martedì 9 ottobre 2012

Ecco perché il Vaticano II non condannò il comunismo


Come tutti gli eventi storici, anche il Concilio Vaticano II ha avuto le sue ombre e le sue luci. Poiché in questi giorni se ne evocano soprattutto le luci, mi sia permesso ricordarne una vasta zona d'ombra: la mancata condanna del comunismo. Erano gli anni '60 e aleggiava un nuovo spirito di ottimismo incarnato da Giovanni XXIII, il «Papa buono», Nikita Kruscev, il comunista dal volto umano, e John Kennedy, l'eroe della «nuova frontiera» americana. Ma erano anche gli anni in cui veniva innalzato il muro di Berlino (1961) e i sovietici installavano i missili a Cuba (1962). L'imperialismo comunista costituiva una macroscopica realtà che il Concilio Vaticano II, il primo «concilio pastorale» della storia, apertosi a Roma l'11 ottobre 1962 e conclusosi l'8 dicembre 1965, non avrebbe potuto ignorare.

In Concilio vi fu uno scontro tra due minoranze: una chiedeva di rinnovare la condanna del comunismo, l'altra esigeva una linea «dialogica» e aperta alla modernità, di cui il comunismo pareva espressione. Una petizione di condanna del comunismo, presentata il 9 ottobre '65 da 454 Padri conciliari di 86 Paesi, non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema, provocando scandalo.

Oggi sappiamo che nell'agosto del '62, nella città francese di Metz, era stato stipulato un accordo segreto fra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo arcivescovo ortodosso di Yaroslav, monsignor Nicodemo, il quale, come è stato documentato dopo l'apertura degli archivi di Mosca, era un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare del comunismo in Concilio. Era questa la condizione richiesta dal Cremlino per permettere la partecipazione di osservatori del Patriarcato di Mosca al Concilio Vaticano II (si veda: Jean Madiran, L'accordo di Metz, Il Borghese, Roma 2011). Un appunto di pugno di Paolo VI, conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, conferma l'esistenza di questo accordo, come ho documentato nel mio Il Concilio Vaticano II. Una storia non scritta (Lindau, 2010). Altri documenti interessanti sono stati pubblicati da George Weigel nel secondo volume della sua imponente biografia di Giovanni Paolo II (L'inizio e la fine, Cantagalli, 2012).Weigel ha infatti consultato fonti come gli archivi del KGB, dello Sluzba Bezpieczenstewa (SB) polacco e della Stasi della Germania Est, traendone documenti che confermano come i governi comunisti e i servizi segreti dei Paesi orientali penetrarono in Vaticano per favorire i loro interessi e infiltrarsi nei ranghi più alti della gerarchia cattolica. A Roma, negli anni del Concilio e del postconcilio, il Collegio Ungherese divenne una filiale dei servizi segreti di Budapest. Tutti i rettori del Collegio dal 1965 al 1987, scrive Weigel, dovevano essere agenti addestrati e capaci, con competenza nelle operazioni di disinformazione e nell'installazione di microspie. L'SB polacco, secondo lo studioso americano, cercò persino di falsare la discussione del Concilio sui punti peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il direttore del IV Dipartimento, il colonnello Stanislaw Morawski, lavorò con una dozzina di collaboratori esperti in mariologia per preparare un pro-memoria per i vescovi del Concilio, in cui si criticava la concezione «massimalista» della Beata Maria Vergine del cardinale Wyszynski e di altri presuli.

La costituzione Gaudium et Spes, sedicesimo e ultimo documento promulgato dal Concilio Vaticano II, volle essere una definizione completamente nuova dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. In essa mancava però qualsiasi forma di condanna al comunismo. La Gaudium et Spes cercava il dialogo con il mondo moderno, nella convinzione che l'itinerario da esso percorso, dall'umanesimo e dal protestantesimo, fino alla Rivoluzione francese e al marxismo, fosse un processo irreversibile. Il pensiero marx-illuminista e la società dei consumi da esso alimentata era in realtà alla vigilia di una crisi profonda, che avrebbe manifestato i primi sintomi di lì a pochi anni, nella Rivoluzione del '68. I Padri conciliari avrebbero potuto compiere un gesto profetico sfidando la modernità piuttosto che abbracciarne il corpo in decomposizione, come avvenne. Ma oggi ci chiediamo: erano profeti coloro che in Concilio denunciavano l'oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna o chi riteneva, come gli artefici dell'Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell'umanità e sarebbe sopravvissuto uno o due secoli almeno, migliorando il mondo?

Il Concilio Vaticano II, ha affermato recentemente il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze Storiche, «avrebbe scritto una pagina gloriosa se, seguendo le orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di pronunciare un ripetuta ed espressa condanna del comunismo». Così purtroppo non accadde e gli storici devono registrare come un'imperdonabile omissione la mancata condanna del comunismo da parte di un Concilio che si proponeva di occuparsi del problemi del mondo a lui contemporaneo.

