martedì 8 marzo 2011

La cultura "destrista" è viva e ci sarà anche dopo Berlusconi

Prima o poi se ne doveva parlare. Della diaspora della destra, naturalmente. Come non accorgersene dopo tutto quello che è successo? Ormai, chi ha militato nel Msi e in An, si ritrova un po` dappertutto, tranne che a sinistra. Il capolavoro di Fini, dunque, è riuscito.

Per quanto il grosso delle truppe sia saldamente attestato nel PdL, non mancano gruppi e gruppuscoli nel cui ambito si ritrovino simpatizzati vecchi e nuovi di destra per niente disposti a cedere sul piano dei valori e delle idee. Probabilmente è proprio in Futuro e libertà che è più sbiadita la matrice "destrista" anche se il leader dell'improvvisato (e già agonizzante) partitino sta correndo ai ripari per accreditare comunque una destra dai contorni indecifrabili, dopo aver sperimentato il tormento dell'abbandono da parte dei suoi. Paradossalmente, però, come testimonia il discorso tenuto davanti a pochi intimi domenica scorsa, si ritrova in un indistinto Centro nel quale conta poco o niente.

LA DIASPORA

Della diaspora, comunque, se n'è accorto Mattia Feltri che in un brillante reportage sulla Stampa sottolinea come la seconda Repubblica abbia portato la destra al governo ma distruggendone l'identità. Le cose non stanno proprio così anche se tutto congiura perché in questo modo vengano percepite.

Il big bang finiano è stato il punto d'arrivo di un malessere che proprio l'ex-leader di An aveva fatto crescere fino al punto di non controllarlo più, tanto che improvvisamente, nel febbraio 2008, solitariamente, decise di intrupparsi nel partitone berlusconiano senza aver minimamente tentato di promuovere una discussione almeno tra i dirigenti sui limiti ed i possibili rischi dell'adesione al Pdl. Nonostante tutto, però, e soprattutto malgrado le fughe in avanti di Fini su tematiche di grande rilievo per la destra, dal laicismo al sostanziale ripudio della riforma dello Stato in senso presidenzialista, la destra come tale, e cioè diffusa e comunque operante laddove i suoi elementi si situavano, non ha mai perduto la propria identità, mantenendo intatta la sua cultura di riferimento come dimostra anche l`attivismo dei suoi ministri e sottosegretari, oltre che dei parlamentari stessi ai quali tutto si può rimproverare tranne di non aver svolto il loro compito coerentemente con i principi di una destra dialogante e collaborativa con altre anime del centrodestra.

Dov'è allora il problema che Mattia Feltri giustamente segnala? E nella endiadi, dissoltasi da tempo, tra neofascismo e destra stessa. «Il fascismo fu archiviato con tutto il Novecento - scrive - in sbrigativi congressi o addirittura in isolate e apodittiche sentenze ma, quando sarà conclusa la galoppata di Silvio Berlusconi, è la destra che rischia di svaporare senza un lamento».

LENTA ARCHIVIAZIONE

L'archiviazione del fascismo è stata lenta, progressiva, meditata ed ha preso le mosse proprio da Almirante ben prima che l'astro di Fini si manifestasse. E addirittura, nel 1948 fu Augusto De Marsanich, che i futuristi neppure ricordano, che lanciò un proclama destinato a diventare storico: «Non rinnegare e non restaurare», riferito al movimento dei "vinti" che muovevano i primi passi.

L'esito del lungo lavorio è stato l`uscita dalla "casa del padre", come si disse a Fiuggi, per costruire un soggetto più adatto ad attirare consensi e interpretare nuove istanze nell'Italia bipolare attraverso il quale la destra, più con le idee che con gli apparati, potesse farsi sentire. E presto per dire se la contaminazione sia riuscita. Quel che appare inoppugnabile, provato dal fatto che ne stiamo discutendo, è che essa resisterà anche al dopo-Berlusconi, incarnandosi magari in altre forme e prendendo contezza che i temi con i quali si deve confrontare sono già iscritti nel suo codice genetico: la sacralità della vita e la centralità della persona, il sovranismo negato ma che si fa strada anche tragicamente, la modernizzazione delle istituzioni incentrata sull'elezione diretta del capo dello Stato, la coesione sociale e la sussidiarietà, una certa idea dell`Europa delle patrie e dei popoli unitamente alla difesa dell'identità culturale della nazione italiana non meno che di quelle continentali. A questa destra si può opporre lo scetticismo di tanti intellettuali, ma anche di alcuni politici, che vorrebbero vederla maggiormente protagonista. Ma da qui a concludere che essa non esista, è totalmente ingiustificato. E il caso, invece, che emerga meglio e con maggiore sostanza politico-culturale, non certo per invocare impossibili ritorni al passato, ma per inverarsi in nuove forme salvaguardando la sostanza dei valori ispiratori.

Non so, naturalmente, se tutto questo basti. So solo che le idee sono inestinguibili, magari si trasformano, ma non muoiono quando sono radicate. Perciò se ci si guarda intorno, non mi sembra che alla destra sia stato celebrato un funerale. Qualcuno ci ha provato, ma senza riuscirci: mancava la salma.

(di Gennaro Malgieri)

Il diritto alla vita e i diritti della vita


C'è chi si indigna che la politica si occupi di eutanasia e testamento biologico, tornati ieri alla Camera. Ma se detestiamo la politica ridotta a fuffa e teatrino, sesso e tribunali, affari e pol­trone, non possiamo deprecarla quan­do affronta temi concreti, alti ed essen­ziali che riguardano la dimensione bio­­etica, civile e drammatica della vita umana. Non auspico la politicizzazio­ne della morte, l'uso elettorale di abor­ti, eutanasie, malattie e tragedie perso­nali. Ma la politica sale di livello, ad altezza d'uomo, quando si occupa del diritto alla vita, di famiglia e coppie, di aborto e d eutanasia, di droga e adozio­ni, di violenze ai minori o alle donne. Cinico è il silenzio sulla biopolitica. E senza legge decidono i giudici.

