sabato 29 maggio 2010
«Mussolini diceva “noi”, Silvio solo “io”»
Sovrani senza lobi frontali
Non è nemmeno troppo arduo: l’accordo di Bretton Woods risale al 1944, un anno prima che finisse la guerra... Il nemico da abbattere, allora, era l’asse RO-BER-TO: Roma, Berlino e Tokyo. Cosa avevano in comune questi tre Paesi alla vigilia del conflitto? Avevano ritrovato la sovranità monetaria nazionale. Germania ed Italia emettevano la loro moneta, sotto forma di Biglietti di Stato a corso legale. Se lo facessimo ancora oggi, risparmieremmo circa 350 miliardi di euro all’anno. Soldi che oggi spendiamo per “servire” il debito pubblico. Bastava una tipografia, ed eravamo ricchi.
Bastava lasciare il compito di emettere le banconote al poligrafico di Stato ed impedire alle banche di mettere al passivo la massa monetaria che creano, tramite false scritture contabili, in modo da poter così prelevare una somma come rimborso della rendita monetaria allo Stato.
Non voglio passare per revisionista né per visionista (o sionista, tout court). Ma esiste un dovere che gli storici hanno dimenticato: raccontare i fatti. Non solo gli storici per la verità. Un po’ tutti - non avendo capito internet - si ostinano a divulgare una versione malata della realtà. Ed è ovvio che se si insiste a vivere in un mondo di fantasia, il paese delle meraviglie di Alice, allora tutto è possibile. Anche che falliscano le banche - uniche aziende che hanno il potere di creare denaro con la tastiera del computer… in cambio delle lacrime e sangue dei cittadini. Ovvio che su internet la verità dilaga.
Tra un po’ la insegneranno anche all’università, appena quei poveri malati che si ostinano ancora con la propaganda, non si renderanno conto che la loro guerra a bassa intensità - contro la realtà - è già persa in partenza.
Quindi, rileggiamo gli anni di piombo alla luce degli obiettivi raggiunti dai terroristi:
1982 - Divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia.
1991 - Trattato di Maastricht. Piano piano tutto torna, tutto acquista un senso, alla luce della sovranità perduta. Ed è facile perderla la sovranità
- se si passa da monarchia a repubblica senza spiegare quali sono le prerogative del sovrano, tra cui c’è il batter moneta. Una volta capito che l’unità d’Italia è stata voluta per consolidare i debiti degli Stati-regioni che sono andati a formarla, e che la prima legge unitaria fu la creazione del Gran Libro del debito pubblico... non ci vuole mica John Nash per fare due più due. E’ evidente: si è lasciato quasi sempre - a parte il ventennio della rivoluzione fascista - il potere di batter moneta in mano a banchieri anarchici privati. Così si spiega come funziona il bidone vuoto delle famiglie italiane dell’élite: volgari falsari. Piegato lo Stato alla truffa del debito pubblico, le rendite dei nati stanchi sono assicurate.
Tutto il resto del Paese, sottomesso da uno Stato che appena si rivela nel suo pieno squallore - una specie di mafioso che estorce il pizzo del signoraggio privato ai suoi ignari cittadini - crolla da sè. Perché l'idea dello Stato si basa sulla fede. Una volta che la Guardia di Finanza - appoggiata da una magistratura oggi sonnacchiosa - si sveglia e capisce, altro che yacht di Flavio Briatore!
Dove hanno sbagliato i banchieri che pure avevano comprato tutta l’omertà possibile? Hanno sbagliato perché anche loro sono digiuni del concetto di sovranità moderna. Abituati da sempre a trattare con le corrotte famiglie monarchiche - dividendosi la torta alla faccia dei cittadini - non si sono resi conto che oggi è proprio con i cittadini che dovranno fare i conti.
Sarebbe stato facile - e forse lo è ancora - decidere di rimborsare alla cittadinanza almeno una quota del signoraggio depredato, magari sotto forma di reddito di cittadinanza. Oppure, chessò, la Banca Centrale Europea poteva tramite le sue occulte Operazione di Mercato Aperto, iniettare denaro direttamente ai correntisti - purché questi ultimi avessero rinunciato - in una nanoclausola del contratto d'apertura di conto corrente - alla gestione diretta della rendita monetaria.
Ma no. Per la Banca Centrale Europea siamo tutti fessi, persi come siamo dietro al campionato di calcio ed alle querelle infinite - quanto inutili - di destra contro sinistra e viceversa.
La BCE crede ancora che la gente creda che la gestione dell'emissione di denaro sia in mani rispettabili. In una élite di illuminati che - rigorosamente per il nostro bene - decide di allocare gran parte del credito nelle mani degli amici degli amici.
Secondo la BCE, le forze speciali non si accorgeranno mai che vengono mandate a morire in inutili guerre radioattive... vere e proprie missioni di usury-keeping. Per i marziani della Eurotower, il business può continuare come prima. Tanto, la truffa dura dal 1694, dalla fondazione della Banca d’Inghilterra, a parte qualche breve parentesi punita con assassinii mirati, tipo Kennedy, Allende e Che Guevara. O Mattei, Pasolini ed Aldo Moro, per rimanere da noi...
