domenica 14 aprile 2013

La grazia ipocrita allo 007 Usa colpevole di sequestro


Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha graziato d'ufficio, cioè sua sponte, senza che vi fosse una richiesta dell'interessato e nemmeno delle autorità statunitensi, Joseph Romano, nel 2003 capo della base militare Nato di Aviano, condannato il 19 settembre 2012 dalla Cassazione, e quindi in via definitiva, a 7 anni di reclusione per il rapimento, a Milano nel febbraio 2003, dell'Imam radicale Abu Omar, di null'altro colpevole che di essere tale. Con Romano sono stati condannati dalla cassazione 22 agenti Cia che parteciparono all'operazione, compreso il capo dell'Intelligence americana a Milano, Bob Lady. Condanne cui si sono aggiunte, per ora solo in Appello, quelle di altri tre agenti Cia che operavano a Roma sotto vesti diplomatiche.

In questa operazione che gli Americani chiamano di «Extraordinary rendition» (in cui 007 Usa sono autorizzati a compiere qualsiasi tipo di reato in territorio straniero, in violazione di tutte le norme del diritto internazionale, col pretesto della lotta al terrorismo) Romano ebbe un ruolo centrale. Come capo della base Nato di Aviano, che gode di extraterrritorialità, fece entrare gli autori materiali del sequestro. Da qui trasportare Abu Omar nell'allora amico Egitto di Mubarak, dove la tortura è ammessa e praticata, fu un gioco da ragazzi. E infatti nelle prigioni egiziane Abu Omar fu sottoposto a torture fisiche e umiliazioni in stile Abu Ghraib, Guantanamo e anche peggio.

Giorgio Napolitano non poteva concludere in un modo peggiore il suo settennato. Il fatto stesso che abbia sentito il bisogno di motivare il suo atto dietro cavilli giuridici, giudicati da tutti i giuristi interpellati, nella più benevola delle ipotesi, «schiocchezze», dimostra che aveva la coda di paglia. La grazia è una prerogativa esclusiva del Capo dello Stato, un retaggio del potere regale, e puo' concederla a suo insindacabile giudizio. Ma Napolitano, con tipica ipocrisia catto-comunista, ha voluto travestire con abiti giuridici, tra l'altro sconfessando in questo modo ancora una volta, alla maniera di Berlusconi, la Magistratura italiana, una decisione squisitamente politica. Lo conferma il fatto che Joseph Romano, da tempo latitante e al sicuro negli Stati Uniti, come tutti gli altri 007 condannati, non correva alcun rischio di finire in carcere. Non solo perchè gli americani, che non ammettono che i loro militari siano giudicati all'estero mentre pretendono che quelli dei loro nemici siano spediti davanti al Tribunale internazionale dell'Aja, non ce lo avrebbero mai consegnato (come è avvenuto per il pilota responsabile della tragedia del Cermis, 20 morti, come avviene per i militari Usa di base a Napoli che stuprano le ragazze partenopee, rifugiandosi poi nell'extraterritorialità), ma perchè tutti e sei i ministri della Giustizia avvicendatisi dopo la vicenda di Abu Omar (Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Palma, Severino) appena insediati si sono affrettati a rassicurare gli americani che rinunciavano a dar corso alla ricerca dei latitanti in campo internazionale. Ci eravamo quindi già appiattiti come sogliole ai piedi degli Usa, cui è consentito nel nostro Paese fare cio' che vogliono, commettere anche, restando impuniti, i reati più ripugnanti, come il sequestro di persona e, sia pur interposto Egitto, la tortura. Il Presidente Napolitano ha voluto fare un ulteriore atto di servaggio. Per chi a cuore, nonostante tutto, la dignità del nostro Paese, suonano mortificanti le parole pronunciate dallo svizzero Dick Marty, relatore del Consiglio d'Europa per le indagini sui 'voli segreti' della Cia: «Non è un atto di giustizia , ma di sudditanza verso gli Stati Uniti».

(di Massimo Fini)

Lo strano caso di Fini, demolitore della destra



Non riuscirono la legge Scelba, l'antifascismo militante, l'arco costituzionale, i processi, le violenze, gli scontri di piazza, la ghettizzazione, le scissioni pilotate e mille altri accidenti a far sparire la destra in Italia. Ci è riuscito il suo ex leader Fini (salvo accusare Berlusconi della sua scomparsa, lui che portò la destra al governo, ma la destra si rivelò incapace d'incidere). 