Ogni evento significativo della vita in­veste una dimensione personale ed una comunitaria: c'è una tensione dialettica, anche drammatica, tra la sfera pubblica e la sfera privata. A livello personale, da­vanti all'agonia infinita di una vita che perde in modo irreversibile coscienza e dignità, può insorgere la scelta - non cri­stiana ma umana, molto umana- di non prolungare la sofferenza. Una scelta stoi­ca, nel migliore dei casi, che riconosce una soglia di dignità e sopportazione. La capisco, la rispetto, non chiamerò assas­sino chi la sostiene. Però chi compie que­sta scelta, per sé o per i suoi, si assuma la responsabilità dell'atto. Una giustizia saggia condannerà l'atto ma commuterà la pena in pietas. Sul piano pubblico, sa­nitario e legislativo, salvaguardare la vita è il dovere primario e assoluto. Una vera comunità, tramite il medico, ha il dovere di soccorrere una vita, assisterla e prolun­garla fino a che ci sarà un pur flebile alito di vita e di speranza. Tu puoi decidere di sottrarti, assumendoti però le conse­guenze.

È schizofrenica questa divaricazione tra persona e comunità? Può darsi, ma non vedo soluzioni migliori sul piano umano e civile. È il punto di mediazione più alto tra diritti e doveri, tra etica e soffe­renza, tra libertà e responsabilità, tra pubblico e privato. Per rispettare i diritti della vita senza violare il diritto sacrosan­to alla vita. E viceversa.

(di Marcello Veneziani)

Caro Benito, parto confidando nel tuo appoggio

Il carteggio fra Gabriele d’Annunzio e Benito Mussolini venne pubblicato nel 1971, da Mondadori, con il titolo D’Annunzio, Mussolini e la politica italiana 1919-1938. Nonostante l’autorevolezza dei curatori, Renzo De Felice e Emilio Mariano, è un’opera ormai introvabile e bisognosa di aggiornamenti storiografici: anche per il nuovo materiale - documentario e fotografico - acquisito negli anni.

L’ultimo documento è arrivato al Vittoriale degli Italiani ieri, inatteso, durante la cerimonia per il 73° anniversario della morte del poeta. Una giornata di festa, con la piantumazione di venti cipressi, per sostituirne altrettanti caduti dalla morte di d’Annunzio a oggi e che miglioreranno la posizione del Vittoriale nella classifica dei dieci più bei parchi d’Italia. Poi la donazione da parte del maestro Ettore Greco di una potentissimo bronzo raffigurante, a grandezza naturale, un San Sebastiano, perché quest’anno ricorre il centenario del Martyre de Saint Sébastien scritto da d’Annunzio, musicato da Debussy e interpretato da Ida Rubinstein. Poi l’innalzamento delle bandiere di Pescara, città natale, e di Gardone Riviera - in omaggio ai Gemellaggi Dannunziani, che comprendono già 39 luoghi - alla presenza dei sindaci Luigi Albore Mascia e Andrea Cipani. Infine - ma trascuro molti altri eventi - l’ormai tradizionale donazione di nuovi documenti: la famiglia Cosimi ha depositato quelli del capitano (poi generale) Mario Sani, uno dei principali collaboratori del Comandante d'Annunzio; il collezionista e studioso luganese Giovanni Maria Staffieri, generoso sostenitore del Vittoriale, ha fornito un carteggio fra il poeta e la pittrice Romaine Brooks. Ma Staffieri aveva anche una sorpresa, per me, per amicizia. «La conosci questa?», mi ha chiesto, sornione, all’ultimo momento. E mi ha messo in mano dei fogli con l’inconfondibile calligrafia, su carta con motto «Per non dormire».

È una lettera scritta a Mussolini il 7 settembre 1919, cinque giorni prima della presa di Fiume. Finora si credeva che l’annuncio fosse stato dato al duce del fascismo nascente l’11 settembre, («Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi»). Il nuovo documento, di eccezionale bellezza nella sonorità della lingua, dimostra che i legami fra i due erano più stretti e assidui di quanto si pensasse, e che d’Annunzio sperava davvero nell'aiuto di Mussolini e delle sue squadre in via di formazione, oltre che sul suo appoggio giornalistico: «Confido nel vostro appoggio e sostegno fra coloro che, vili, temeranno questa mano armata. La Storia serberà allori per coloro che avranno operato per il glorioso epilogo. Viva l’Italia!».

In realtà Mussolini non credeva che l’impresa sarebbe riuscita, e si limitò a un sostegno formale, tanto che già il 20 settembre il vate gli scrisse una lettera piena di insulti che il duce ebbe la sfrontatezza di pubblicare, censurata e rimontata, facendola passare per una lettera di lodi. Poi si limitò a promuovere una sottoscrizione per Fiume che fruttò quasi tre milioni di lire. In ottobre consegnò a d’Annunzio, di persona, le prime 857.842 lire, e non si è mai saputo quanto abbia versato del resto; sospettato di essersi tenuto gran parte del denaro per finanziare il fascismo, ottenne una dichiarazione pubblica nella quale il Comandante riconosceva di averlo autorizzato a trattenere una cifra imprecisata per i suoi «combattenti»: i quali, a Fiume, erano una minoranza.

Per troppi anni, fino ai più recenti, si è considerata l’impresa fiumana soltanto come un episodio di acceso nazionalismo, o addirittura la culla del fascismo. In realtà Fiume fu anzitutto uno straordinario, avanzatissimo, esperimento libertario, a partire dalla Costituzione scritta dal poeta e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Anche per questo Mussolini - che stava preparando l'alleanza con i poteri forti, monarchia, Chiesa, esercito, proprietari - non vi credette, e lasciò senza intervenire che nel 1920 Giolitti ordinasse il «Natale fiumano di sangue», facendo attaccare la città dall’esercito.