(di Roberto de Mattei)

domenica 7 ottobre 2012

La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti


Questo libro va contro una leggenda che resiste inalterata da un'infinità di anni. La leggenda sostiene che esistano guerre sporche e guerre pulite. La mia opinione è diversa: tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte a chi vi partecipa o ne rimane coinvolto. In ogni caso, su entrambe le parti in lotta cade sempre una pioggia rossa: una pioggia di sangue. Da dove mi arriva questa immagine? Anni fa avevo scritto un libro su un personaggio quasi sconosciuto: il sardo Andrea Scano, un partigiano comunista espatriato di nascosto in Jugoslavia dopo la conclusione della guerra civile. Era ricercato dai carabinieri perché raccoglieva armi e munizioni in vista di una rivoluzione proletaria. Dopo essere vissuto da latitante a Fiume, ormai diventata una città jugoslava, era finito nel gulag più orrendo del maresciallo Tito, quello creato a Goli Otok, l'Isola Calva. E qui era rimasto per tre anni, torturato da una sequenza infinita di orrori. Scano era un poeta dilettante e non aveva mai pubblicato nulla. Una delle poesie in cui mi ero imbattuto diceva a proposito di quel campo di sterminio: “Guarda il cielo e copriti, una pioggia di sangue potrebbe bagnarti, una pioggia di sangue sull'isola cadrà”. Il povero poeta ricorreva a quell'immagine per descrivere le guerre che aveva attraversato. La guerra civile in Spagna, combattuta da militante di terza o quarta fila in una Brigata internazionale. Poi la guerra civile italiana, iniziata da terrorista dei Gap, i guerriglieri di città mandati in azione dal Pci. Infine la guerra ideologica che divideva l'Europa e che per Scano si era risolta nella lunga prigionia dentro l'inferno di Goli Otok. Un comunista ridotto in schiavitù da altri comunisti. La sua storia, pubblicata nel 2004 con il titolo Prigionieri del silenzio, mi confermò che avevo fatto bene a scrivere Il sangue dei vinti, uscito l'anno precedente. Quel libro aveva prodotto due mutamenti profondi nel mio percorso di narratore della guerra civile. Innanzitutto mi aveva condotto all'incontro con una parte della società italiana che conoscevo poco e da lontano: il mondo dei fascisti sconfitti. (Dall'Introduzione - La pioggia rossa).

Fu un'epoca torbida e atroce. Il bagno di sangue sarebbe durato sino all'aprile 1948. Per poi cessare davanti alla spettacolare vittoria della Dc di Alcide De Gasperi contro il Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni. Ma il bilancio di quella guerra dentro il dopoguerra si rivelò mostruoso. L'Italia moderna non aveva mai conosciuto una violenza tanto brutale ed estesa nel tempo. Anzi, per rispettare la verità, non la conobbe subito. Nel crescere, Enrico si rese conto che i vincitori avevano nascosto i loro delitti. Diventati un segreto da custodire con un rigore da becchini inflessibili. Ma quel segreto ne conteneva un altro, anch'esso taciuto. Riguardava la seconda metà della storia: la reazione dei fascisti alle mattanze. Non tutti i militanti della Rsi erano caduti davanti ai plotoni d'esecuzione rossi. E una parte dei sopravvissuti era rimasta in libertà (...). 

Per questo motivo, parecchi si chiedevano che cosa facessero i pochi o i tanti repubblicani scampati alle mattanze. Si limitavano a nascondersi? Tentavano di fuggire all'estero? Perché, a loro volta, non si vendicavano sui vincitori? Forse avrebbero potuto farlo, con qualche azione esemplare. Uccidendo un comandante partigiano. Oppure un esponente del Pci, il partito che nel primo dopoguerra aveva il monopolio delle armi e delle esecuzioni. Eppure bastava riflettere per trovare una spiegazione di quell'inerzia. Il mondo del fascismo di Mussolini, durato per più di vent'anni, si era dissolto. La sconfitta lo aveva annullato per sempre. Lo spettacolo orrendo del Duce appeso a piazzale Loreto era rimasto inciso nella memoria di quanti avevano combattuto sino all'ultimo per lui. Come un monito a non rialzare più la testa. Il regime appariva un cumulo di macerie, non soltanto fisiche, ma morali ed esistenziali. Valeva la pena di reagire in nome di una storia finita? Tuttavia, anche nel clima trionfale della vittoria antifascista qualcosa accadde. Nella città di Enrico emerse una storia di segno opposto. Fu una vicenda oscura che aiutava a comprendere la strategia del Partito comunista. I capi del Pci avevano lasciato mano libera ai loro partigiani che passavano da un delitto all'altro. Ma nello stesso tempo, Togliatti si era mosso con astuzia, seguendo un progetto diverso. Era di accettare nel Pci tutti i fascisti che domandavano di aderire al Partitone rosso. Del resto, perché respingerli? Se chiedevano la tessera con la falce e martello significava che erano convinti di aver sbagliato e volevano redimersi. Il partito doveva essere pronto ad accoglierli. Soprattutto quando si trattava di intellettuali o di giovani. Nella testa di Togliatti questa politica presentava più di un vantaggio. Consentiva al Pci di mostrarsi un partito aperto al dialogo e alla convivenza pacifica tra fazioni che si erano combattute sino all'ultimo. Rafforzava la struttura organizzativa. E permetteva di acquisire quadri politici e culturali che era bene non trascurare, evitando il rischio di vederli assorbire da altri partiti, per prima la Democrazia cristiana. (Dal capitolo 33 - Il fasciocomunista).