Quindi, alla Eurotower, la sede maestosa della BCE, il vero potere occulto, la spectre che ci sta affamando, il vertice della pirlamide bancaria, dormono sonni tranquilli.
Tanto chi vuoi che legga quello che sto scrivendo, ventimila persone al massimo.
Auguri e buona continuazione. Per il buon senso, c’è sempre tempo.
E poi, male che vada, che ci vuole a circondare la torre ed arrestare tutti?
(di Marco Saba)
«Repubblica», la santa sede delle falsità
Ieri è stato distribuito ai credenti il nuovo messale dell’Espresso che recava in copertina le sacre immagini del Padre Eco e del Figlio Saviano ed un titolo vagamente biblico: un NOI, gigantesco, contro la legge. Il Padre, Umberto Eco, ha esortato dal Monte Sinai i credenti a resistere resistere resistere perché siamo al colpo di Stato strisciante. Il Figlio, Roberto Saviano, ha annunciato di disobbedire alla legge dell’impero del male, Berlusconi, in materia di intercettazioni, e lo Spirito Santo, Adriano Sofri, ha difeso il Figlio di Dio dall’eresia del Manifesto che ha osato, tramite Del Lago, criticare Saviano e il Libro Sacro, Gomorra. Noi che non facciamo delle nostre idee un dogma di fede, non bruciamo gli eretici e non consideriamo la lotta politica come la guerra finale tra il Bene e il Male, sappiamo distinguere. Sappiamo, ironie giocose a parte, che Scalfari è un Signor Giornalista e giudichiamo perfino interessante la sua senile conversione alla filosofia e a Nietzsche. Sappiamo che Monsignor Ezio Mauro il suo mestiere di Prefetto del Sant’Uffizio lo svolge bene, con meticolosa faziosità ma anche con vera professionalità.
Che Umberto Eco è un Grande Intellettuale e merita un premio alla carriera. Che Adriano Sofri è un vero intellettuale anche se non merita un premio alla carriera. Che Roberto Saviano è un coraggioso giornalista, non ha torto sulle intercettazioni, su cui scrive cose di buon senso, che non è dogmatico come i suoi concelebranti e ha scritto un libro importante e comunque positivo. Come vedete, non c’è disprezzo irriguardoso verso nessuno di loro e rigetto pregiudiziale delle loro opinioni; e ciò nonostante il loro atteggiamento arrogante nei confronti di chi non la pensa come loro, nonostante il loro disprezzo a priori e la loro finzione d’inesistenza di chi dissente dal loro catechismo. Però guardiamoci negli occhi e diciamoci la verità: ma credete veramente che siamo davanti ad un golpe strisciante? Vedo molti strisciare, ma golpe non ne vedo proprio l’ombra. Mi pare,anzi, che in questo paese non si riesca a fare un grande riforma strutturale, un taglio vero alla politica, o una politica in favore del merito, come sognava Brunetta, proprio perché il potere è un’entità ineffabile, astratta, soggetta a mille vincoli europei, burocratici, parlamentari e a cento ricatti, mediazioni, compromessi. Ma vedete pure la legge sull’intercettazione, non riescono a vararla. E io sono contento, vi dico la verità, perché così non mi piace; ma vi pare che un potere golpista sia impotente a varare perfino una legge del genere? Vi pare possibile che un dittatore non riesca a far passare nemmeno una legge, pur contando su un’ampia e democratica maggioranza? Vi pare golpista un governo che ha dovuto perfino rimangiarsi l’abolizione di dieci piccole province (e menomale, era un infanticidio assurdo, perché bisogna eliminarne tutte, a cominciare dalle più costose e non certo dalle più piccole e meno costose)? Vi pare golpista un governo che manda il suo ministro dei beni culturali a inaugurare una mostra e il pubblico gli fa buu e gli impedisce di parlare? Vi pare golpista un governo che non può mandare un suo ministro a ricordare la strage di Bologna perché teme di essere contestato pur non c’entrando nulla con i governi dell’epoca e con la strage? Vi pare golpista un premier che invita la presidente della Confindustria a entrare nel governo e lei rifiuta a scena aperta con l’appoggio della platea? È grottesco che questa denuncia di golpe strisciante avvenga proprio mentre Berlusconi, citando avventurosamente Mussolini, dice di non avere potere se non sul proprio cavallo. O volete dire che il golpe lo sta facendo il colonnello Tremonti con i sacrifici imposti e la finanziaria? Ma la stessa manovra la stanno facendo in tutta Europa, ieri nella Spagna di Zapatero. Via, non scherziamo.
Per finire vorrei notare l’indecorosa vecchiaia a cui è stato condannato dalla sua stessa Chiesa Umberto Eco. Viene invocato ed esposto come una sindone ogni volta che deve esprimere anatemi contro il nemico del popolo di Repubblica e per certificare, dall’alto della sua Infinita Sapienza, che ci troviamo in stato di peccato: per dirla in latinorum, meo golpe, meo golpe, meo grandissimo golpe. Come un ayatollah del laicismo tocca a Eco giustificare la fatwa, applicare la sharia e ad esortare alla jihad. A chi e a cosa vuol resistere, egregio professore, se non ai brutti effetti della vecchiaia e al rischio di suonare fuori luogo le trombe della salvezza, passando così per trombone?