Esce ora il libro di un costituzionalista e una penna affilata, Paolo Armaroli, già parlamentare di An, dal titolo significativo: «Lo strano caso di Fini e il suo doppio» (edito da Pagliai). Armaroli fa la storia del dottor Jekyll/Hyde della destra italiana ma conviene sulla tesi che alla morte di Tatarella - il suo burattinaio - Fini fu ossessionato dall'idea di liberarsi di Berlusconi. Legittima aspirazione, ma a tre condizioni: una, di non succhiare benefici e incarichi da chi vuoi abbattere; due, di non fare del proprio partito la pallida fotocopia del suo; tre, di essere un vero leader e non solo uno speaker. In Fini non ci fu niente di questo, lo muoveva solo il rancore, più qualche ormone vagante.

Chi, come me, lo criticava da tempo e prevedeva questa parabola (Armaroli ha contato negli anni cinquanta miei pezzi su Fini) non lo faceva da berlusconiano ma da uomo di destra tradito da un suicidio con infamia. Fini non meriterebbe il necrologio politico se non avesse trascinato nella sua follìa omicida-suicida tre partiti e mezzo, un'area politica, un governo e un Paese. A volte anche microbi possono produrre catastrofi.

(di Marcello Veneziani)

sabato 13 aprile 2013

Il ricordo del rogo di Primavalle. Giampaolo Mattei: i miei fratelli non vengano usati per creare nuovi scontri


Una pagina intera del Corriere della Sera è dedicata oggi al quarantesimo anniversario del rogo di Primavalle (avvenuto il 16 aprile del 1973) in cui persero la vita Stefano (nella foto n.d.r.) e Virgilio Mattei. È una lunga, composta e commovente conversazione di Giampaolo Mattei, che all’epoca dell’eccidio aveva 4 anni, con Aldo Cazzullo. Giampaolo sta preparando una mostra sugli anni di piombo: ci saranno i ritagli dei giornali che all’epoca dei fatti parlarono con infamia di “faida interna” tra missini e ci saranno le foto dei fratelli uccisi, un Virgilio sorridente, e Stefano bambino seduto sul letto. Giampaolo parla anche di un’altra foto, quella in cui compare Virgilio affacciato alla finestra, il volto divenuto una maschera nera a causa del fuoco. Una foto storica ma che non ci sarà. “Lo so – dice Giampaolo – che è considerata il simbolo della tragedia. Ma è una foto che per la mia famiglia non esiste: abbiamo conservato le pagine dei vari giornali, e hanno tutte un buco in mezzo. Le mie sorelle ogni volta ritagliavano la foto e la gettavano via, per impedire che nostra madre la vedesse. Quando l’immagine appariva ai telegiornali, uno di noi si alzava e si metteva tra la mamma e il video”.

Poi si ricorda la mobilitazione degli intellettuali di sinistra per Achille Lollo, difeso anche da Alberto Moravia e Franca Rame, il clamoroso ribaltamento della verità in base al quale le vittime diventarono carnefici. Fu una delle campagne di mistificazione più infami del dopoguerra. “Lollo oggi è un uomo libero – dice Giampaolo – forse sta in Brasile. Clavo e Grillo fuggirono in Nicaragua, non hanno fatto neppure un giorno di carcere. Non li odio, ma ho dentro tanta rabbia. Quante menzogne, quante prese in giro. Guardi questo libro, non firmato, Incendio a porte chiuse. Montarono la tesi della faida tra missini. Tirarono fuori persino presunte amanti di mio padre, per istillare il dubbio della vendetta passionale…”.