(di Giampaolo Pansa)

* * *

Ormai, quello con Giampaolo Pansa è diventato un appuntamento. Allo scoccar dell'autunno, o poco dopo, esce un suo nuovo libro dichiaratamente ispirato alla revisione storica, dunque fatto apposta per dispiacere ai "gendarmi della memoria".Si tratta degli strenui difensori di una lettura di Resistenza ed RSI in chiave accesamente "sinistrese" e spudoratamente manichea, con i fascisti che facevano una guerra brutta, sporca e cattiva, a sostegno della dittatura, e i partigiani belli, puliti e buoni che combattevano in nome della democrazia.

Pare impossibile, ma a settant'anni dagli eventi, c'è ancora chi la vede in questo modo e si indigna col "revisionista" Pansa. Il quale allegramente "se ne frega" (si può dire o è una espressione "fascista"?). E lo dimostra col suo ultimo libro "La guerra sporca dei fascisti e dei partigiani" dove, intendiamoci, non fa sconti a nessuno. E lo dimostra subito dicendomi: "Mi hanno rotto le scatole (ma il termine usato dal giornalista e storico monferrino è decisamente più forte…) con la retorica. Non esistono guerre sporche e guerre pulite. E la guerra civile è la più sporca di tutte. Una vera e propria malattia che scatena il fanatismo più feroce e trasforma gli uomini in bestie. Non è vero che i partigiani comunisti combattevano per la libertà: si battevano per la dittatura, sognavano di costruire una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. La loro idea di 'liberazione' non corrispondeva a quella dei partigiani bianchi, monarchici, liberali, cattolici: tutti "borghesi" con cui fare i conti non appena se ne presentasse l'occasione. Poi, le cose sono andate diversamente. Anche se comunisti e post-comunisti il "cappello" ideologico sulla Resistenza ce l'hanno messo. E vorrebbero continuare a tenercelo. Oltretutto trattando da fascista chi cerca di restituire ai vinti la memoria, l'identità e la dignità". Pansa lo fa da anni, beccandosi ingiuriose reprimende da parte di accademici spocchiosi. Chissà se faranno ammenda dopo aver letto "La guerra sporca…". Costruito sul modulo letterario consolidato del "dialogo a due", che passa in rassegna uomini ed eventi- in questo caso, è il farmacista Evasio Z. che "narra" e "spiega" al nipote Enrico, un adolescente pieno di curiosità, il dramma italiano della guerra e della guerra civile.

(di Mario Bernardi Guardi)

mercoledì 3 ottobre 2012

Nel Lazio di Fiorito si è compiuto il destino di una destra ormai estinta


Il crollo della Regione Lazio ha segnato una nuova certezza: l’antica moralità della destra non esiste più. Secondo il professor Marco Tarchi, ordinario dell’Università di Firenze, la colpa è una fame ancestrale che non hanno saputo arginare, in un’istituzione, la Regione, che non fa che favorire le ruberie.

Scandali e ruberie hanno travolto la regione Lazio: Fiorito e Polverini sono diventati emblemi di sprechi di denaro pubblico inaccettabili: la fine della fiducia nella politica. Molti di loro, però, hanno una storia politica che passa per le file dell’Msi, partito di destra e molto severo sulla morale pubblica. Che fine ha fatto? Lo abbiamo chiesto al professor Marco Tarchi, politologo e ordinario all’Università di Firenze.

Comincerei da lì gli scandali. Fiorito e altri vengono del Msi, partito che faceva della morale pubblica un segno distintivo. Che fine ha fatto?

È l’ennesimo segno del processo che ha segnato la politica degli ultimi decenni. È stata celebrata la fine delle ideologie, mentre si è enfatizzato il peso delle questioni amministrative (che richiedono soluzioni “tecniche” e che lasciano poco spazio alle divisioni sulle scelte di valore). Allora la politica si è trasformata in una semplice – e spesso lucrosa – professione. Questo, del resto, è anche la conferma di quanto già scrivevo nella metà degli anni Novanta, mentre consideravo la sorte dei missini in un’era che li proiettava, d’improvviso, dalla marginalità al governo.

E che cosa scriveva?


Dicevo che, una volta ammessi al tavolo imbandito, in molti di loro sarebbe prevalsa, più di tutto, la fame arretrata, pluridecennale. E che, una volta “normalizzati”, avrebbero presto imparato la lezione del sottogoverno. Solo che, con l’andar del tempo, ne sono diventati maestri, seppur con notevoli cadute di stile.