(di Marcello Veneziani)
giovedì 27 maggio 2010
Tv, il regime degli show-men
martedì 25 maggio 2010
Dalla rivoluzione impossibile all'anomalia finiana
Brutta legge degna del Paese dei guardoni
È difficile, mi rendo conto, nell’epoca delle contrapposizioni tagliate con l’accetta, dire che la legge è brutta ma i masnadieri che hanno abusato della libertà se la sono meritata. Mi dispiace che a rimetterci siamo noi, cittadini e italiani, che non siamo né tra gli intercettati colpevoli né tra gli intercettatori barbarici. Entrambi, legislatori e intercettatori, hanno concorso a far scendere il nostro Paese di un altro gradino nell’immagine e nella sostanza della sua libertà e dignità. Capisco tutte le ragioni sacrosante che hanno spinto il governo a proporre questa legge, inclusa l’autodifesa davanti a un attacco feroce di colpi bassi, senza precedenti. E non credo nemmeno che tutti i processi, le condanne, perfino i libri che sono stati pubblicati in questi anni sarebbero stati impossibili se ci fosse stata quella legge. Noto anzi che mentre il Parlamento si accinge a varare una legge infame, molti giornali anziché informare, continuano a fare disinformazione, terrorismo puro, e mescolano la verità con la menzogna, la realtà con l’esagerazione.
I tre quarti degli esempi indicati dalla stampa di reati che non sarebbero stati perseguiti e conosciuti se la legge sulle intercettazioni fosse già stata in vigore, sono infondati. Le indagini e i processi non sarebbero stati scalfiti. Vedo però restringersi gli spazi di libera informazione, vedo diminuire gli spazi di verità portata alla luce, seppur insieme a tanto ciarpame. Non posso tacere il mio dissenso bilaterale. Mi sento come giornalista, cittadino e uomo libero ferito da questa norma e da chi l’ha propiziata. E mi auguro ancora che verrà resa ragionevole, utile allo scopo legittimo ma non a spuntare le armi alla lotta contro il reato e alla relativa informazione.
In un Paese normale non ci sarebbe bisogno di norme restrittive sull’uso delle intercettazioni. Basterebbe la responsabilità dei giudici e della stampa, il loro codice deontologico, i loro stessi organi di autocontrollo. Ma questo è un Paese malato, organizzato in clan, cricche e caste, e perciò sorgono norme ad hoc, altrimenti inconcepibili. La patologia italiana riguarda in primis le classi dirigenti, come denunciano perfino gli attori ai festival di Cannes; a patto di aggiungere che nelle classi dirigenti ci sono i detentori di tutti i poteri, non solo esecutivo ma anche legislativo e giudiziario, più la stampa e i poteri economici. Le brutte leggi sono lo specchio di brutte classi dirigenti, e il riflesso di conflitti di stampo mafioso, regolamenti di conti, che le dilaniano al loro interno e tra poteri. Aggiungo il disagio di vivere dentro una guerra e di non sentirmi rappresentato in questo caso da nessuno dei due confliggenti.
Non penso, intendiamoci, che la libertà in Italia sia stata compromessa dalla legge per le intercettazioni, non credo al potere terribile delle leggi, temo più l’uso degli uomini. E non mi pare che questa legge riesca a colpire l’essenza della libertà; semmai colpisce una sua diramazione periferica. Ma credo che scenda di un gradino il livello di libertà nel nostro Paese, pur nel nome rispettabile delle garanzie agli imputati. L’esperienza insegna che si è disposti a volte a rinunciare a un po’ di libertà pur di avere un po’ di sicurezza in più; questa legge mi pare che ci faccia rinunciare ad ambedue le porzioni, anche se offre una garanzia in più per gli inquisiti, colpevoli e innocenti. Sono contento per loro, un po’ meno per l’Italia.
(di Marcello Veneziani)
domenica 23 maggio 2010
sabato 22 maggio 2010
La mia vita tra due stragi: a Capaci morì anche mio padre
giovedì 20 maggio 2010
Michele, dalla trincea all'incasso
In realtà Santoro è un doppelgänger di Vespa. Ma meno abile. Ha una tale belluina faziosità che anche quando ha ragione viene istintivamente la voglia di stare dall’altra parte. Non mi stupisce che a Mediaset lo trattassero “come un re”, lo vezzeggiassero, lo coccolassero. Ha fatto guadagnare più consensi lui al Cavaliere di quanti gliene abbiano fatti perdere tutti insieme, con la loro lasciva laudatoria, Bondi, Schifani e Cicchetto. Se la tira da “duro e puro” ma è passato a Mediaset con un contratto miliardario (“non olet”), dopo aver per anni sparato a palle quadre su Berlusconi. Vi faceva la foglia di fico come Antonio Ricci che però ha almeno la scusante di essere lì da sempre.