Poi affronta il tema urticante della pacificazione, mostrando che anche un fratello può ricordare senza odio. Parla del sindaco Veltroni, che gli ha fatto incontrare i parenti delle vittime dell’altra parte. L’abbraccio con la madre di Valerio Verbano, l’incontro con il padre di Walter Rossi. “Mettiamo in comune la rabbia e il dolore…”. E si trasmette anche un esempio a chi ha ancora voglia di opposti estremismi. Nell’ambiente di destra c’è chi l’ha presa male. A Giampaolo non è stata perdonata la mano tesa verso chi ha pianto i morti di sinistra. Le sue parole, però, costituiscono la miglior risposta ai fanatici di un culto dei morti che va bel al di là del rispetto e dell’omaggio ai martiri, ma sconfina spesso e volentieri nella strumentalizzazione dei ragazzi più giovani, intruppati nel rito del “presente” come soldatini disciplinati ma inconsapevoli. Ecco le parole di Giampaolo: “Ma io non voglio che i miei fratelli diventino pretesto per manifestazioni di revanscismo fascista e scontri con i centri sociali. I miei fratelli voglio ricordarmeli vivi. Quando nel 2008 ho scritto un libro, La notte brucia ancora, sulla copertina ho messo una loro foto al mare, in costume da bagno, felici…”. Si può ricordare, si deve ricordare, anche fuori da coreografie cupe e anacronistiche.

domenica 7 aprile 2013

Il grillismo visto da Marco Tarchi


Primi scricchiolii nel corpaccione del Movimento 5 Stelle. Alcuni parlamentari si sono stufati dei continui no inflitti agli altri partiti e chiedono di potersi confrontare, per esempio con il Pd, per superare la fase di stallo. E qualcuno di loro sarebbe pronto a votare la fiducia e a traslocare nel gruppo misto. Che succede nel Movimento? Ne parliamo con il professor Marco Tarchi, politologo e studioso di populismo (tra i suoi libri, ricordiamo “L’Italia populista”, pubblicato dal Mulino), ordinario di Scienza Politica all’Università di Firenze.

Che fine ha fatto la compattezza ostentata nei primi giorni della nuova legislatura?

Io mi chiederei piuttosto che fine abbia fatto l’impegno di rispettare il programma del Movimento che i candidati alle “parlamentarie” avevano sottoscritto. Lì si diceva chiaramente che gli eletti del M5S non avrebbero dovuto accettare alcuna forma di alleanza o coalizione, limitandosi ad eventuali convergenze di voto su specifiche proposte di legge. Chi oggi se ne infischia dimostra di essersi rapidamente fatto catturare da quei modi della politica tradizionale che Grillo e i suoi seguaci da anni vanno deprecando. Ed è miope, perché legarsi in qualunque modo all’uno o all’altro dei partiti che hanno suscitato l’indignazione di gran parte dell’opinione pubblica svuoterebbe il carniere elettorale di parecchie delle prede conquistate il 24 e 25 febbraio. Essere – o quantomeno apparire – estranei al sistema e, ancor più, alla logica delle scelte di campo determinate dallo spartiacque sinistra/destra è stato il primo punto di forza dei grillini.

Il Movimento dimostra un problema di organizzazione politica della classe dirigente?

Ce l’ha, e grosso. Aver inviato in Parlamento centosessanta esponenti non socializzati da tempo a una visione strategica e una cultura politica ampia e comune è stato un azzardo, che potrebbe tramutarsi presto in errore. Almeno per adesso, con il solo dialogo concesso dai blog, non si può costruire il tessuto connettivo di una forza politica omogenea. E il rischio di diventare il punto di raccolta di frange lunatiche che su cinque temi (le “stelle”) concordano, ma su tutto il resto si dividono, è elevato. Tanto da obbligare a sottostare a una guida unica e personalizzata. Che però, malgrado le apparenze, non dispone di poteri taumaturgici.

Grillo dice a chi vuol fare accordi: “Hai sbagliato voto”. Condivide?

Sì. Anche se servirebbe di più affiancare all’elenco delle critiche verso l’esistente una progressiva serie di proposte – e di visioni, perché la razionalità non è l’unico elemento determinante del consenso in politica, anzi spesso vi svolge un ruolo secondario – che qualifichino la diversità dai concorrenti in un modo più definito. Certo, sui programmi è più facile dividersi che sulle proteste, ma se si vuole durare e gettare radici, è un passaggio obbligato.

Secondo lei lo streaming e la trasparenza assoluta sono un problema per la politica, che ha bisogno anche dei suoi momenti di trattativa non squadernati in diretta web?