Nei primi giorni del 1921 cominciò la lenta evacuazione dei militi dannunziani. Il Comandante si trattenne fino al 18 gennaio, in uno stato di scoramento ma anche di orgoglio. Ciò che aveva creato sarebbe rimasto nella storia. «Nudi alla meta», aveva detto d’Annunzio in una delle sue innumerevoli arringhe, aggiungendo che «Chi s’arresta è perduto» e intimando di «Marciare non marcire»: slogan che ricompariranno presto sui muri delle case durante un ventennio del quale il poeta era stato un inconsapevole precursore, insegnando che era possibile ribellarsi allo Stato anche con le armi e a considerare il Capo un demiurgo capace di cambiate la vita di tutti, oltre che la patria.

Mussolini imparò, dalla lezione di Fiume, che era possibile mettere in crisi la classe dirigente liberale facendo ricorso alla retorica del patriottismo, mentre Vittorio Emanuele III dovette rendersi conto di non poter contare sulla totale fedeltà dell’esercito, constatazione che ebbe un peso rilevante nei giorni della marcia su Roma. Come ha scritto Emilio Gentile, l’ideologia realistica di Mussolini «era assolutamente estranea al fervore morale, allo spirito libertario ed autonomista (…) e al confuso ma sincero ribollimento di propositi rivoluzionari dell’ambiente fiumano». Dal fiumanesimo i fascisti presero solo l’apparato esteriore, aggiungendovi il manganello e l’olio di ricino. E mai si sarebbe sentito, durante il regime, il saluto finale che d’Annunzio lanciò dal balcone del municipio: «Viva l’Amore! Alalà!».

Per paradosso sarà proprio Mussolini a annettere Fiume all’Italia, nel 1924, con il Trattato di Rapallo. Ma il risultato non sarebbe stato possibile senza l’impresa di d'Annunzio. Che, giustamente, nella lettera pubblicata qui per la prima volta, conclude: «Finalmente la nuova impresa suggellerà la fine della splendida saga dei Mille, aggiungendo eroi ad eroi».

(di Giordano Bruno Guerri)

Pubblichiamo la lettera datata 7 settembre 1919 di Gabriele d’An­nunzio a Benito Mussolini. Il Vate annun­ciava la sua decisione irrevocabile di assaltare Fiume. La città verrà presa il 12 settembre 1919.

Mio caro Mussolini, siamo finalmente giunti alle bat­tute finali per il giorno da me tanto atteso. I fanti ardono, pronti al Santo Sacri­fizio, uniti nei cuori ai loro compagni futuristi.

Sono queste notti frenetiche di du­ro lavoro, per garantire la conquista della «Cima» per la quale sarà dolce morire.

Il sottotenente Granjacquet mi ha offerto il comando assoluto, che ho accettato e del quale mi onoro. Una febbre insopportabile affatica le mie membra, rendendo tutto più arduo; ma nulla mi può fermare. I motori ormai caldi attendono so­lo la ferma mano che li guidi a compi­mento estremo. Finalmente la nuova impresa sug­gellerà la fina della splendida saga dei Mille, aggiungendo eroi ad eroi. Confido nel vostro appoggio e so­stegno fra coloro che, vili, temeran­no questa mano armata. La Storia serberà allori per coloro che avran­no operato per il glorioso epilogo. Viva l’Italia!

domenica 6 marzo 2011

Dispersa e senza leader la diaspora della destra italiana


D’ improvviso, mentre la Seconda Repubblica volge a sera, la destra non c’è più. Se ne raccattano i pezzi, gli storaciani nel loro semi-ghetto, i berlusconiani aggrappati al governo, i finiani vaganti altrove. Ci sono pure gli apolidi, Domenico Fisichella a casa, i Silvano Moffa e i Pasquale Viespoli perduti nei gruppi misti parlamentari. Il fascismo fu archiviato con tutto il Novecento in sbrigativi congressi o addirittura in isolate e apodittiche sentenze ma, quando sarà conclusa la galoppata di Silvio Berlusconi, è la destra che rischia di svaporare senza un lamento.

Perché adesso? Perché nel lampo di pochi anni? «Perché tutto è finito», dice Pietrangelo Buttafuoco, il più affascinante fra gli intellettuali usciti dal Movimento sociale. L’arrivo della stagione del potere, spiega, ha dato l’occasione a ognuno «di farsi i fatti propri». Alessandro Giuli (vicedirettore del Foglio di Giuliano Ferrara e autore del Passo delle oche , bel saggio edito da Einaudi che quattro anni fa analizzava la sterile identità postfascista e i guai che ne sarebbero derivati) condivide e la spiega così: «Il Movimento sociale era programmato per rispettare una leadership carismatica, magari contendibile ma non contestabile. Fosse Romualdi o Almirante non importava, ci si divideva in correnti, ma davanti a un leader indiscusso».

C’era naturalmente l’istinto di sopravvivenza del branco, dice Giuli. C’era l’arco costituzionale, i fascisti erano i topi di fogna, «e magari nelle sezioni ci si prendeva a cazzotti, ma fuori i comunisti ci davano la caccia. Fuori si rimaneva una falange», dice Giuli. Quando non è più una questione di sopravvivenza, quando arrivano Berlusconi e il potere, «il gruppo dimostra di non avere tenuta. Già nella legislatura 2001-2006, Gianni Alemanno coltivava relazioni col mondo cattolico, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri erano detti berluscones e restavano con Fini per un rapporto personale alla lunga insufficiente», osserva Giuli.