Quindi quello del Lazio non è un caso.

No, proprio non è un caso. È piuttosto un destino, direi, a cui con difficoltà potrebbe sfuggire un partito come l’Msi. E le spiego perché: il partito, per consentire il successo della propria classe dirigente, ha dovuto cambiare ragione sociale, metodi e obiettivi. Il tutto in fretta e in modo disordinato.

Quindi la crisi parte negli anni ’90.

È più un problema di vecchia data che si sviluppa. Nel 1956, in un combattutissimo congresso del Msi, Giorgio Almirante aveva sottolineato come “essere fascisti in democrazia” costituisse un paradosso. Lui stesso aveva dovuto farci i conti, con frequenti aggiustamenti tattici e strategici.

E dopo?

Dopo, i suoi eredi hanno risolto il dilemma rinunciando a difendere un’identità ideologica. Ma a quel punto non potevano evitare di diventare come gli altri – incarnando quei vizi che avevano identificato e a lungo denunciato.

Ma tornando alla questione Lazio: non è che il problema, moralità a parte, è stata la riforma del Titolo V del 2001?

In realtà il problema viene da più lontano: lo daterei già al momento della creazione stessa delle regioni a statuto ordinario. C’era chi temeva, già allora, che le regioni sarebbero diventati feudi partitici, centri di spesa più simili a pozzi senza fondo che a organismi dediti alla cura delle necessità dei territori. Ora, fatte le debite differenze tra regioni e regioni – c’è chi sa creare reti di clientela nei modi più raffinati e mantenerle intatte per decenni, mentre altri improvvisano e scadono nella trivialità – non credo che quella previsione fosse infondata.

Ma le regioni hanno anche funzioni amministrative importanti.

Sì. E allora, al di là delle vicende di questi giorni, sarebbe istruttivo indagare (non necessariamente sul piano giudiziario: un’analisi squisitamente tecnico-politica in termini di efficienza istituzionale sarebbe comunque utile) su capitoli di spesa e destinatari di consulenze, finanziamenti ad enti e istituti di ricerca, convenzioni per studi di vario genere ecc. Se ne ricaverebbero senz’altro interessanti considerazioni sul modo in cui viene speso il denaro pubblico.

Insomma, la soluzione qual è?

A mio avviso, alcuni dei provvedimenti che sono stati ipotizzati nei giorni scorsi potrebbero essere utili, e arginare le situazioni più deteriorate. In generale, però, si dovrebbe andare oltre: riducendo ulteriormente il numero dei consiglieri regionali, abolendo tutti i vitalizi e concedendo ai gruppi consiliari solo i servizi essenziali. La partitocrazia si batte solo così, con un drastico ridimensionamento della posta in gioco nel dopo-elezioni. Sperare in un soprassalto di pudore e in una redenzione o conversione spontanea è tempo perso.

E il guerriero Jünger conquistò la pace


Guerriero, scrittore, filosofo: la vita e l'opera di Ernst Jünger possono essere riassunte e spiegate con queste tre categorie, esplorate nel volume collettaneo La mobilitazione globale. Tecnica, violenza e libertà in Ernst Jünger, a cura di Maurizio Guerri (Mimesis, pagg. 212, euro 18), che raccoglie gli interventi presentati al convegno sullo scrittore tedesco tenutosi nel 2005 all'Università degli Studi di Milano. Dall'estremismo radicale degli scritti degli anni Venti fino alle meditate profondità dei diari della vecchiaia, l'opera jüngeriana è una lunga e coerente ricerca dell'eternità da parte di un personaggio che Heidegger riteneva «il più freddo e acuto pensatore» capace di vedere la realtà, che si svela soprattutto nelle situazioni estreme, di guerra e di morte.

La morte è la sostanza della guerra, e quindi, probabilmente, non è un caso che morte e guerra siano state rimosse insieme dall'orizzonte della società contemporanea. Eliminata da una giovinezza artificialmente smisurata e quindi nascosta nell'asettico freddo degli obitori, la morte non fa più parte del mistero della vita, rendendola quindi insensata. Ridotta a semplice «operazione chirurgica» o convertita ipocritamente in «missione umanitaria», la guerra non è più scontro tra avversari di pari dignità ma si è trasformata nel feroce annientamento del nemico, divenuto estraneo al concetto stesso di umanità.

Un primo, allarmante segnale di questa discesa agli inferi si ha durante il Secondo conflitto mondiale, quando allo scontro in armi tra nazioni si aggiungono gli atti terroristici dietro le linee e le inevitabili rappresaglie. In uno scritto a lungo ritenuto perduto, Jünger, nelle vesti di ufficiale delle truppe di occupazione, stila, a futura memoria, un rapporto sugli attentati che funestano Parigi a partire dall'agosto 1941, ora pubblicato per la prima volta in italiano da Guanda col titolo Sulla questione degli ostaggi. Parigi 1941-1942, (pagg. 190, euro 14), dove l'esteta lascia il posto al burocrate, attento a sottolineare come le vittime delle rappresaglie tedesche muoiano senza mostrare «odio contro la Germania o le truppe di occupazione», come effettivamente risulta dalle lettere dei condannati a morte raccolte dall'autore e qui pubblicate in appendice.

