale, fidando anche su una buona legge elettorale, possibilmente bipartisan, per poi affrontare una competizione che nelle condizioni attuali si trasformerebbe in un'ordalia? La speranza è che politici, altrimenti accorti, rinsaviscano. E tengano conto che il bene comune viene prima del loro «particolare». Diversamente l'ira del popolo potrebbe mettere fine bruscamente ai loro patetici sogni di gloria.

(di Gennaro Malgieri)

sabato 1 ottobre 2011

Buttafuoco risponde a Bocca: La Sua? Più che rabbia senile


Giorgio Bocca fascista, antisemita, partigiano, giornalista d'inchiesta, antibrigatista, scalfariano della prima ora e soprattutto antimeridionalista. Novantun'anni che sembrano due secoli, con tanto di passi avanti e dietrofront, giravolte e veleni. Tanti. Gli ultimi, i più letali, sputati nel documentario-intervista La neve e il fuoco contro il Sud dell'Italia e i suoi abitanti. Definiti, senza mezzi termini, "gente orrenda e repellente", in contrasto con "i paesaggi meravigliosi" del Mezzogiorno.

La risposta di Buttafuoco - "Non è una sorpresa", controbatte Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore nato nella meridionalissima Catania. "Me lo ricordo quando venne fuori il caso dei missili Cruise all'aeroporto di Comiso: in un reportage sulla Sicilia si abbandonò a quanto di più greve si potesse dire sulle popolazioni del Sud". In effetti, l'"antitaliano" Bocca il pallino del Sud Italia l'ha sempre avuto, sin dai tempi dei suoi viaggi-inchiesta per Il Giorno di Italo Pietra. Allora, certo meno di oggi, il trentenne cuneese già non dimenticava di sottolineare la propensione "naturale" dei meridionali al compromesso criminale e al clientelismo.

"Razzismo antropologico" - "Il suo - continua Buttafuoco - è un tic lombrosiano fondato su un razzismo biologico per tutto ciò che è meridione". Tutt'altro che "rabbia senile", insomma, "Bocca pensava le stesse cose anche quando era giovane". Tanto che nella prima metà degli anni Novanta fu uno dei primi ad aderire alla nascente Lega Nord di Umberto Bossi. Per poi pentirsene poco dopo, quando il Senatur fece da terza gamba per la discesa in campo di Silvio Berlusconi. "Sì, ma la Lega predica male e razzola bene", aggiunge Buttafuoco. Come a dire, le invettive 'antiterun' di Bossi e Calderoli o le corna da vichinghi di Pontida non sono nulla in confronto al "razzismo antropologico piemontese che viene fuori dai pregiudizi di Bocca". Pensieri da "frequentatori di osteria altoborghesi", aggiunge il giornalista di Catania, "da gente che si crede antropologicamente superiore". Ma, minimizza, "quelle di Bocca sono solo parole, nient'altro che parole".

(di Lidia Baratta)

Bocca dei veleni: Sud orrendo, Travaglio pessimo, br simpatici


Giorgio Bocca, superata la soglia dei novantun’anni, ha assunto tratti egizi. Assiso come una faraone su uno scranno della sua casa di Milano, sul volto una pelle di pergamena, ha traslocato dalla casta degli scribi in quella dei sommi sacerdoti: ogni frase è anatema, maledizione ancestrale. Il 3 ottobre sarà presentato La neve e il fuoco, documentario di Maria Pace Ottieri e Luca Musella per Feltrinelli Real cinema che consiste in un’intervista al giornalista di oltre un’ora. Una celebrazione dell’uomo divenuto una divinità dell’antiberlusconismo. Poche settimane fa, il Fatto quotidiano lo ha interpellava come fosse un aruspice; persino Repubblica, di recente, lo ha richiamato dalle catacombali rubriche sull’Espresso e il Venerdì, dov’era confinato a mo’ di reliquia, per scucirgli un paio di editoriali.

Per tutta risposta, il faraone Boccankhamon incenerisce l’Italia intera, anche quella che lo idolatra in virtù del suo odio per il Cavaliere. Nella sua insofferenza per la modernità, egli è l’ultimo discepolo di Julius Evola, convinto di abitare nell’età del Kali Yuga, l’era oscura che precede la fine dei tempi. Nella nostalgia feroce per un arcadico passato potrebbe ricordare Pasolini, se non fosse che lui PPP proprio non lo tollera. «Avevo paura di Pasolini, della sua violenza», racconta. «Pasolini è morto perché, la rigirino pure come vogliono, era di una violenza spaventosa nei confronti di questi suoi amici puttaneschi». A infastidirlo più di tutto, però, c’è il fatto che lo scrittore era omosessuale: «Poi mi dava noia questo: ho un po’ di omofobia, che poi è una cosa militare, come i bei fioeu va a fer il solda’ e i macachi resta a ca’, i macachi restano a casa. Il mio concetto piemontese è che gli uomini veri vanno a fare il soldato. Quindi anche questa faccenda dei suoi rapporti con questi poveretti che manipolava...». Il gay macaco gli resta sul gozzo.