E Buttafuoco rincara: «Una destra al potere la si penserebbe capace di dare una struttura all’establishment, di avere legami stretti con la scuola, con l’università, con la magistratura, con l’esercito. Non è successo niente di tutto ciò. Pure alla Rai, che è l’industria culturale, ci si è limitati a piazzare qualche parente e qualche famiglio». Buttafuoco aggiunge che non è stata formata una leadership, e in effetti le facce sono le stesse da anni. Insomma, è una destra che non resiste a Berlusconi e alla prova del potere. Ma qui Luciano Lanna (firma del Secolo di Flavia Perina e autore del Fascista libertario , un manifesto culturale del neofuturismo appena uscito con Sperling & Kupfer) devia un poco: «Non credo che nella diaspora attuale c’entri la conquista del potere.

Penso si tratti di una scomposizione e ridefinizione post-ideologica. La Prima Repubblica ha tenuto sulla barricata missina persone profondamente diverse fra di loro, e le ha tenute insieme provocando grossi equivoci. C’erano i nostalgici, c’erano i conservatori, ma c’erano quelli come me che di destra non erano, che leggevano Junger e Pavese, che già allora si sentivano più vicini ai radicali, ai socialisti, al giovane Francesco Rutelli che a Storace». La ratifica è di Buttafuoco: «Soltanto per ignoranza ci si stupisce che alcuni fra i finiani dicano cose di sinistra. Ma le dicevano ai tempi dell’Msi... Quello era un partito all’avanguardia, che si permetteva libertà sconosciute ad An o al Pdl e al Fli. Nel Msi c’era dibattito, spazio per tutte le idee, fermento, persino lacerazione. Questo improvviso e recente incendio, questo prevalere delle tensioni culturali, lo trovo molto interessante».

Lo sarà, soprattutto, se contribuirà a un passo ulteriore. Ne dubita Giuli, che considera quelli come Lanna «la cosa più genuina prodotta da Fli». Ma nel loro portentoso ecumenismo culturale, Giuli vede «una danza infinita sopra l’immaginario, da Evola ai Beatles (cita un capitolo del Fascista libertario , ndr)... un clamoroso complesso di inferiorità». Non sarà da lì, dice Giuli, che uscirà una destra nuova. «Il fallimento attuale è figlio della liquidazione del fascismo senza l’elaborazione del lutto, soltanto perché un giorno Pinuccio Tatarella ci disse di levarci i calzoni neri e di indossare la grisaglia. Non si diventa grandi così.

Forse una destra nuova, interessante, sorgerà soltanto al collasso della Repubblica antifascista», è la conseguenza che trae Giuli. E sul punto non è lontano Lanna: «Io non faccio politica dal 1991. Non ho mai votato An ma voterò Fli. E spero che davvero sia arrivato il momento di buttare a mare destra e sinistra. Mi immagino un’alleanza della politica contro l’antipolitica, e soltanto dopo si riuscirà, spero, a cogliere quella fantastica occasione mancata con la Bicamerale del ‘97, quando ex fascisti ed ex comunisti stavano riscrivendo la Costituzione e cambiando la storia».

Un refolo di ottimismo che a Buttafuoco non muove un capello: «Temo che la destra sia legata inevitabilmente a dei blocchi sociali o delle stagioni, e che non sia capace di radicarsi, come dimostra la lunga stagione berlusconiana durante la quale non si è costruito nulla. Osservo. In particolare non mi piace nessuno. Dedico le mie simpatie a Casa Pound, l’unico luogo dove ancora si fronteggia il pregiudizio».

(di Mattia Feltri - fonte: www.lastampa.it)

giovedì 3 marzo 2011

La profezia ignorata: "Una massa di disperati seppellirà l'Occidente"


Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e bar­coni, carica di un milione di emigranti. Poveracci in pre­da alla miseria, intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati, posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro, cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza » per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque? Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...

Nel 1973, quando Le Camp des Saints di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si avvale di una prefazione ad hoc del suo autore, è forse giunto il momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart. Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di quello che una volta si definiva mare nostrum , sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un leader come il britannico Cameron parla del fallimento del multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno afferrare, come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera , che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si presenta e ci schiaccia?».

Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe, credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso, «i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può esserlo anche per Roma?».

Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario, applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute, l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo interno.

La questione dell’immigrazione era ancora in fasce, ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo, la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto (sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali, alloggi eccetera) ha fatto il resto.

Nel Camp des Saints , non è in discussione la religione. Non è la minaccia del fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un attentato alla personalità umana ».

Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto, qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore... Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea...

Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.

(di Stenio Solinas)

Intervista a Marcello Veneziani


In una piovosa giornata di fine febbraio Marcello Veneziani, filosofo, giornalista, scrittore, ma soprattutto pensatore di destra mi ospita nel cuore di Roma, nei pressi del pantheon, dove ogni centimetro dell’urbe trasuda storia, mitologia, destino. Dove Raffaello Sanzio e Vittorio Emanuele riposano in un’atmosfera davvero sacra. Il tema dell’incontro è “Amor fati”, l’ultima sua fatica letteraria. La passione civile con cui risponde alle domande è rara in quest’Italia che sembra essersi dimenticata delle sue origini e, dunque, del suo destino.

“L’ultima traccia del fato è nella superstizione di una data: il 21 dicembre 2012, indicata come la fine del mondo; la fine del mondo è l’unica realizzazione verace e universale del comunismo”. Ecco, perché oggi la superstizione fa proseliti?

Io credo che quando non abbiamo riferimenti simbolici e religiosi significativi, ripieghiamo su fenomeni che Oswald Spengler chiamava di seconda religiosità, cioè forme di superstizione, ed è un tipico fenomeno che coglie le società in crisi, le società in decadenza, e che coglie soprattutto i settori più fragili di queste società, perché magari altri riescono a rispondere mantenendo ancora una coerenza razionale nelle loro risposte. C’è chi invece ha bisogno di irrazionale,e non riuscendo ad avere risposte significative dal punto di vista simbolico e anche mitologico, se le fabbrica attraverso queste forme di bricolage religioso.

Lei afferma, nel suo saggio: “Si vorrebbe consigliare alle masse necrofile e masochiste di visitare piuttosto la cappella Sistina, e godersi il Giudizio Universale di Michelangelo. Almeno lì c’è arte e c’è pure il conforto divino, si muore in bellezza e lì viene a prelevarci il signore in persona. Lei crede in un Dio?