Ci sono scrittori che hanno lasciato la Mondadori per non essere accusati di criticare Berlusconi e di prendere i soldi da lui. L’ultra ottantenne Montanelli abbandonò il “Giornale”. Altri sono entrati nella scuderia di Arcore, dove il mafioso Mangano, la faceva da stalliere, ma con la pretesa, dopo aver consumato questo stupro consenziente e generosamente pagato, d’esser rimasti vergini. Non è solo una questione di stile. Ma di palle. Di chi le ha e di chi le sventola senza averle. Santoro sembra sempre sul punto di azzannare il mondo intero, ma quando esce dalle denunce generiche e populiste, che sono la sua specialità, e ha a che fare con i potenti in carne e ossa, quelli che ti possono fare davvero del male, diventa uno specialista del dribbling. Una volta invitò Previti. Costui per difendersi da un’accusa più grave afferma testualmente: “Per quarantacinque o quarantasei volte l’avvocato Pacifico mi portò cinquecento milioni dalla Svizzera”, A questo punto ci si sarebbe aspettati che il feroce conduttore dicesse: “Fermi tutti. Lasciamo stare per il momento il resto, che è incerto. Il certo, onorevole Previti, è che lei è stato un colossale trasgressore delle leggi fiscali in anni in cui gli italiani non potevano uscire dal paese, nemmeno per un viaggio di piacere, con più di 800 mila lire”. Santoro fece finta di nulla, tirò dritto e tutto finì nella solita, inconcludente, confusione. Destituito di ogni ironia e autoironia, di qualsivoglia capacità autocritica, privo del senso del limite e dei limiti, soprattutto dei suoi, Michele Santoro è uno che si prende tremendamente sul serio, un “miles gloriosus” che confonde il proprio ombelico con quello del mondo.
Così racconta la sua giovinezza: “Ero molto popolare in città. Un capo vero. A Salerno ero adorato, avevo legioni di fan. Ai miei esami di maturità vennero centinaia di persone. Avevo il massimo di visibilità. Era facile avere tutte le donne che volevo. Come succede ai fenomeni popolari, ai cantanti, agli attori”. A questa fama di sciupafemmine il conduttore di Annozero tiene moltissimo. Ma il vero scopatore, come ognun sa, è silenzioso. Del resto è un uomo dalla volgarità innata, accentuata dal fatto che si ostina a indossare abiti firmati che, antropologicamente, non gli appartengono (la volgarità, com’è noto, è un “non stare nei propri panni” e Santoro è perennemente fuori dai suoi, persino quando è nudo).
Il suo iter è un classico. Da giovane ha militato in Servire il popolo, uno dei gruppuscoli più estremisti e idioti della galassia extraparlamentare (il loro vangelo era il “libretto rosso” di Mao), così a sinistra da finire per confondersi con la destra. Caratteristica che il conduttore ha conservato. Laurea in filosofia con 110 e lode negli anni della contestazione quando il 30 non si rifiutava a nessuno. Poi funzionario del Pci, quando i comunisti erano all’apice. Quindi, come tutti i leader e i leaderini del Sessantotto, l’approdo nei media di regime. In realtà si tratta, come in molti altri casi simili, di due buone braccia sottratte all’agricoltura, dove avrebbe potuto far bene perché è robusto e anche, almeno a giudicare dall’odore, vagamente ferino. E forse non aveva tutti i torti l’ex presidente della Rai, il pur vile e servile Enzo Siciliano, che però un po’ di cultura almeno la masticava, se non altro per aver bazzicato Pasolini e Moravia, quando, richiesto di un giudizio su “Michele”, rispose: “Michele chi?”.
(di Massimo Fini)
mercoledì 19 maggio 2010
martedì 18 maggio 2010
Le Crociate? Furono una cosa seria, non una buffonata leghista
martedì 11 maggio 2010
Uomini, mezzi uomini e...
Nel 1979 lavoravo per il Nuovo Europeo di Mario Pirani e stavo trafficando per avere un'intervista da Toni Negri, in carcere da un mese. Oggi è semplice: ci si accorda con un parlamentare che entra in prigione e poi riferisce al giornalista. Allora le cose erano più complicate. Dopo estenuanti trattative riuscii a far arrivare a Negri le mie domande scritte e ad avere le sue risposte. Quando ebbi in mano tutto andai da Pirani, nel suo ufficio romano. Lui, che stava preparando il nuovo giornale, fu naturalmente molto contento: sarebbe stata la copertina del primo numero del "suo" Europeo. Nell'ufficio c'era anche l'Amministratore delegato Bruno Tassan Din che, preso dall'euforia, mi propose: «Venga con noi a Milano, sul nostro jet privato». «La ringrazio» risposi «ma ho già un biglietto Alitalia». «C'è anche Di Bella» disse Tassan Din per invogliarmi (era il direttore del Corriere). «Ragione in più per non venirci» replicai io, scherzando. Tassan Din parve molto seccato. Mezz'ora dopo Pirani mi richiamò nel suo ufficio: «Perché ha trattato così l'Amministratore delegato?». «Mio padre mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati». Due anni dopo Tassan Din e Di Bella furono pescati nella P2. Se io fossi salito su quell'aereo i due avrebbero fatto probabilmente delle avances e io, magari non capendo subito bene, avrei potuto farmi trascinare in situazioni poco chiare e compromesso una volta mi sarei compromesso per sempre. In queste cose vale quello che vale per le ragazze: se si lasciano mettere una mano sul ginocchio si arriva alla hause. I politici si fanno mettere le mani su tutte e due le ginocchia. E questo mi stupisce un poco. Sono già dei miracolati, gente che non ha fatto un'ora di lavoro vero in vita sua, che non sa far nulla e sono potenti, ricchi e famosi.