Al tema classico della guerra è invece dedicato il volumetto Guerra e guerrieri curato ancora da Maurizio Guerri e pubblicato da Mimesis (pagg. 74, euro 8), che raccoglie il contributo di Friedrich Georg Jünger all'antologia collettanea Krieg und Krieger pubblicata nel 1930, insieme con il discorso di suo fratello Ernst tenuto a Verdun il 24 giugno 1979, per celebrare l'anniversario di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale e auspicare l'avvento di una pace mondiale.

Con la Grande guerra una nuova, inaudita violenza ha fatto irruzione sulla scena mondiale e, cancellando la separazione tra stato di pace e stato di guerra, aveva trasformato anche l'azione politica, che diventa appannaggio di un nuovo ceto, una aristocrazia guerriera nata dal fango delle trincee e forgiata dal fuoco delle tempeste d'acciaio. Finita la guerra, il nuovo tipo umano che aveva saputo interiorizzare l'esperienza del combattimento doveva, per i fratelli Jünger, trasferire la propria volontà trasformatrice dal fronte bellico a quello interno del lavoro, in attesa della rivoluzione nazionale che avrebbe sostituito «l'azione alla parola, il sangue all'inchiostro, il sacrificio alla retorica e la spada alla penna», come scriveva Ernst sul Voelkischer Beobachter nel settembre 1923, molti anni prima di giungere alla conclusione, citata nel discorso di Verdun, che «l'era delle guerre nazionali stava volgendo al termine».

A quell'epoca eroica, fa invece riferimento l'altro Jünger, Friedrich Georg, anche lui combattente nella Grande guerra, il quale, scrivendo al crepuscolo della Repubblica di Weimar, riteneva esistesse un destino - altro tabù contemporaneo - sia individuale sia comunitario, che la guerra ci avrebbe aiutato a capire, mettendoci di fronte a scelte ed esperienze così radicali da elevare «il singolo e la società in un ambito dove legge e forma si incontrano in modo vincolante e fraterno». L'aspirazione a una pace universale, vista come l'unica via d'uscita per l'umanità dopo l'invenzione della bomba atomica, e l'esortazione a «diventare ciò che si è» cercando di capire quale sia il proprio destino, sono la consegna che questo denso volumetto lascia all'umanità, oggi distratta da guerre mascherate da rivoluzioni più o meno colorate e strangolata da una spaventosa crisi globale, due elementi che potrebbero, prima o poi, rendere le idee dei fratelli Jünger di bruciante attualità. 

(di Luca Gallesi

A proposito di saluti romani


A proposito di saluti romani. Il capolavoro poetico del nostro mondo, Cantos, fu fabbricato dentro la gabbia del campo di concentramento americano a Coltano, Pisa. Ezra Pound, prima di consegnarsi ai suoi prigionieri, ebbe il tempo di portarsi in tasca un libro di Confucio e il dizionario degli ideogrammi cinesi. Quando non girava su se stesso a far cerchio sulla sabbia si aggrappava alle sbarre e cantava Manes. A osservarlo, ammirato – e purtroppo di questo racconto non c’è testimonianza su Facebook – c’era un altro internato assai particolare, Walter Chiari che, di quei giorni, farà racconti esilaranti: “Saluto gli internati della prima fila”. Così diceva dalla ribalta del varietà rievocando il duetto col poeta. Per aggiungere, nel frattempo che Pound s’irrigidiva nel saluto romano, “quelli della Decima!”, ovvero la Flottiglia degli incursori della Marina repubblicana. Memento audere semper.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

lunedì 1 ottobre 2012

Questa situazione l'abbiamo prodotta noi


‘'Questa situazione l'abbiamo prodotta noi" ha detto il politologo americano Michael Walzer riferendosi ai fatti di Bengasi. Per anni le democrazie occidentali avevano fornicato con Gheddafi, poi, improvvisamente, hanno scoperto che era un dittatore impresentabile e andava quindi eliminato. Agenti provocatori inglesi e francesi sono stati mandati in Cirenaica dove certo il malcontento e la frustrazione, dopo 42 anni di dittatura, non mancavano. Gheddafi però non è stato eliminato da una rivoluzione popolare, ma dai bombardieri della Nato.

Caduto Gheddafi la Libia è precipitata nel caos. Solo un dittatore poteva tenere insieme un Paese dalle mille realtà tribali, etniche e religiose. E nel caos hanno buon gioco a inserirsi i gruppi radicali ed estremisti come quello che ha condotto l'azione di Bengasi (al Qaeda, tirata puntualmente in ballo, non c'entra, è un'invenzione occidentale). Inoltre chi è bombardato e ha visto distrutta la sua casa, uccisi i figli, i genitori, la moglie, è difficile che conservi sentimenti amichevoli verso i ‘liberatori'.