Io mi considero, nel senso di Eliad, “homo religiosus”, nel senso che ho una spiccata tendenza a pensare in modo religioso. Non mi considero tout court un credente, non sono un cattolico praticante, mi considero, se vogliamo, un cattolico sulla soglia, nel senso che sto lì, ho molte incertezze, ritengo che sia stato fondamentale per la civiltà europea l’incontro con il cristianesimo, però dal punto di vista cattolico e religioso non me la sento di definirmi un credente. Ecco, però, rispetto a questi fenomeni di seconda religiosità, dico: “Viva la tradizione cristiana”.

Perché oggi la famiglia, l’amor patrio e il senso religioso si sono dissolti e, come Lei dice, “sono in caduta libera”?

Perché ci siamo centrati sull’individuo, cioè riteniamo che un individuo possa essere autonomo e autosufficiente, cioè possa bastare a se stesso e possa prescindere da ogni contesto comunitario e trascendente, e quindi possa tranquillamente fare a meno di contesti come la famiglia, la patria, e dall’altra parte il senso del sacro. E’ questa forma euforica, che poi è diventata depressiva, di auto-sufficienza totale, che produce questo effetto, e quindi questa crisi.

”La nostra, Lei afferma, è una civiltà che celebra la libertà come rescissione da ogni legame umano e trascendente”. Storicamente, il ’68, ha influito su questo concetto di “libertà liberata dall’essere e dal lògos, che esprime invece connessione”?

Sì, credo che il ’68 sia stata nella nostra epoca la svolta, nel senso che nel corso della storia si possono individuare tanti momenti in cui c’è stato un giro di boa, dall’avvento della modernità in poi, ma riguardo alle nostre ultime generazioni, credo che il ’68 sia stata l’ultima rivoluzione verso il niente, l’ultima rivoluzione rispetto ad ogni connessione con il sacro, con la tradizione, con la responsabilità, con tutto ciò che ci lega al mondo con un vincolo di ordine e responsabilità. E io devo dire, avendo scritto anche un libro dedicato al ’68, non considero tanto il ’68 circoscritto nel suo movimento storico, sociale. Lo considero una specie di chiave d’accesso, di password, per indicare un’epoca, un’epoca che possiamo chiamare epoca del ’68 ma che è stata per certi versi precedente al ’68 e per altri versi successiva. Un modo per abbreviare il passaggio di un’epoca.

Dopo la caduta del muro, sostiene, è avvenuta sia una globalizzazione ossessiva, sia il rafforzamento delle identità. Non crede che oggi la nostra identità sia seriamente messa in pericolo, in primis dalla globalizzazione, e in secondo luogo dal mondo islamico?

Sicuramente. Io ho confidato sulla possibilità che l’identità si ridesti proprio perché minacciata; cioè il pericolo dell’identità può alle volte suscitare un dispositivo reattivo in senso spirituale ed intellettuale, che possa consentire di recuperare e di risvegliare l’identità. L’identità ovviamente non è un’entità ferma, fissa, statica; l’identità è sempre nel flusso del mutamento. Per questo io preferisco parlare di tradizione, che è un’identità che si muove, che si evolve, pur mantenendo elementi di costanza e di fedeltà. E credo che sicuramente l’identità oggi sia schiacciata da un verso da conati di integralismo, che poi possono essere di natura localistica, per alcuni versi, ma soprattutto di natura religiosa, nel senso del fanatismo religioso islamico, dall’altra. E dall’altra parte il grande fenomeno della globalizzazione, che sicuramente mortifica, deprime l’identità, e quindi suscita un desiderio di in appartenenza, che produce lo spaesamento, quella che si chiama de-territorializzazione, de-localizzazione, tutti fenomeni legati allo sradicamento.

Altro tema molto importante che affronta è il progresso. Lei afferma che “il progresso è inumano sia nella sua genesi che nel suo sviluppo, poiché riduce l’uomo a mezzo di locomozione della storia per il suo appuntamento eternamente rinviato col progresso”. Cosa pensa del rapporto fra fede e progresso?

Io credo che il progresso, se applicato ad ambiti relativi, cioè la tecnologia, la scienza, lo sviluppo, il benessere, sia un dato di fatto. Non sono dell’idea di demonizzarlo. Critico la convinzione che il progresso sia una sorta di schema teologico, metafisico, entro cui noi siamo inseriti e quindi noi siamo una sorta di esperimento per l’uomo che verrà, siamo sempre delle imperfezioni che vanno mandate al macero o al mattatoio della storia come diceva Hegel, per consentire una generazione ancora migliore. E da questo punto di vista credo che sia una perversione del disegno teologico. Il disegno teologico parla di una metanoìa, di un rinnovamento e quindi di un cammino verso Dio, ma non ritiene che le generazioni siano un mezzo rispetto al fine del progresso; ritiene che ogni uomo sia un fine in sé e quindi ogni persona realizzi in sé questo progresso. In altri termini: c’è una differenza di fondo fra il progresso religioso, che potremmo definire con San Bonaventura l’”itinerarium mentis in deum”, cioè il cammino verso Dio, che è un cammino della mente, quindi dello spirito; e dall’altra parte la convinzione che la storia produca Dio, cioè che Dio si faccia attraverso la storia. Questa è un’idea profondamente anti-umana perché considera gli uomini soltanto le pedine per poi raggiungere gli stadi più avanzati.

Nel saggio, Lei collega la scomparsa di Dio dalla nostra epoca con la scomparsa della comunità. In che senso?