Gli “arcana imperii” sono sempre stati un ingrediente fondamentale della politica e credo che lo resteranno. Tanto è vero che anche il M5S ha bisogno di riunirsi a porte chiuse per chiarirsi le idee, rannodare i rapporti interni e deliberare linee di azione su argomenti che fin qui Grillo – il vero interlocutore degli elettori – ha toccato solo marginalmente e i suoi sostenitori ancora meno. Va detto che, finora, la pretesa di trasparenza (rivolta agli altri) è stata uno strumento polemico efficace, così come l’uso delle dirette web per documentare incompetenze, goffaggini, vuote retoriche.

Vede un rischio nel concedere “tutto il potere” alla gente e nel pensare che, leninisticamente, anche una cuoca possa fare il capo di Stato?

Sì, ma non posso ignorare il fatto che sia i politici di professione che i tecnici sono i responsabili unici, più che principali, della crisi della gestione della cosa pubblica che ha provocato quella disaffezione diffusa che oggi percepiamo. E che l’argomentazione populista, di cui Grillo è un interprete di qualità, secondo cui il primo male della politica odierna è la confisca del potere che la democrazia assegna al popolo da parte di élites autoreferenziali e rapaci ha parecchi motivi di fondatezza. Personalmente, ritengo che l’uso ponderato e ben organizzato ma ampio di strumenti di espressione diretta delle prerogative decisionali dei cittadini – un po’ sul modello svizzero, per intendersi – gioverebbe molto al ristabilimento di un rapporto di fiducia fra governanti e governati. Il principio della rappresentanza ha finito con lo svuotare, usando come pretesto l’incompetenza delle masse, il principio secondo cui la legittimità del comando deriva dal popolo. Ma questa, piaccia o no, è l’essenza della democrazia.

Secondo lei è Grillo il vero avversario di Renzi? Vede punti di contatto fra i due?

Non mi sembra che di punti di contatti ce ne siano molti. Si dice che entrambi siano populisti, ma c’è una differenza fondamentale. Grillo offre un esempio di populismo molto vicino al tipo ideale di questa mentalità, di cui sa cogliere gli elementi più diffusi fra la gente, mentre quella di Renzi è una sorta di contraffazione del modello, di cui vengono ripresi solo alcuni elementi stilistici. Entrambi fanno leva sul nuovismo, ma ne propongono declinazioni molto diverse. Il portavoce e ispiratore del M5S si colloca fuori della diade sinistra/destra; il sindaco di Firenze vuole starci in mezzo. Sono certamente avversari, ma non credo che il futuro politico dell’Italia li vedrà unici protagonisti.

venerdì 5 aprile 2013

Intervista ad Alain de Benoist


Come ha scritto bene Eduardo Zarelli, la società della crescita è un’antisocietà. Allora, la decrescita è l’unica soluzione possibile per tornare a essere comunità?

«Che siano di destra o di sinistra, tutti gli uomini politici oggi non vedono altre soluzioni ai loro problemi che quella di un “ritorno alla crescita”. Il problema è che le politiche adottate di rigore e d’austerità pesano sui salari e sul potere d’acquisto, diminuiscono le entrate fiscali e favoriscono la disindustrializzazione, tutte cose che annullano completamente qualunque prospettiva di crescita. Le previsioni degli organismi internazionali sono eloquenti a questo riguardo. Sebbene l’Europa sia entrata in recessione, l’ideologia della crescita è sempre presente negli spiriti. Questa riposa su un mito, che è anche un errore di logica: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. Ora, la Terra è uno spazio finito, dove le riserve naturali si fanno sempre più rare. Sarebbe quindi necessario finirla con l’ossessione della crescita e della produttività in cui sono  confluite tutte le grandi correnti politiche del XX secolo. Ma per far questo bisognerebbe “decolonizzare” l’immaginario economico, arduo compito che non si può portare a termine dall’oggi al domani».

Un tempo si salvavano gli Stati e si facevano fallire le banche. Oggi accade esattamente il contrario: a vincere è l’usura.