Potrebbero accontentarsi. Invece non ne hanno mai basta. Anche quando non prendono direttamente tangenti si fanno dare affitti a equo canone, pagare mezzi appartamenti, regalare anche la carta igienica. Scajola, per scagionarsi, ha detto che avrebbe dovuto essere un cretino per dare 80 assegni circolari davanti a dei testimoni. Ma c'è anche un'altra ipotesi: il senso di impunità che dà il potere, la convinzione che non si pagherà mai dazio. Lo abbiamo già visto in Tangentopoli. Pillitteri non si faceva consegnare sulla sua scrivania i quattrini, malamente avvolti in carta di giornale? E perché mai la classe dirigente di oggi dovrebbe essere diversa, quando sono quindici anni che non si fa che delegittimare la Magistratura e si è inzeppato il Codice penale, soprattutto per i reati finanziari, quelli di "lorsignori", di leggi talmente "garantiste" che arrivare a una sentenza definitiva è quasi impossibile? Amintore Fanfani, che da vero uomo di potere non ambiva al denaro, abitava all'ottavo piano di un normalissimo condominio in via Platone, non in un appartamento davanti al Colosseo. Ma Fanfani, oltre a essere stato un notevole docente universitario, aveva statura (politica) di statista. Questi son solo degli ometti.
(di Massimo Fini)
lunedì 10 maggio 2010
La Russa: Gianfranco, dì qualcosa di destra
Adesso l’inquilino del dicastero «dei valori di Patria e di custodia di valori nazionali» è Ignazio La Russa, uno che è stato attivista di quel partito, poi fondatore di Alleanza nazionale, quindi cofondatore del Popolo della libertà. La Russa è rimasto dentro le mura del Pdl mentre Gianfranco Fini, il suo ex leader, sta consumando una guerra per abbandonare definitivamente Silvio Berlusconi.
Che cosa accadrà, ha fatto una corrente a Milano?
Non è una corrente ma un posto dove la parola destra ha un preciso riferimento. Punto. All’interno del Pdl. Punto. Fosse stata una corrente…
Fosse stata una corrente avrebbe radunato un po’ più di gente da tutta Italia, e va bene, ma che cosa è accaduto con Fini?
Io la racconto per com’è andata. Poi se la sbroglia lei per come la deve scrivere. Se si fosse trattato di garantire piena libertà di opinioni all’interno del partito, ebbene, Fini avrebbe trovato in me il vessillifero. Ma di sabotare e uscirmene dal partito che sto contribuendo a costruire non se ne parla. Succede questo, è accaduto questo: quel giorno, prima di andare da Berlusconi, Fini chiama me perché mi riconosce qualcosa: mi ha visto nel partito, nella sede di via Mancini, a Milano, due anni prima che io conoscessi lui. Ci mettiamo a piangere. Parliamo di una storia lunga più di 30 anni. E mi spiega: tra un’ora vado da Berlusconi e gli dico che: a) mi sono pentito di avere fondato il Pdl; b) fondo dei gruppi parlamentari autonomi. Praticamente una scissione quando subito dopo, convocando lui una riunione, chiama a raccolta i suoi senza però invitare me. Tutto diventa chiaro, perfino troppo. Vuole la rottura. E con lui ci sono quelli che devono tutto a lui.
Ma Italo Bocchino non deve tutto a lui, anzi è stato perfino osteggiato da Fini che lo aveva messo ultimo in lista sperando che non venisse eletto.
È vero. La famosa vicenda della Caffettiera di Roma, con me, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli accusati di congiura, altro non era che una riunione riservata per cercare una strategia in difesa di Italo. Fini a tutti i costi lo voleva umiliare. Sono contento che adesso abbia cambiato idea.
Con la conseguenza di questi destini separati.
Italo alza sempre l’asticella. Ottenuto un risultato, passa oltre.
Ma questo Pdl è un partito che sente sinceramente suo?
Senza dubbio alcuno. Mio. Non è certo il Movimento sociale, ma già Alleanza nazionale non era neppure il partito per come l’abbiamo conosciuto. Lo iato, o chiamatelo come cavolo volete, è Fiuggi. Quando veniamo chiamati ad abbandonare la casa del padre, lo facciamo con dolore e con convinzione. Ma con la serena maturità di un figlio che si sposa, va via e però ci torna dal padre nelle occasioni belle, nelle ricorrenze.