Quand'è che capiremo che le ingerenze e la proterva pretesa di portare, con la forza delle armi, i nostri valori, le nostre istituzioni, la democrazia, a popoli "altri", da noi diversissimi, oltre a provocare massacri inenarrabili (sono circa 750mila le vittime civili causate, direttamente o indirettamente, dalle aggressioni americane in Afghanistan e in Iraq) si risolvono regolarmente in un boomerang? Prendiamo l'Iraq. È una cervellotica invenzione degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre comunità che non avevano niente a che vedere fra di loro: curdi, sunniti, sciiti.

Solo un dittatore poteva tenere insieme una simile Babele. Questo dittatore, particolarmente sanguinario, Saddam Hussein, noi occidentali, americani in testa, per anni lo abbiamo foraggiato fornendogli anche le famose "armi di distruzione di massa", in funzione anticurda e soprattutto antisciita e antiiraniana. Poi un giorno abbiamo deciso che anche Saddam era diventato impresentabile ed è stata la seconda guerra del Golfo.

Giustiziato Saddam abbiamo instaurato in Iraq una pseudo democrazia, ma poiché gli sciiti sono la stragrande maggioranza, il 62%, abbiamo di fatto consegnato questo Paese all'Iran sciita che di quello iracheno è confratello. Così dopo un quarto di secolo di politica antiiraniana, gli americani sono riusciti nell'impresa di offrire su un piatto d'argento agli ayatollah quello che gli avevano impedito di prendere con le armi quando nel 1985 stavano per conquistare Bassora.

Afghanistan.
Dopo undici anni di occupazione, a furia di bombardare le aree tribali afghano-pachistane alla caccia del Mullah Omar e degli altri leader della guerriglia abbiamo svegliato il talebanismo pachistano che è molto più pericoloso di quello afghano.

Perché i talebani afghani si interessano solo del proprio Paese, quelli pachistani, inseriti all'interno di una potenza regionale, hanno una visione più internazionale e mire più ambiziose (ed è molto probabile che nel commando che ha agito a Bengasi ci fossero elementi pachistani, della rete-Haqquani che è in contrasto col Mullah Omar perché mentre questi, dopo undici anni di resistenza, vorrebbe arrivare a un accordo e a una pacificazione nazionale, gli Haqquani vogliono radicalizzare ulteriormente la lotta anche con azioni efferate sui civili da sempre proibite da Omar).

Il secondo motivo è ancora più inquietante. Se anche il Mullah Omar riconquistasse il potere, l'Afghanistan armato com'è in modo antidiluviano, non costituirebbe un pericolo per nessuno. Se i talebani pachistani prendessero Islamabad sarebbero cazzi acidi. Per tutti. Perché il Pakistan, oltre a essere armato in modo moderno, ha l'Atomica. Così per inseguire un pericolo immaginario ne abbiamo creato uno terribilmente reale.

(di Massimo Fini)

Appello agli intellettuali al tempo della crisi: è ora di sfidare il potere


Bisanzio è assediata e la sinistra discute del sesso degli angeli, che nella società senza cielo sono i gay. Bisanzio brucia e la destra pensa a salvarsi il sedere e dove esso si posa, ovvero i seggi per la modesta classe dirigente. L'Italia affonda e nessuno rappresenta il suo corpo ferito e la sua anima umiliata. Cosa può fare la cultura per il suo Paese? Poco, molto poco. Ma deve farlo, quando il suo Paese rischia di morire. Cosa può fare la cultura? Scrivere, testimoniare, rivolgere appelli, gridare nel deserto, difendere la lingua, l'arte, la civiltà. Ma non basta, mi rendo conto, non basta. Se cerca i mezzi per incidere con più efficacia si dice che è venduta e asservita. Se non li cerca, o addirittura li respinge, si dice che è rancorosa e sterile. Se sta nel mezzo finisce come l'asino di Buridano. Se si ritira nei suoi libri e nei suoi pensieri, riconoscendo che il cielo è la sua patria, si dice: ecco il solito intellettuale, impotente e sacerdotale, ma di una religione dove Dio si è spento.

L'unica cosa che resta da fare alla cultura è affrontare il rischio e sfidare il potere, forte della sua assoluta debolezza, ricca della sua inerme povertà, libera e folle. Non rinunciando alla cultura ma al suo individualismo narcisista ed egocentrico. Non tocca alla cultura mobilitare un popolo, governare un paese, non ne sarebbe capace. Non è indole della cultura vera formare sette; ogni scrittore è una casa a sé, non ha un partito suo. Eppure in tempi eccezionali deve intervenire, pur non lasciando la sua occupazione principale che è pensare e creare in solitudine; ma sapendo che nei tornanti della Storia, ai giri di boa più decisivi, quando il fumo raggiunge anche il suo studio, deve fare la sua parte, generosamente, e non ritrarsi. Lasciar da parte i calcoli, anche i più nobili, e farlo per la gloria di concorrere a salvare il suo paese. Cent'anni fa si chiamò interventismo della cultura, e ci fu chi intervenne sul serio, chi rischiò davvero, perfino chi dette la vita in guerra; ci fu chi combinò guai e pasticci, chi si ritirò al momento della verità, dopo aver acceso gli animi. Armiamoci e partite. Ma nel frangente, la cultura non deve defilarsi, deve cimentarsi, provare le sue idee su strada.