«Proibendo alle proprie banche centrali di farsi prestare capitali ad un tasso d’interesse nullo, come accadeva di norma in passato, gli Stati si sono posti  nell’obbligo di chiedere prestiti alle banche ed ai mercati finanziari a dei tassi variabili, arbitrariamente fissati da questi ultimi. Questo si è tradotto in un innalzamento del  debito pubblico che oggi è divenuto insopportabile. Non arrivando a riassorbire i loro deficit strutturali, gli Stati non possono affrontare il problema del debito, se non indebitandosi sempre più. Di fatto, in tal modo si è creata una situazione simile a quella dell’usura.

In Francia, dove l’ammontare del debito ha ormai raggiunto circa 2000 miliardi di euro, ovvero il 90% del prodotto interno lordo (PIL), il semplice pagamento degli interessi del debito equivale a 50 miliardi di euro l’anno. Le logiche usuraie si ritrovano nella maniera in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa sugli attivi reali degli stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo d’interesse dei loro debiti, di cui la parte principale è costituita da una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Le banche ed i mercati virtuali sono i  Shylock dell’epoca attuale».

Il rapporto incongruente tra l’economia speculativa e quella reale è anche dovuto alla virtualità del denaro che rende sempre più arduo stabilire limiti e corrispondenze?


«La decisione presa unilateralmente dagli Stati Uniti nel 1971 di sopprimere la convertibilità del dollaro in oro ha rappresentato la fine del sistema ereditato dagli accordi di Bretton Woods (1944), ed allo stesso tempo ha marcato l’inizio della globalizzazione finanziaria. Il denaro, ormai, non ha più altro referente che se stesso. È nato così un nuovo capitalismo, che si distingue dal vecchio industriale e commerciale per due tratti fondamentali: la sua completa deterritorializzazione (non è più legato ad alcun territorio particolare) e l’espansione della sfera finanziaria a discapito di quella produttiva. Basti vedere le somme che vengono quotidianamente scambiate sui mercati finanziari e in borsa, per constatare come il denaro non abbia più alcun rapporto con l’economia reale».

Il capitalismo e l’immigrazione sono le due facce della stessa medaglia: la destra liberale e affaristica e la sinistra umanitaria e globalizzata.

«Fin dalle sue origini, il capitalismo ha rivelato una profonda affinità col nomadismo internazionale. Già Adam Smith  diceva che la vera patria del commerciante è quella dove può realizzare il massimo profitto. Prendere posizione a favore del principio del “lasciar fare, lasciar passare”, cioè della libera circolazione di uomini e merci, così come ha sempre fatto il capitalismo liberale, significa mantenere le frontiere per gli inesistenti. Dal punto di vista della Forma-Capitale, la Terra non è che un immenso mercato che la logica del profitto ha la vocazione di scoprire integralmente, impegnandosi in una perpetua fuga in avanti. Il capitalismo, come aveva ben visto Marx, riguarda tutto ciò che ostacola questa fuga in avanti in quanto ostacolo da far sparire. In questa prospettiva, il ricorso all’immigrazione appare come un mezzo per mantenere bassi i salari e le conquiste sociali dei lavoratori autoctoni. È in questo senso che l’immigrazione costituisce “un’armata di riserva del capitale” bella e buona. Il paradosso è che molti avversari del capitalismo vorrebbero vedere continuare l’immigrazione, perché s’immaginano di trovare nella massa degli immigrati una sorta di “proletariato di ricambio”. E’ una delle varie incongruenze».

In Italia il potere economico ha scalzato quello politico, con il passivo plauso di quest’ultimo, ca va sans dire. A suo avviso, cosa può capitarci ancora di peggio?

«La cosa peggiore sarebbe senza dubbio che gli Italiani si ritrovassero in una situazione ancora più disperata di quella dei Greci ! È in ogni caso rivelatore che Mario Monti sia arrivato al potere attraverso una sorta di colpo di stato legalizzato. Ed è ancora più rivelatore che una delle conseguenze della crisi finanziaria attuale sia che i Paesi del Sud d’Europa si ritrovino sotto l’autorità di tecnocrati e di finanzieri formati da Goldman Sachs o Lehman Brothers, cioè dai principali responsabili della crisi, mentre le classi medie o popolari, per niente format, sono chiamate a farne le spese. Da ciò emerge chiaramente che la crisi dello Stato-Nazione è interamente legata alla presa di controllo ed alla “neutralizzazione” della politica da parte del potere economico e finanziario, sostituito dall’espertocrazia della Commissione di Bruxelles».