A proposito: lei celebra la Liberazione…
Ma la mia coscienza mi impone di dire ciò che per molti anni sarebbe stato inaudito sentire. Quello per cui eravamo stati educati: non rinnegare, non restaurare. Anzitutto la pacificazione degli italiani. Mi danno la scorta oggi che la gente mi dà le pacche sulle spalle, dovevano darmela prima quando rischiavo la pelle.
Non rinnegare, non restaurare. Leo Longanesi aveva scritto un libro con un grande titolo: «Un morto tra noi».
Non posso dimenticare quando, un aprile di molti anni fa, con Pinuccio Tatarella e le nostre mogli eravamo in vacanza. Andavamo a Sankt Moritz e ci veniva comodo passare da Giulino di Mezzegra…
Dove venne assassinato il Duce e dove Bettino Craxi, come ha ricordato recentemente la figlia Stefania, un giorno andò a portare dei fiori?
Appunto. Io proposi a Pinuccio di passare da lì e portare un segno, un fiore, un segno di croce. Ebbene, mi fece una cazziata infinita: «Non si fanno queste cose, ci tengono fermi per sempre». E però aggiungeva: «Le devono fare gli altri». E, infatti, le faceva Craxi.
Aveva ragione Tatarella?
A differenza della sinistra, che nel mondo giovanile ha sempre coltivato la propria ala estremista, a destra, al contrario, i ragazzi sono stati sempre un’avanguardia aperta al dialogo. Già negli anni Cinquanta era così, figurarsi dopo, quando nel 1976, con Pinuccio, Massimo Anderson, Pietro Cerullo e Riccardo De Corato, alzavamo il confronto con Almirante fino a sfidarlo nei contenuti.
È l’anno della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Allora avevano ragione loro, gli scissionisti?
Hanno gettato il seme. Hanno solo sbagliato i tempi e i modi. E i compagni di processione, ovvero la Democrazia cristiana che già aveva scelto di buttarsi col centrosinistra e non voleva far nascere un grande fronte per i moderati italiani. Voleva il compromesso storico. Democrazia nazionale gettò il seme ma oggi posso dire che avevano ragione. Non li seguii nella scissione così come oggi non seguo Fini.
Fini sta per caso sbagliando tempi e modi, allora?
Sono troppe le cose che non capisco di Fini, non so neppure se le cose che dice siano di destra.
Forse Fini dice oggi le cose che ieri, prima di essere espulso dal Msi, predicava Marco Tarchi.
Non credo proprio che siano le stesse cose e su Tarchi, se permette, vorrei dire una cosa: aveva ragione con la sua Nuova destra. Magari sbagliava a scimmiottare la sinistra, ma fu fondamentale per la nostra area con i suoi Campi Hobbit e i suoi libri. E poi non fece la scissione. Fu espulso. E con una motivazione idiota: avere scritto su La Voce della fogna, il più bello dei giornali nati a destra, un articolo satirico sull’organizzazione di Mirko Tremaglia per gli italiani all’estero. Non si censura la satira. Tarchi non lo sa ma io lo difesi in quell’occasione.
Visto il risultato alle elezioni del 2006, con le liste di Tremaglia a fare danno, era una premonizione. Tarchi oggi è un politologo estraneo ai partiti, ma quel Msi era dunque destinato a essere il lievito di un partito maggioritario dei moderati?
E chi, altrimenti? I liberali, il cui partito, il Pli, al tempo, nella costituzione dei governi, poneva la condizione irrinunciabile ed essenziale che li volessero?
Nessuna, ma proprio nessuna nostalgia?
Soggettivamente sì ma oggettivamente no, ma è l’essere stato un ragazzo ciò che rimpiango. L’Italia di oggi somiglia ai miei sogni e la guerra civile la sento remota. Sono cugino di Franca Rame!
Perché, Rame è di Paternò?
Scherzo. Lei è prima cugina della mia prima moglie e così mio figlio è cugino di Franca Rame. Cose che se fossimo in Sicilia faremmo il Natale tutti insieme. A Milano, dove nessuno si saluta, la cosa si perde. In ogni modo io non vorrei perdere me stesso. Rivendico, da ministro, il diritto di cambiare il meno possibile.
Per questo scatta dentro l’attivista che è in lei?
Almeno una notte, in campagna elettorale, devo seminare la scorta e farmi la mia bella alba di attacchinaggio. A proposito di scorta: la prima volta, da vice-presidente della Camera, me ne dettero due di agenti, così gracilini, che una volta, senza offesa, glielo dissi: «Se succede qualcosa, vi difendo io».