Anzitutto dobbiamo risalire al significato etimologico di religione, che è un legame. Un legame non solo con il trascendente, ma anche con gli altri, cioè una comunità improntata all’amor di Dio o al timor di Dio, a seconda dei punti di vista. C’è un nesso strettissimo fra la fede in Dio e la convinzione di avere un comune destino con gli altri uomini. Tutto questo fa parte di una tradizione, di una civiltà. Indubbiamente si può immaginare un rapporto di solitudine fra l’Io e Dio, ma sicuramente nella nostra solitudine, nel cuore della nostra solitudine, vibra comunque un rapporto consolidato con ciò che ci ha preceduto, con chi ci ha generati, con chi seguirà. Siamo inevitabilmente, nel momento in cui dialoghiamo con Dio, non soli, ma con altri. Dunque c’è una comunità, che per i cristiani è l’ecclesia, cioè la vera e propria comunità religiosa che dà luogo a questo incontro col divino. In altri termini, non si può prescindere dalla triplice dimensione che ci caratterizza, cioè quella personale, quella comunitaria e quella trascendente.

L'amor fati è “non solo amore di ciò che accade e di ciò che ci assegna la vita, ma regale distacco ,rispetto agli eventi e agli esiti, del nostro agire, signoria della vita rispetto alle dipendenze del mondo, attenzione senza apprensione per il giorno che viene”. Ciò sembra essere d’impaccio per l’uomo contemporaneo rispetto alla sua volontà di realizzarsi come uomo.

Sicuramente si considera la realizzazione dell’uomo attraverso una sorta di svincolamento continuo da ciò che ci lega, ciò che ci caratterizza, ciò che ci appartiene, nella convinzione che la perfezione sia l’infinito, la non finitudine, la rottura con tutto ciò che ci delimita in un corpo, in un luogo, in una civiltà, in una famiglia. Non si avverte che una libertà assoluta è la negazione della libertà, perché se una libertà non ha come punto di riferimento i limiti di una persona, i confini di una persona, ciò che una persona è attraverso la sua caratterizzazione fenomenica, storica, positiva, si rovescia nel suo contrario: la libertà come dispersione in un etere incerto e la perdita nell’assoluto dell’Io, e quindi il nichilismo.

Proprio venendo al nichilismo, da Lei già individuato come nemico interno della società nel suo precedente saggio “Contro i barbari”,oggi sotto che forme si presenta? E le nuove generazioni sono davvero nichiliste?

Io credo che non solo le nuove generazioni, ma anche quelle più mature sono improntate al nichilismo. Quello che noto, ed è l’unico elemento di conforto in questa visione disperata della realtà è che comunque, nonostante questa percezione di insignificanza, di nulla che caratterizza la vita, noi lo stesso compiamo atti ordinari, ci appassioniamo a cose anche passeggere, pur sapendo che sono insignificanti, perché evidentemente c’è un dispositivo ontologico dentro di noi che ci porta a non immaginarci soltanto versati nel nulla, ma ci porta a considerare che in noi c’è una traccia di qualcosa che sopravvive, qualcosa che resta; e quindi io credo che le nuove generazioni abbiano ulteriore percezione del nulla, del nichilismo, ma che anche in loro ci sia questa istintiva reazione all’andare verso il niente, verso il vuoto. Non riusciamo a pensare se non ordinando, connettendo; e non riusciamo ad agire se non sperando. Quindi abbiamo dentro di noi un dispositivo che ci porta a vivere nonostante il nichilismo. E quindi alle volte vorrei dire che il vero antagonista del nichilismo è la realtà, cioè il senso della realtà. E questo spiega anche il significato più profondo di amor fati: Amor fati è l’amore della realtà, è amare la realtà com’è, quel che noi siamo, e quindi partendo da questa accettazione della realtà, ci poniamo già in una posizione che tende a superare il nichilismo, perché la realtà ci dice che le cose ci sono, profumano, esistono, ci guardano, ci ispirano, ci nutrono; e di conseguenza in questo legame col mondo, in questa connessione col mondo, noi conferiamo senso al mondo e quindi ci allontaniamo dal nichilismo.

Quali i rimedi?

Bisogna partire dalla ontologia, dalla realtà delle cose, non dai valori, perché i valori sono una conseguenza della realtà. Nel momento in cui noi guardiamo la realtà, assegnamo significato alla realtà, per fare un esempio concreto ed elementare: se riteniamo che sia significativo che io sia nato da due persone, che sono quelle dei miei genitori, e io assegno un valore, a quel punto, al rapporto con i miei genitori, lo faccio in conseguenza del fatto che ho riconosciuto questa realtà, questo fatto ontologico, biologico, spirituale, per cui io derivo da quelle due persone. E allora è partendo dalla realtà che dobbiamo tentare di superare il nichilismo. Partendo dalla realtà e poi conferendo senso e quindi valore alla realtà.

”L’uomo, liberandosi dal sacro, credeva di acquisire maggiore libertà, trasferendo i beni dal cielo alla terra, invece il senso della sua vita è stato riposto fuori da sé, trasferito su altri soggetti e perfino su altri oggetti, ricalcando all’inverso il cammino dalla religione all’idolatria”. Ecco, intende dire che chi rifiuta il sacro è schiavo della sua libertà, rimanendo etero-diretto dai beni materiali, che per lui sono il mezzo per auto realizzarsi?

Sì, per certi versi sì, per altri versi si può dire anche un’altra cosa, che chi non accetta questo legame significativo con il sacro, alla fine subisce altri legami infimi con le cose che alla fine vengono sacralizzate e che diventano oggetto di totem, e quindi la stessa tecnica, tutto ciò che a quel punto supplisce al vuoto del sacro assume un’importanza sacrale per noi. Quindi avviene sia l’uno che l’altro: sono due fenomeni congiunti che sono, se vogliamo, anche delle spie del nostro bisogno comunque di dare senso alle cose; e quando non riusciamo a darlo, ci aggrappiamo alla nuda, matematica certezza di alcuni dati tecnici per supplire a quella assenza di significato.