SCALFARI, FEDE E FALLACI

Non che vada meglio ad altri venerati maestri progressisti. Chissà che pensano a Repubblica della posizione di Bocca su Natalia Ginzburg: «Secondo me sopravvalutata in maniera incredibile. Io leggevo i suoi libri e non riuscivo a capire perché era una scrittrice famosa. Lessico famigliare lo trovavo una cosa elementare (...). Si sentiva che anche lei era una di razza, ma era anche una furbona, una che sapeva come coltivare il suo orto». Cesare Pavese, invece? «Come scrittore a me sembrava pessimo». Ai giornalisti va peggio. Eugenio Scalfari resta un direttore inarrivabile, ma già quando si conobbero era «uno molto pieno di sé, che recita il potere». Gianni Brera era «un fetente, una carogna paracadutista. Sai, uno nasce carogna. Lui, come giornalista, ha fatto carriera facendo la carogna». Emilio Fede? Bocca lo ha presentato a Berlusconi. Dice di aver chiamato Confalonieri e avergli raccomandato il suo ex collega della Gazzetta del popolo. Gli disse di avere «un amico un po’ scemo, era stato processato come baro e condannato. Questo disoccupato, prendilo...».

La Fallaci, da lui soprannominata «Oliala Fallaci», era «una tutta letteratura e niente cronaca. Tutta la cronaca era inventata». Un giorno le ha prestato cinquanta dollari «e non li ho mai più visti». Le signore della penna, poi, avevano l’aggravante di essere femmine, uterine. Camilla Cederna? «Era la correttezza in persona. Purtroppo, nella vita ognuno può attraversare un periodo in cui perde la testa, cioè per le donne specialmente. (...) Di politica non sapeva niente, ma quando l’ha assaggiata se n’è invaghita follemente e ha dato veramente i numeri». In particolare, Camilla è impazzita per il caso Pinelli. Il quale «a un certo punto, ha perso la testa perché era spaventato dalle domande, da quegli interrogatori e si è buttato dalla finestra lui, non l’hanno buttato».

Sarebbe dunque logico che l’Uomo di Cuneo rivedesse la sua posizione sul commissario Calabresi, quella che gli fece firmare lo sciagurato appello promosso contro di lui. Col cavolo. «Pansa adesso mi ha rimproverato, ha fatto l’articolo su Libero, dicendo: caro Calabresi, stati attento, quel Bocca ha firmato quell’ignobile appello... Per niente ignobile, perché il signor Calabresi era un poliziotto, reazionario estremo, un nemico del movimento. Perché devo chiedere scusa? Ho firmato quell’appello perché Calabresi era parte delle trame nere, era d’accordo con il prefetto che ha sviato le indagini e ha fatto arrestare gli anarchici, quindi era un nemico». E sebbene sul suo giornale faccia intervistare il vecchio Giorgio a ripetizione, viene fulminato anche Marco Travaglio: «C’è stato un periodo in cui ero l’unico che facesse libri d’inchiesta. Oggi, invece, ogni giorno me ne arriva uno. Questi qui poi sono arrivati alla vergogna, fanno libri ignobili pur di uscire con un libro, hanno una squadra di persone che copia dai giornali e ne fanno un libro. Travaglio, ogni due mesi fa un libro. Ma come fai? Sono libri fatti coi ritagli della questura, dei tribunali, libri pessimi». A Bocca fa schifo pure il retroterra culturale dei suoi lettori, quelli della sinistra radical venuta dal ’68. Meglio le Brigate rosse di questi ultimi . «Erano più simpatici di quelli del movimento. Andavi a parlare con quelli del movimento studentesco: dei professorini, dei saputelli...». Quelli delle Br, invece, «li sentivo più vicini a me»

"NAPOLI CIMICIAIO"

Il culmine del disgusto, però, lo raggiunge quando si parla del Sud. Sin dalle prime volte in cui è stato nel Meridione, Giorgio ne è rimasto disgustato: «C’era sempre il contrasto fra paesaggi meravigliosi e questa gente orrenda (...). Insomma, la gente del Sud è orrenda (...). C’era questo contrasto incredibile fra alcune cose meravigliose e un’umanità spesso repellente». Una volta, per dire, si è trovato in una viuzza vicino al palazzo di giustizia di Palermo: «C’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie».