(di Pietrangelo Buttafuoco)
Perché ci piace il j'accuse di Massimo Fini
La partigiana Fallaci fa a pezzi l’antifascismo
Sì, l’assassinio di Gentile fu una carognata, ingiusta e vigliacca, ha ragione la Fallaci. Ma la cosa più grave che alla Fallaci sfugge fu che Gentile non fu ucciso perché fascista intransigente, ma al contrario perché puntava alla concordia, chiedeva a fascisti e antifascisti di sentirsi prima di tutto italiani e uniti nella tragedia della guerra. Questo non gli fu perdonato: non piaceva ai fascisti fanatici e spiazzava gli antifascisti feroci, in larga parte di estrazione comunista. De Felice distinse tra fascismo-movimento, radicale e rivoluzionario, e fascismo-regime, conservatore e autoritario. Io credo che esista anche un fascismo-partito e un fascismo-nazione, ovvero una visione militante e partigiana del fascismo; ed un fascismo-nazione che pensava al fascismo come al braccio secolare dell’Italia, nel senso che il fascismo era per loro la realizzazione dell’Italia nel Novecento, come il Risorgimento lo era stato nel secolo precedente; ma l’Italia era il punto fermo. A questa idea del fascismo-nazione aderirono Gentile e Rocco, Volpe e altri grandi. Anche la Repubblica sociale fu per loro una necessità storica ma non l’apoteosi del fascismo. Gentile vi aderì per coerenza col suo passato, Volpe si tenne in disparte, Rocco era già morto. Tutto il pensiero di Gentile era percorso dall’idea di unità, identità, comunità e non da quello di fazione e guerra civile.
Per la Fallaci, Gentile non era fascista; è una mezza verità. Sì, perché il suo pensiero si era compiuto prima che nascesse il fascismo: l’arco della sua teoria è già conchiuso nella prima guerra mondiale. Sul piano della cultura politica il suo fu un pensiero risorgimentale, percorso da un’idea della politica come religione civile e dello Stato come valore etico super partes. Con le pericolose controindicazioni totalitarie che sappiamo. La sua riforma della scuola non fu la più fascista delle riforme, come disse Mussolini, ma una grande riforma umanistica di idealismo educativo, percorsa da amor patrio. La sua «Enciclopedia» fu aperta a studiosi antifascisti. Ma la sua adesione al fascismo non fu un incidente di percorso e nemmeno un equivoco: l’idea dello Stato nel fascismo ebbe in lui il teorico più forte; la filosofia della guerra ebbe in Gentile la sua più alta elaborazione; il tentativo di annodare il fascismo al Risorgimento fu opera di Gentile sul piano filosofico e di Volpe sul piano storico. No, non fu occasionale il suo fascismo.
Dure ma veritiere poi le parole di Oriana Fallaci sugli antifascisti. Noto solo che quei partigiani non vollero sminare i ponti non solo per mancanza di coraggio, come lei scrive, ma perché -come insegna anche la vicenda via Rasella-Fosse ardeatine a Roma - c’era in alcuni capi partigiani la logica del tanto peggio tanto meglio. Ovvero le brutalità naziste potevano servire a generare un clima di odio verso i medesimi e i loro alleati fascisti, e quindi a legittimare la lotta antifascista, la guerra rivoluzionaria e le vendette più atroci.
Infine trovo ingiusto il giudizio della Fallaci su Croce. È vero che il primo Croce sostenne il fascismo e anzi lo alimentò anche teoricamente: le opere di Sorel, che furono breviari per il fascismo, le aveva portate lui in Italia. L’idea di un dittatore che rimettesse a posto l’Italia dopo il biennio rosso non dispiaceva a Croce. Ma pensava ad una dittatura momentanea, come ai tempi dei romani. E non dimentichiamo che, a differenza di Gentile, Croce non fu interventista; era e restava giolittiano. Poi, dal ’25 in avanti, avversò il fascismo, chiamò a raccolta gli intellettuali nel celebre manifesto, mantenne dignitoso dissenso, e pubblicò per quasi tutto il ventennio La Critica che fu una palestra di antifascismo. No, Croce non fu un «leccaculo» e nemmeno un voltagabbana.
E qui, infine, vorrei dire una cosa sugli intellettuali italiani. Li consideriamo opportunisti e vigliacchi, camaleonti e servili ma è giusto se ci riferiamo alle seconde file. I grandi intellettuali italiani del Novecento furono coerenti e pagarono di persona. Tralascio quanti combatterono o persero la vita nella prima guerra mondiale, interventisti intervenuti, ma dico Gentile e Gobetti, Gramsci e Martinetti, Rensi e Soffici, Bonaiuti e Ducati, Volpe e Marinetti o fra i più giovani Berto Ricci e Giaime Pintor. Alcuni furono uccisi, altri pagarono con l’emarginazione, l’esilio, la perdita delle loro cattedre. A differenza di altri intellettuali europei pusillanimi e defilati: penso ad esempio a Sartre o al grande Heidegger. Croce non patì per il suo antifascismo ma fu comunque sorvegliato e minacciato. Il vero errore degli intellettuali civili italiani fu che credettero alla coincidenza di cultura e politica, e così restarono prigionieri del loro sogno totalitario: dico Gentile, Gramsci, Gobetti. L’idea che cultura e politica coincidono fu la madre di tutte le più rovinose utopie e di quella brutta razza che fu l’intellettuale organico e asservito al potere. Sciagurato è pure separare cultura e politica: più saggio è pensare alla loro continuità pur nell’autonomia delle sfere. Ma toglietevi il cappello quando parlate di loro, perché pagarono di persona le loro idee. E non confondeteli con la media, anzi con la marmaglia dei professori che giurarono per il regime e per le leggi razziali, pur essendo antifascisti, e poi saltarono il fosso. I mediocri galleggiano sempre, tra clan mafiosi e servitù; i grandi pagano la loro grandezza con la vita e la solitudine.