Ritorno al protezionismo, istituzione di un reddito di cittadinanza, eliminazione dell’euro sono alcune soluzioni che Lei propone per salvare l’Europa. Ma come scavalcare la Commissione europea, la Banca mondiale e le imprese multinazionali che sono il bacino del libero-scambismo?

«L’instaurazione di un protezionismo comunitario, la nazionalizzazione delle banche, la separazione delle banche di credito industriale e di deposito, la monetarizzazione del debito da parte delle banche centrali etc. sono delle soluzioni parziali che da sole non basteranno per uscire dal sistema. Una reale rottura consisterebbe nel finirla col principio dell’illimitato e della sovraaccumulazione, che sono alla base dell’espansione del Capitale (la logica del “sempre più”). Per il momento, nessuno sa veramente come arrivarci. È la ragione per la quale la mia impressione è che questo sistema affonderà, ma non abbattuto dai suoi avversari, quanto piuttosto sotto l’effetto delle proprie contraddizioni interne. La fuga in avanti finisce sempre a un muro. È in questo senso che ho potuto scrivere che il sistema del denaro finirà a causa del denaro stesso».

Non abbiamo né una sovranità nazionale, è vero, ma neanche europea. Le guerre di cui scandalosamente ci rendiamo complici, sono una dimostrazione della nostra inettitudine decisionale?


«Ci sono varie questioni a cui rispondere. Il dramma che concerne le sovranità popolari non è che queste spariscano, ma che non si trovino riportate ad un livello più elevato, ovvero quello europeo. Per il momento, la sovranità politica sta scomparendo in un buco nero e il potere decisionale è passato nelle mani dei tecnocrati e dei banchieri.

Le guerre avviate da un ventennio dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, si pongono come “depoliticizzate”, all’occorrenza “umanitarie” a supporto delle operazioni di polizia internazionale. Che sia in Irak, in Afganistan o in Libia, aspettando la Siria e l’Iran, queste guerre sono delle aberrazioni dal punto di vista geopolitico. Si rivelano altrettanto criminali quando si guardano i risultati ai quali hanno condotto. Consacrano infine la scomparsa di fatto del diritto internazionale così come lo abbiamo conosciuto».

Quello che si è evince chiaramente dalla Sua opera è che il capitalismo non riguarda solo la sfera economica, ma l’intero nostro modus vivendi. Per questo non basta un cambiamento, ma occorre una rivoluzione interiore?

«In effetti sarebbe un grande errore guardare al capitalismo solamente come ad un sistema economico. Esso è anche un sistema “antropologico”, nel senso che riposa su un modello umano ben specifico, quello dell’Homo œconomicus, il produttore-consumatore che si presume mirare perennemente alla sola massimizzazione del proprio interesse materiale. Rompere con la logica della Forma-Capirale implica, da questo punto di vista, rompere non solo col produttivismo ambientale, ma anche con l’utilitarismo, lo spirito calcolatore, l’assiomatico dell’interesse, o ancora con l’idea che tutti i valori possono e devono essere ridotti al solo valore di scambio. In altre parole, si tratta di uscire da un mondo dove niente ha più valore, ma dove tutto ha un prezzo. Lei ha utilizzato l’espressione “rivoluzione interiore”. Non è esagerato»

Localizzare significa rendersi autonomi?

«Si può dire questo. L’azione locale, che sia di ordine politico (gioco della democrazia diretta, per rimediare alla mancanza di legame sociale) o economico (rilocalizzazione della produzione e del consumo) può aiutare le comunità viventi a riconquistare la loro autonomia, cioè a dotarsi dei mezzi che permettano loro, conformemente al principio di sussidiarierà (o di competenze sufficienti) di rispondere da sole ai problemi che le riguardano».