Non a caso, Bocca ha dedicato uno dei suoi libri più famosi al Sud: si intitola Inferno ed è a tutti gli effetti un precursore di Gomorra. Ma il suo pensiero non cambia col passare del tempo: «Vai a Napoli ed è un cimiciaio, ancora adesso». L’intervistatrice, disperata, cerca di fargli dire qualcosa di gentile sui meridionali, gli chiede se non veda «poesia, saggezza» nel modo di vivere di quelle parti. E il faraone, implacabile: «Poesia? Per me è il terrore, è il cancro». Sono «zone urbane marce, inguaribili». Unica consolazione: il Sud fa talmente schifo che se vai lì ne cavi di sicuro qualche bell’articolo. Quando lo dice, l’intervistatrice s’illumina: «Quindi sei grato, se non altro...» Ma Giorgio: «Grato, insomma... Come dire: sono grato perché vado a caccia grossa di belve. Insomma, non sei grato alle belve, fai la caccia grossa, ma non è che fraternizzi con le belve». Eppure, nei suoi libri, qualche parola consolante sul Meridione si trova... Beh, presto spiegato il mistero: «È necessaria un po’ di ipocrisia. Sapevo sempre che dovevo tener buoni i miei lettori meridionali, quindi davo un contentino». Di più schifoso, dunque, c’è solo Berlusconi: «Mi stupisce che Berlusconi non mi ami. Io scrivo sui giornali che è un maiale e dentro di me penso che lui dica: beh, in fondo ha ragione». Sorte ingrata del faraone Bocca: gli tocca odiare l’unico che abbia mai amato, proprio perché questi non lo ama più.

(di Francesco Borgonovo)

La destra troppo avanti emarginata e scippata

Giorgio Pisanò, Gianna Preda, Angelo Manna... li citavo giorni fa a proposito della scomparsa di Enzo Erra. Sarebbe tutta da scrivere, ma è un’impresa difficile, la Spoon River dei precursori dimenticati, spesso maledetti o emarginati in vita, che hanno avuto postuma ragione ma per interposta persona. Citavo Pisanò non in veste di politico missino ma di giornalista - rilanciò il Candido alla morte di Guareschi - anzi di inviato postumo nei luoghi dolorosi della guerra civile. Pisanò fu tra i primi a compiere l’arduo e meticoloso lavoro di tirare fuori dall’oblio e dalla damnatio memoriae storie e tragedie dell’ultima guerra.

Fu un lavoro aspro che rimase in un circuito nostalgico. Poi, dopo tanti anni, arrivò da sinistra Giampaolo Pansa e riportò alla luce le storie dei vinti, con grande e meritato successo editoriale. Citavo poi Gianna Preda, firma di punta del Borghese negli anni sessanta, mordace e aggressiva nel suo giornalismo d’assalto.

Era lei la Camilla Cederna della destra, anzi la Fallaci degli anni sessanta quando l’Oriana era ancora di sinistra. Poi arrivò la Fallaci dopo l’11 settembre e si sentì nuovamente il linguaggio del vecchio Borghese, inclusa l’esortazione a ritrovare la rabbia e l’orgoglio di un occidente vile, arreso al nemico; ma con ben altra accoglienza. Si legga di Gianna Preda (Predassi era il suo vero cognome) la vivace autobiografia, Fiori per Io, o si ritrovino le sue interviste che mettevano in crisi i governi o i suoi dialoghi con i lettori.

Citavo poi Angelo Manna, giornalista del Mattino e deputato missino, che fu il primo a raccontare negli scritti e nelle tv private napoletane l’altra faccia del Risorgimento e il sud violentato e tradito. Se Carlo Alianello (o Silvio Vitale) scriveva l’epopea del sud preunitario, Manna trasmetteva a livello popolare l’orgoglio meridionalista contro la Malaunità. Poi, molti anni dopo, arrivò da sinistra Pino Aprile con il suo efficace Terroni e conquistò il successo editoriale e l'attenzione dei media negata al “reazionario” Manna. Penso a Nino Tripodi, intellettuale e politico missino, direttore del Secolo d’Italia, che ricostruì il percorso dei voltagabbana dal fascismo all’antifascismo, ma solo di recente (penso ad esempio al lodevole I redenti di Mirella Serri) sono stati portati alla luce quegli «intellettuali sotto due bandiere».