(di Marcello Veneziani)
sabato 8 maggio 2010
Cameron, il conservatore rivoluzionario
Le tre principali differenze rispetto ai conservatori del passato sono assai interessanti per noi europei perché sembrano provenire dal nostro continente. La prima è la svolta sociale del conservatorismo, il progetto riformatore, la convinzione che lo Stato debba garantire maggiore giustizia sociale, più qualità alla scuola pubblica, controllo dell’anarchia finanziaria, dopo le follie prodotte dal mercato. Una svolta rispetto alla tradizione conservatrice inglese e rispetto al liberismo della Thatcher; ma una svolta che riannoda i conservatori britannici alla tradizione cristiano-sociale, gollista e di destra sociale europea. Da noi una svolta analoga l’ha fatta Tremonti, passando dal liberismo a una visione sociale dello Stato, critica verso il mercatismo e rafforzata dalla difesa della tradizione. La seconda novità rispetto ai conservatori è l’interesse per l’ambiente, la difesa della natura dal degrado e dall’inquinamento, la visione di un eco-conservatorismo che toglie finalmente il monopolio verde al velleitario ideologismo radical e lo coniuga al realismo dei conservatori. Bella svolta.
Il terzo tema nuovo e forte è l’idea di comunità, tema centrale della nuova destra europea. Un’idea forte, che consente da un verso a Cameron di svoltare rispetto all’individualismo dei conservatori o all’idea popperiana della Thatcher che la società non esiste, esistono solo gli individui. Ma dall’altro verso l’idea comunitaria permette a Cameron di riprendere in modo nuovo la difesa dei legami territoriali, l’identità nazionale, le tradizioni inglesi, le radici cristiane della nazione, la famiglia, che è al centro del discorso di Cameron, la politica per l’infanzia e la tutela del matrimonio. Qui si innestano alcune aperture di Cameron, anche discutibili, come i Pacs per riconoscere le coppie omosessuali, una maggiore indulgenza sul piano dei costumi, dopo il rigorismo puritano e vittoriano, peraltro impraticabile dopo tanti episodi in cui sono rimasti coinvolti anche esponenti conservatori; o una linea più morbida verso le droghe che ora è invece rientrata, visti gli effetti devastanti che ha prodotto. C’è qualcuno in Italia che si attacca a questi spunti marginali e in parte rientrati per ricavare un’analogia con il nuovo corso finiano. Ma dimenticando i temi forti e centrali di Cameron, sulla famiglia, l’identità nazionale, la tradizione religiosa, la comunità, o la tolleranza zero contro la criminalità e l’immigrazione clandestina. A proposito d’immigrazione, per Cameron è fallito il modello multiculturale inglese; bisogna da un verso riconoscere e rispettare tutte le etnie e i loro diritti, integrando a pieno titolo gli immigrati regolari, ma dall’altro bisogna garantire la coesione nazionale, il rispetto delle leggi inglesi e il primato della comunità nazionale sulle minoranze etnico-religiose.
Ricavo questi giudizi e queste sue posizioni dopo aver seguito non solo la sua campagna elettorale, ma dopo aver letto due libri tradotti in Italia da Pagine, «La mia Rivoluzione conservatrice», frutto di una conversazione con Dylan Jones (uscito in Italia con una prefazione firmata da Fini); e poi, nella collana dei libri del Borghese, «Cameron, nuovo conservatorismo», a cura di Francis Eliott & James Hanning. Non so se Cameron riuscirà a mettere su strada queste idee, e se riuscirà a fare un governo, visto che ha vinto ma non ha la maggioranza assoluta dei seggi perché mentre noi scoprivamo il bipolarismo dell’alternanza, gli inglesi si sono convertiti al tripartitismo e alla logica continentale delle coalizioni. Però sarebbe una bella scommessa e un bell’esperimento.
Noto in definitiva due cose: l’Inghilterra somiglia sempre più all’Europa continentale e i conservatori di Cameron vi si adeguano con duttile intelligenza. Ed è un paradosso, considerando che Cameron resta un euroscettico. E poi, dopo l’epoca di Blair, laburista molto lib e poco lab, molto filoamericano e guerriero, arriva un conservatore che riscopre il sociale, la comunità, che sa dissociarsi dagli Stati Uniti e disapprovare Israele quando lancia i missili, che critica Bush per la disattenzione all’ambiente (ma poi lo imita riprendendo il suo conservatorismo compassionevole). Che la sinistra inglese sia sempre più liberal e sempre meno comunitaria, lo avevo riscontrato in un carteggio con sir Ralf Dahrendorf che opponeva al mio comunitarismo la visione individualista. Cameron coglie le conseguenze di quella svolta. Cameron nutre simpatia per Obama e Sarkozy e invece non conosce Berlusconi; è tempo per entrambi che si cerchino e si incontrino presto. Auguri, perfida Albione dal Bordello del piano di sotto.
(di Marcello Veneziani)