mercoledì 3 aprile 2013

Piero Buscaroli presidente di una Repubblica sociale e ghibellina


Gino Strada al Quirinale è sempre meglio di Emma Bonino. Figurarsi il paradosso, allora. Per non dire di Romano Prodi. Ancora una volta meglio il fondatore di Emergency. Pure De Rita, Amato, Celentano, Moira Orfei, suvvia: sono tutti pastorelli del presepe di mezza molatura. E dunque Gino Strada tutta la vita. Al netto della padella, si sa, è sempre meglio la brace. E siccome sulle cose impossibili nessuno ci può contraddire, ecco, un nome – per una Repubblica, sociale e degna della vena ghibellina – io ce l’avrei, ed è quello di Piero Buscaroli. Sarebbe perfetto per il Quirinale, il Busca, ha il volto d’antico romano perché è ancora più antico dei probi viri dell’Urbe. Ha un così radicato orgoglio patriottico da coltivare il sentimento più nobile, quello di odiare gli amici. Ha coniato per se stesso, ma la rubo volentieri, la definizione di “cittadino coatto della Repubblica italiana”. Una volta rispedì indietro, al capo dello stato, la pergamena su cui veniva certificata un’onorificenza non richiesta, un qualche cavalierato per riconoscergli i meriti nella sua inarrivabile competenza in tema di musica e anche lì, con la stilografica, sul retro del diploma scrisse: “Non accetto riconoscimenti da chi non riconosco”. Neppure suo cugino Massimo Cacciari riesce a tenergli testa. Sarebbe perfetto come presidente di una Repubblica ideale perché poi, ovviamente, applicherebbe alla lettera la Carta. Quella del Carnaro va da sé. Integrata coi Diciotto punti di Verona.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

È peggio il mondo "usa e getta" o l'eco fascismo?



Nel 1977 comprai una confezione di punti metallici, trentasei anni dopo continuo a usare quei punti e la confezione è solo a metà. Mi commuove pensare che da ragazzo feci un acquisto per la vita. Peccato che si tratti di un'inezia come i punti metallici. Per il resto i miei cellulari durano un anno, i computer due o tre, le stampanti anche meno. E tutto, dagli alimenti ai vestiti, scade maledettamente sempre più in fretta. In epoca neofrancescana come la nostra, acquista grande importanza la denuncia delle cose pianificate per durare sempre meno.

È uscito in questi giorni in Italia un efficace libretto di Serge Latouche - quel Latouche che piace alla nuova eco-sinistra e alla nuova destra e piace ora ai grillini - intitolato Usa e getta che narra «le follìe dell'obsolescenza programmata» come dice il sottotitolo (edito da Bollati Boringhieri, come le altre sue opere, pagg. 114, euro 14,50). Latouche è l'autore più noto della decrescita felice e dell'abbondanza frugale, due ossimori per rendere dolce il sacrificio e gioiosa la rinuncia. L'obbiettivo è riproporre i limiti dello sviluppo e dei consumi, come si disse nel '72, ma come aveva già detto Mussolini alle soglie degli anni Trenta criticando l'utopia dei consumi illimitati. Il capostipite di questa denuncia di Latouche fu Vance Packard, l'autore de I persuasori occulti, che già nel 1960, mentre noi ci beavamo nel boom economico, in The Waste Makers denunciava la pianificazione del guasto, la vita breve delle cose programmata per tenere vivo il ciclo dei consumi. Prima di lui Thorstein Veblen aveva anticipato considerazioni analoghe nella sua La teoria della classe agiata, anche se lui parlava di adulterazione, non di obsolescenza.

Molti arnesi sono oggi programmati per sfasciarsi presto; e riparare costa più che comprare il nuovo. La filosofia del consumo si basa sulla crescita illimitata fine a se stessa, per nutrire il capitalismo. Ma anche, aggiungiamo noi, per salvaguardare i livelli di benessere raggiunti dalle masse come mai era accaduto. Bisogna saper vedere le cose interamente, da ambo i lati. Però le risorse non sono illimitate e la popolazione cresce a ritmo spaventoso. Il parametro lo indicò il presidente americano Eisenhower che già negli anni '50 per fronteggiare la recessione disse: comprate qualsiasi cosa (mitico precursore di Berlusconi). Latouche così descrive «la giostra diabolica: la pubblicità crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi, l'obsolescenza programmata ne rinnova la necessità». E cita i guru di quest'industria che si autodefiniscono «mercanti di scontento» e si prefiggono di farci «sbavare». Meglio dieci ladri che un solo asceta, così Günther Anders coglieva l'essenza del consumismo e i suoi veri nemici. Alla falsificazione, nota Latouche, è d'ostacolo la tradizione che amava trasmettere anche le cose di generazione in generazione e reputava virtù il risparmio e la durata. Ma in questa prospettiva Latouche finisce con incontrare e rivalutare il fascismo, per la sua politica dell'autarchia, per il riciclaggio delle cose e i prodotti a chilometro zero; ma anche per l'uso dei filobus che utilizzavano il carbon fossile anziché la benzina.