Un saggio uscito proprio in questi giorni, dal titolo “Crocifisso di stato”, di Sergio Luzzatto, pone ancora una volta il problema del crocifisso nei luoghi pubblici, e fa riaffiorare il rapporto conflittuale fra Civiltà e Tradizione da un lato, costituzione formale e principio di non discriminazione dall’altro. Cosa si sente di dire?

Io credo che il crocifisso in un luogo pubblico non è un atto confessionale; è il riconoscimento di una tradizione. E’ il riconoscimento, in uno spazio pubblico, di qualcosa che ha caratterizzato la nostra civiltà. Quando si parla di religione civile, e se ne parla anche da una prospettiva laica, perché la religione civile è stata in auge ai tempi dell’epoca pagana, cioè della romanità; è diventato un motivo di riferimento di Machiavelli, che era un pagano; Russeau stesso ha fatto riferimento alla religione civile. Ma la religione civile che cos’è se non la traduzione in un linguaggio comune, civile appunto, storicamente condiviso di tradizioni, convinzioni, simboli, miti, riti, che derivano anche dalle tradizioni religiose. Quindi il crocifisso va visto come il segno di una civiltà. Noi siamo stati permeati per 2000 anni da quel simbolo, e quella è una ragione per dare identità. Poi chi è credente a quel simbolo riconoscerà un valore molto più importante, quello di legarci al divino, di darci una prospettiva meta-umana, meta-storica; e invece chi non ha questa prospettiva religiosa riconoscerà comunque nel crocifisso i suoi padri, i suoi avi, le epoche che lo hanno preceduto, il fatto che gran parte della nostra arte è nata all’ombra di quel simbolo, il fatto che Raffaello, Michelangelo, Leonardo, abbiano dipinto grandissime cose nel nome di quella fede. Mi pare un segno di ipocrisia, o addirittura di nicodemismo, come direbbero i teologi, cioè l’andare a trovare Cristo di notte, questa idea di nascondere i simboli religiosi.Sono il linguaggio della nostra comunità, per questo io credo che vadano accettati. Ciò non impedisce ad altri di coltivare altri simboli, però nello spazio pubblico è bene che ci sia ciò che ha caratterizzato per millenni la nostra comunità.

E a chi obietta che con la revisione del concordato nel 1984 il cristianesimo non è più la religione di stato cosa risponde?

Io non sono dell’idea di restaurare la religione di stato. Io parlo proprio dell’dea che la tradizione civile del nostro paese è permeata anche di simboli religiosi; e quindi, nel nome di questa tradizione secolare, che riguarda il nostro immaginario collettivo, le generazioni che ci hanno preceduto, la storia, è giusto che il crocifisso stia nei luoghi pubblici. Pensiamo che per esempio anche l’atto più laico della nostra storia, il risorgimento, ha derivazioni religiose: la stessa parola viene da resurrezione, il primo saggio sul risorgimento l’ha scritto un gesuita, Bettarini, la prima teoria del risorgimento è di Gioberti. Questo per dire che persino un evento storico, laico, con un’impronta anti-clericale e massonica ha avuto una derivazione religiosa. Quindi perché dovremmo ritrarci di fronte a questo simbolo? E’ un simbolo importante e significativo da un punto di vista civile,e non da un punto di vista meramente confessionale.

In questo periodo, per ovvie ragioni, si parla molto dell’Unità d’Italia. A suo parere, l’unità non ha indebolito ulteriormente dall’interno le nostre tradizioni, già minacciate dall’esterno?

Io credo che l’unità sia stata responsabilità reciproca: sia della chiesa e dei cattolici da una parte, sia dei fautori del risorgimento, dei sovrani, dei condottieri questa separazione , questo divorzio. Ed è stato un po’ il limite della nostra unificazione, perché se avessimo tentato di mettere insieme la tradizione che ha permeato l’Italia con il processo unitario probabilmente avremmo oggi una visione più matura, avremmo anche un’etica condivisa del risorgimento che ha tentato di mettere ai margini la tradizione cattolica; e dall’altra parte c’è stata una reazione cattolica clericale tesa a sminuire il valore dell’identità nazionale. E’ stato un errore, anche perché l’unità nazionale è stato il coronamento di un processo storico antico che deriva profondamente da radici laiche e religiose al tempo stesso. Non saremmo italiani se non concepissimo alle nostre origini un padre e una madre che sono l’impero romano e la chiesa cristiana. Sono quelli i genitori dell’Italia. E’ il Medioevo cristiano che affonda le sue radici nella storia d’Italia. Lo ha spiegato Gioacchino Volpe: la lingua italiana è permeata di questi umori. E tutta la storia, l’arte della configurazione religiosa io credo sia la rappresentazione più evidente; “I promessi sposi”, l’opera che coincide col processo risorgimentale, è permeata di valori religiosi. Quindi tentare in modo disincantato, laico, adeguato al nostro tempo, un incontro fra queste due sensibilità credo sia una ricchezza, tanto per l’aspetto civile dell’unità d’Italia, quanto per l’aspetto religioso.

(fonte: www.ildemocratico.com)