Oggi alla cultura tocca esprimere un pensiero divergente. Divergente non solo perché diverge e dissente dal potere che è oggi anonimo, transnazionale, astratto come la finanza. Ma deve coltivare un pensiero divergente perché deve esprimere due esigenze opposte: quella di tornare alla realtà, mentre il potere vive prigioniero di una bolla irreale, fatta di speculazione, autoreferenzialità e indici astratti. E insieme deve essere com'è sua natura lungimirante, esibire i principi e le idee, pur oscene, orientare e indicare. In sintesi: tornare alla realtà, che è fatta anche di ideali. Alla cultura oggi, pur così malmessa, tocca un compito non secondario: suscitare, risvegliare dal sonno senza sogni questo Paese di ombre viventi, che compensano la loro evanescenza con l'esercizio del potere. È vero, sono finiti i tempi della cultura interventista, il mondo è cambiato, la tecnica muove la vita con l'economia, la parola non basta. Alla cultura tocca rispondere alla corruzione politica in un solo modo: riscoprendo le motivazioni della politica, in assenza delle quali dilaga il malaffare.

La cultura deve costringersi a farsi presente, deve fare la sua parte, fino in fondo. Deve scrivere, progettare, scendere per strada, mettere in relazione mondi diversi, parrocchie conflittuali; deve farsi ostetrica, se non addirittura ingravidare. Deve chiamare alla tradizione e reinterpretarla, ricordare il passato, indicare l'avvenire. Deve dare poesia attiva, ispirare. E deve mantenere la sua dignità anche se la chiameranno superbia, quella di chi dice: a me non serve niente, non puoi comprarmi con i soldi, i seggi o roba affine; non chiedo niente, mi declasserei se rinunciassi al mio compito per fare, che so, il parlamentare o accaparrarmi un vitalizio o una casa (rischio remoto, perché si gratificano i corpi seducenti e i servi, non le intelligenze e le idee). La cultura è troppo orgogliosa per cedere a così poco, e abdicare alla sua dignitosa solitudine in cambio di un appannaggio. La cultura deve osare.

Il vero problema è come, con chi, a chi rivolgere il discorso, dove trovare compagni d'armi e d'anima disposti all'avventura. E come reggere al disgusto, allo sconforto, alla «bassa marea» che la circonda, senza lasciarsi prendere dalla tentazione di tornare soli. Prudenza, realismo, ponderatezza. Però si deve osare. L'appello è a chi non esercita il potere e non fa parte della cricca; a chi non sa che farsene di governi in apparenza affini che poi non lasciano neanche un'impronta del loro passaggio. A quel punto meglio la pura, impolitica testimonianza degli emarginati che andare al potere e lasciar le cose al loro degrado. La cultura deve farsi sentire, deve dire, pensare, agire, tracciare e lasciar traccia. Perché anche la cultura ha le sue responsabilità, non può bamboleggiare tra bizantinismi e ritrosie. Ci vuole uno stomaco di ferro per cimentarsi e capisco la tentazione dell'eremo; la pratico, la condivido. Anzi sono quasi convinto che alla fine non servirà a nulla: la voce grida nel deserto, nessuno la raccoglie, se non per dirti di tacere. E taceremo, non perché sottomessi, ma perché non abbiamo potere per accendere i microfoni. Alla cultura si addice la contemplazione ma a volte si richiede lo sforzo aggiuntivo, pur provvisorio, del movimento, nelle forme che le sono congeniali; a volte tocca esporsi. Lo fece Platone, lo fece Dante, lo fece mezzo Novecento eroico, figuriamoci se non possiamo farlo noi.

(di Marcello Veneziani)

Giovanni Pascoli interprete della decadenza


Tutt'altro che "facile", Pascoli va affrontato nella sua estrema complessità e in quella ricchezza di temi e di accenti, che ne fa un insonne sperimentatore, al pari di d'Annunzio. E, come d'Annunzio e altri decadenti, Pascoli va alla cerca delle memorie, delle eredità ancestrali, di quel tempo per nulla "perduto" che alimenta la nostra tradizione, connettendo presente e passato con uno sguardo augurale rivolto al futuro. Bene ha fatto, dunque, il Pontificium Istitutum Altioris Latinitatis, a rendere omaggio al Poeta, nel centenario della sua morte, proponendone un aspetto che, sconosciuto ai più, è tutt'altro che secondario: il poeta "latino", l'eccellente autore di composizioni nell'aurea lingua di Roma, il cantore di paesaggi storici e mitici che fondano la nostra civiltà ("Post occasum Urbis. L'eredità culturale e letteraria di Roma antica", introduzione e note esegetiche a cura di Mauro Pisini, traduzione di Chiara Savini, concordanza verbale a cura di Alessandro Toniolo, presentazione di Manlio Sodi, LAS, Libreria Ateneo Salesiano). 