Una lettura significativa al riguardo è la ricerca di Marino Ruzzenenti, L'autarchia verde (Jaca Book, 2011) dove quella politica degli anni Trenta è vista come laboratorio della green economy. Ma il fascismo, va detto, avviò pure un processo di forte modernizzazione e industrializzazione. Più in generale la visione di Latouche collima con quella visione della vita basata su «non sprecare il pane quotidiano» come diceva un manifesto d'epoca, l'elogio del risparmio, l'etica del sacrificio francescano che Mussolini definì «il più santo degli italiani il più italiano dei santi». Temi cari a Latouche che però poi teme nella nostra epoca il sorgere di forme di «ecofascismo».

Ma dove porta la critica catastrofista di Latouche e Dupuy, di Susan George e Paolo Cacciari, degli «obiettori di crescita» contro l'obsolescenza programmata? È sacrosanta la denuncia della fragilità prestabilita delle merci, la loro deperibilità, sia programmata che psicologica o simbolica. È vera la denuncia della scomparsa di tanti mestieri fondati sulla riparazione. Ed è comprensibile il rimpianto del tempo antico, con le sue cose durevoli come i sentimenti. Ricordo anch'io con tenerezza chi risuolava le scarpe, chi riparava e rammendava ogni cosa; da noi c'era perfino chi riaffilava le lamette usate... Ma quel che vale sul piano poetico vale sul piano economico e sociale? Qui risale l'aspetto utopico, l'idealizzazione di pratiche che avevano anche il loro rovescio e si inserivano in un modello di vita che non sarebbe più accettato. E poi come si esce da questa società? Con la catastrofe, dice Latouche che in un altro, recente libro a più mani (Dove va il mondo?, sempre di Bollati Boringhieri) vede come una fortuna: esplode la bolla finanziaria, crolla il sistema finanziario, finisce l'euro. Ma poi la catastrofe si abbatterà sulla vita reale dei popoli, e saranno dolori per tutti, a partire dai più poveri e più deboli.

In secondo luogo la difesa dell'eco-sistema, tra green economy, riciclaggio e limitazione dei consumi, ha efficacia se è una politica mondiale. Se Paesi enormi in crescita come la Cina o l'India si sottraggono a questi limiti, sono imprese destinate alla sconfitta planetaria. Qui emerge il non detto o il detto in modo contraddittorio: per fronteggiare adeguatamente la corsa folle dei consumi e la devastazione del pianeta, occorrerebbe un governo mondiale unico e autoritario. E Latouche da un verso teme il dominio di un Amministratore unico mondiale, un Grande Fratello «decisamente poco fraterno», ma dall'altro riconosce che le misure efficaci in tema ecologico richiedono Stati forti, ampie statalizzazioni, uso in comune di beni durevoli, economie collettive e scelte coercitive. E questo inquieta. Non so se il giogo valga la candela... Ma questo ci riporterebbe nei paraggi del fascismo, ecofascismo o socialfascismo, che alla fine resterebbe l'unico modello coerente con le richieste di Latouche per uscire da questo modello di società; uno Stato forte che decide, interviene, limita e tutela. Altrimenti non restano che risposte puramente locali a problemi che restano però mondiali; e poi class action, appelli e proteste circoscritte.

O l'arcadia, il rimpianto poetico del passato. O la speranza mistica che alla fine solo un dio ci potrà salvare. A questo punto, meglio affrontare le cose con attivo realismo, fuori da utopie e tirannie ma anche fuori da inerzie e complici cecità.

(di Marcello Veneziani)

Se il capitalismo diventa di sinistra


Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.

Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.

Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx a Roberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.

In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.

Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.

Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.

Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.

È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.

Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.
 
La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo.  In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.

(di Diego Fusaro - fonte: www.ariannaeditrice.it)