mercoledì 2 marzo 2011

L’Islam si libera. Anche di noi


Ero in Marocco, fino a qualche giorno fa. Leggevo i giornali europei e constatavo che molto suonava falso, che molto non tornava. Qualche giorno prima del 20 febbraio, mi avvertirono che in quella data si sarebbero mossi anche i marocchini: a Rabat, a Fez, a Casablanca, forse anche a Marrakesh e a Tangeri. Con maggior ordine, con minor durezza. «Il Marocco non è l'Egitto», mi dicevano: qui la gente è più disciplinata e la situazione sociale, politica ed economica migliore. Ma è anche gente più dura, e c'è una situazione etnica complessa - come in tutto il Maghreb - per via delle minoranze berbere. Quel che noi pensiamo sia soltanto tensione politica, in buona parte del Nordafrica è anche etnica e tribale: lo si è visto in Libia. Ma insomma, che cosa sta succedendo? Da noi, i media sono in evidente difficoltà nel comprenderlo e, peggio ancora, nello spiegarlo. I due elementi che parrebbero emergenti si mostrano altresì, quanto meno se tradotti nel linguaggio divulgativo con cui si cerca di affrontare la politica internazionale, contraddittori. Da una parte, si dice, questa gente ha voglia di «democrazia», di «entrare nella Modernità». Dall'altra, si teme ch'essa si faccia plagiare e conquistare dai «fondamentalisti» o addirittura ceda alla violenza o al ricatto di al-Qaeda. Cominciamo a far giustizia di un colossale e infondato luogo comune. «Al-Qaeda» non esiste. Non che non ci siano - intendiamoci maggiori o minori centrali di terrorismo nel mondo musulmano. Il punto è che sia i musulmani più estremisti e antioccidentali, sia le fonti politiche e informative occidentali meno inclini all'intesa o al dialogo, si sono da tempo appropriati con paradossale concordia di questa specie di «iperleggenda metropolitana internazionale» dei giorni nostri. Nata come pura e semplice espressione convenzionale («al-Qaeda» significa «base») per indicare una ventina di anni or sono, al tempo della «prima guerra del Golfo», qualunque gruppo o gruppuscolo terroristico in grado di appoggiare alla sua azione militare un minimo di propaganda politica, la parola ha finito col venir usata in senso intimidatorio sia dai terroristi per intimidire i loro avversari, sia dai fautori della repressione indiscriminata per allarmare le rispettive opinioni pubbliche spingendole a credere che tutti i musulmani non filo-occidentali fossero dei fondamentalisti, che tutti i fondamentalisti fossero terroristi e che tutti i terroristi fossero collegati tra loro da un'istituzione politico-militare coordinatrice comune e da una generale concordia d'intenti. Al-Qaeda, in questa sorta di costruzione mitopoietica, è divenuta qualcosa di molto simile all'Organizzazione Spettro dei film di OO7 di alcuni anni fa. Siamo davanti a un mostro immaginario che ricorda da vicino le varie organizzazioni di congiurati cari fin dal Sette-Ottocento alle varie «teorie del complotto»: Umberto Eco ne ha parlato nel Cimitero di Praga. Al-Qaeda somiglia ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion.

Il che non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama della fitna, la «guerra civile» che coinvolge da anni l'intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e fondamentalisti da una parte e «progressisti-moderati» dall'altra. E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure, di mondo arabo e d'islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos'è andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po' meglio le cose come stanno e non lo ha fatto? Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole «la gente»? Ce l'hanno o no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla? Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la «democrazia»? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che abbiamo tentato di «esportare» in Iraq e in Afghanistan? Se si ribellano contro delle dittature in nome della democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche. Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola «democratura» per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose? Prendiamo l'Egitto e i «Fratelli Musulmani». Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo all'interno dell'Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari «moderati» che gli sono tenuti dietro («moderati» in senso internazionale, in quanto amici dell'America e non avversari giurati d'Israele) li hanno duramente e ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giocare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici «fondamentalisti». Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li abbiamo sentiti parlare, e ci siamo resi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro.

Ma che cosa faremo, se alla prima competizione elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome della democrazia? O stabiliremo che la «loro democrazia» non è la «nostra», e per esportare quest'ultima o qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate: è già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta, e non è che sia andata bene. Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Questa gente ci conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non egoistico?

(di Franco Cardini)

Il lungo viaggio da Monteverde a Montecarlo


Mi ha impressionato vedere Fini col viso pallido e provato e due orec­chie rosse. Di un rosso fuoco, come se lo avessero appeso per le orecchie. O come se la vergogna si fosse rifugiata nelle orec­chie. Fini sta tentando di riaccreditarsi a destra. Io non gli ho mai rinfacciato di aver tradito Berlusconi, ma di aver di­strutto proprio la destra, di aver tradito i suoi elettori e reso ingovernabile l'Italia. E di aver consegnato il governo nelle ma­ni della Lega, che non seppe controbilan­ciare. Fini è stato un magnifico sabotato­re di tutti i partiti che ha guidato. Liquidò il Msi (che oggi riaffiora in Rivolta Idea­le), cancellò la destra nazionale, abortì l'Elefantino, chiuse An e ora sfascia il neo­nato Fli: prima sbanda a sinistra, poi sgomma al centro, ora testacoda a destra. La trovata più geniale per cancella­re la fiamma fu l'invenzione della cocci­nella come simbolo del partito; nello spot l'insetto con i suoi escrementi trac­ciava la sigla An. Un partito nato dalla diarrea di un insetto non è destinato a grandi cose.

Straordinario anche il suo fiuto sugli uomini. C'era un giudizio una­nime in giro: Bocchino non si sopporta. Ma che si crede d'essere, ma da dove è uscito, ma a che titolo minaccia. Il più detestato. E lui ha scelto proprio Bocchi­no alla guida del suo partitino, sacrifican­do pure i suoi fedeli giapponesi che si era­no dimessi per lui dal governo. Di strate­ghi come lui ne nasce uno al secolo.

Si è fatto prendere dal livore: verso Berlusco­ni in primis, poi verso i colonnelli, verso i giornali di destra, verso i suoi stessi vo­tanti. Si era convinto che potesse fare a meno di tutti, alla fine pure dei marescial­l­i che lo hanno seguito nella missione sui­cida. E ora li considera allucinati o vendu­ti. Non dirò la stessa cosa di chi lo segue ancora: tra loro c'è pure gente rispettabi­le e in buona fede. Ora tenta di ricominciare da capo. Ma­gari andrà a rivedersi Berretti verdi con John Wayne, come fece a sedici anni, e poi si iscriverà al Fronte della gioventù, sezione pensionati. Ma sarà credibile quando lascerà Montecitorio e Monte­carlo e tornerà a Monteverde, da cui par­tì ragazzo. Fini che sorgi libero e giocon­do.

(di Marcello Veneziani)