Pascoli fu "latino" per vocazione. Amava la cultura classica - riteneva la sua "humanitas" eternamente feconda - e non mancò mai di partecipare ai concorsi di poesia latina organizzati dalla Accademia delle Scienze di Amsterdam, vincendo ben tredici volte. Docente di lingua e letteratura latina tra i più prestigiosi, nei "Carmina" descrisse la vita dei Romani nei riti e nelle occupazioni giornaliere, come il lavoro dei campi ("Ruralia"), cimentandosi anche con episodi e spunti tratti dalla vita e dalle opere di Virgilio e di Orazio ("Liber de poetis") e seguendo infine, in sette composizioni, la nascita del Cristianesimo sino al suo trionfo ("Poemata christiana"). Da tutto emergono la riverenza nei confronti di uno straordinario patrimonio culturale e la convinzione di una "latinitas" viva, da cui dobbiamo costantemente attingere, sia evocando i suoi imperiali splendori sia ricostruendo i giorni amari della sua decadenza, sotto i colpi della furia barbarica. 

Già, la decadenza. La "decadenza" raccontata da un "decadente". Un decadente "nazionalista", però. E, laicamente, "cristiano". Roma non morì, non muore. Si rinnova. La parola di Gesù è una tempesta e saranno una tempesta i barbari che infieriranno sull'Urbe, ma saranno loro stessi affascinati dalla magnanimità di quelle rovine, abitate da gloriosi fantasmi. Finché, in prospettiva, la Croce non si accompagnerà alle ritrovate insegne dell'Impero. In "Post occasum Urbis" è narrata questa storia. La trilogia ("Solitudo"- "Sanctus Theodorus"- "Pallas"), composta da Pascoli nel 1907 e presentata quattro anni dopo al concorso bandito per il Natale di Roma, nel cinquantesimo del Regno, è volta dunque a recuperare "insieme" le origini e l'universalità dell'Urbe, che il Cristianesimo non annienta, ma trasforma, sia pure attraverso un processo doloroso di morte e distruzione. Anche qui l'unità ritrovata, e non "contro" ma "con" il Cristianesimo. Ed anche, in prospettiva, una nuova missione di civiltà? Forse. Si ricordi che in quegli anni il Pascoli è anche animato dal fervore "colonialista" e che in occasione della guerra di Libia, pronuncia a Barga il celebre discorso- protofascista?- "La Grande Proletaria si è mossa". 

Ma torniamo all'opera, così mirabilmente ritrovata e riproposta dall'Ateneo Salesiano. Per quel che riguarda il valore magistrale della prova pascoliana, l'eredità dei classici cui il poeta ha attinto, le scelte lessicali, lo stile, la personale e coltissima rielaborazione ecc., il lettore - che non sia pago della splendida traduzione ma ami "confrontare" il testo italiano con quello latino - potrà attingere alle note accurate e puntuali che "resuscitano" il "Post occasum". 

Da parte nostra un convinto esercizio di ammirazione di fronte a un poeta che con tanta efficacia ha saputo descrivere una città che finisce per aprirsi a una più ampia resurrezione. Un "compositore" che ha saputo attingere al nitore e alla forza di "quella" lingua, rispettandola e rimodellandola, perché ci narrasse una storia esemplare. Storia di uomini, paesaggi, emozioni, impressioni, attese. Totila, le trombe di guerra, i saccheggi, le fughe, la città deserta, i palazzi, le case, i templi vuoti, i barbari che riempiono con la loro chiassosa e feroce presenza il Foro, la Via Sacra, l'Anfiteatro, il Tempio di Vesta, il Campidoglio, e il silenzio, le volpi e gli avvoltoi che si aggirano tra le rovine. Ma non fu augurale per Romolo e Remo il volo degli avvoltoi? E non è augurale la primavera che torna a suggerire i tre nomi dell'Urbe- Amor, Flora e Roma? E la Chiesa di San Teodoro, sorta sui resti di un tempio eretto da Romolo e Remo, e dove era custodito il gruppo scultoreo della lupa che allatta i gemelli, non è il segno di un'attesa? E non ci richiama a questa stessa attesa il fantasma di Pallante, primo eroe-martire pagano di Roma, alleato del troiano Enea e morto, ucciso da Turno, re dei Rutili, combattendo nel nome di Enea, dunque della Roma a venire; non ci richiama a questa stessa attesa di civiltà e di unità l'immagine del suo corpo adagiato sui rami di un corbezzolo, prefigurante il tricolore col verde delle foglie, il bianco dei fiori, il rosso delle bacche?

(di Mario Bernardi Guardi)