E a proposito di fascismo, penso al meticoloso lavoro storico-giornalistico di Giorgio Pini e Duilio Susmel su Mussolini, usato poi da Renzo De Felice. O Roberto Mieville che descrisse in Criminal fascist camp quel che solo oggi si riscopre grazie ad Arrigo Petacco col suo Quelli che dissero No: gli italiani che dopo l’8 settembre preferirono il campo di concentramento alla resa.
Citavo pure Alfredo Cattabiani (e con lui Mario Marcolla), che prima con le edizioni dell’Albero, poi con Borla, infine soprattutto con Rusconi, scoprì e tradusse interi filoni di pensiero ed autori che poi sarebbero diventati alimento di base per l’Adelphi di Calasso: Guénon, Florenskij e Zolla, Cristina Campo e Simone Weil, Ceronetti e Quinzio, Severino e Jünger, Alce Nero e Comaraswamy, oltre a Eliade, Tolkien e altri autori. Adelphi sterilizzò del catalogo Rusconi il filone cattolico-tradizionale, quello ispirato da Del Noce risalendo fino a de Maistre, e riprese l’altro filone tradizionale spiritualista, mai riconoscendo il ruolo dei precursori.

La Rusconi destò invece la preoccupata attenzione di Pasolini che agli inizi degli anni settanta denunciò la nascita editoriale di una destra colta e raffinata. E Walter Pedullà auspicava un cordone sanitario per isolare quella cultura; non i picchiatori, ma gli scrittori e i libri della destra. La stessa cosa accadde con le edizioni Volpe e con Claudio Quarantotto che pubblicò per le edizioni del Borghese opere e scritti di Jünger e Cioran, Spengler e Mishima, poi sdoganati altrove con successo.

Vi dicevo di Enzo Erra paragonato a Giorgio Bocca. Proseguendo nella vite parallele penso a Mario Tedeschi, uscito come Eugenio Scalfari da Roma fascista, e poi direttore come lui di un settimanale di successo, Il Borghese, che col suo fondatore Leo Longanesi fu una splendida rivista di élite, ma con Tedeschi superò le centomila copie e negli anni sessanta vendeva più del suo dirimpettaio di sinistra, L’Espresso di Scalfari. Poi Tedeschi, dopo la parentesi parlamentare missina, finì ai margini del giornalismo; mentre Scalfari, dopo la parentesi parlamentare socialista, fu venerato fondatore de La Repubblica.

O Giano Accame, lucido giornalista e intellettuale, vissuto ai margini del giornalismo e della cultura. E Fausto Gianfranceschi, scrittore e giornalista di valore. O Piero Buscaroli, fior di giornalista storico e musicologo, per anni costretto allo pseudonimo sul nostro Giornale che, grazie a Montanelli, lo ospitava negli anni di piombo però sotto falso nome (Piero Santerno).

O talenti precocemente stroncati dal destino, come Rodolfo Quadrelli o Adriano Romualdi. Vorrei ricordare il frizzante Adriano Bolzoni, autore prolifico di sceneggiature e di reportage storico-giornalistici, dimenticato come Luciano Cirri, salace critico televisivo prima di Sergio Saviane e di Aldo Grasso. Cirri fondò con Castellacci e Pingitore il cabaret “di destra”, Il Giardino dei supplizi e il Bragaglino, divenuto poi Bagaglino, nato da una costola del Borghese e de Lo Specchio di Giorgio Nelson Page.

E Giancarlo Fusco o Nino Longobardi, personaggi estrosi e briosi osservatori dei costumi, ma irregolari e dalla parte sbagliata.

O grandi firme del giornalismo politico come il socialfascista Alberto Giovannini, che diresse Il Roma e Il Giornale d’Italia, o i conservatori liberali Enrico Mattei de Il Tempo e Panfilo Gentile su Lo Specchio, critico della partitocrazia e delle democrazie mafiose. Appestati in vita, dimenticati in morte. O la heroic fantasy, fiorita a destra (uno su tutti, Gianfranco de Turris) e poi scoperta con successo altrove. Non mi addentro a citare gli studiosi, gli autori non conformisti, limitando questa Spoon River al giornalismo e all’editoria: ma non erano scarsi né in numero né in qualità.

Il filo comune che lega tutti loro, oltre l’appartenenza a quel variegato arcipelago destrorso, è l’oblio già in vita (pochi di loro sono viventi). Taluni percorsero vite parallele o furono precursori in ombra di altri venuti da sinistra e baciati dal successo. Tanti ci saranno sfuggiti e ci dispiace. A tutti loro portiamo il modesto fiore del ricordo.

(di Marcello Veneziani)