sabato 29 maggio 2010

«Mussolini diceva “noi”, Silvio solo “io”»

“Ricordati di osare sempre” diceva D'Annunzio. Silvio Berlusconi, al vertice Ocse di Parigi, se l'è ricordato. «Oso citarvi una frase - ha detto nella conferenza stampa - di colui che era ritenuto un grande dittatore». E poi: «Dicono che ho potere, non è vero, forse ce l'hanno i gerarchi. So che posso solo ordinare al mio cavallo di andare a destra o a sinistra». Su questa frase e sulle successive polemiche Il Riformista ha chiesto un parere al giornalista Pietrangelo Buttafuoco.
Berlusconi si paragona a Mussolini. Che ne pensa?
Era una semplice citazione: “Come dice il Manzoni”, “Come dice il Tommaseo”, una cosa così. Paragonarsi a Mussolini gli sarebbe costato una fucilazione, mai l'avrebbe fatto.
Eppure fa riferimento al potere e ai gerarchi, sembra mettersi sullo stesso livello simbolico.
In quella frase c'è una grande componente ludica. Il più forte termine di paragone di Berlusconi in Italia è senza dubbio Mussolini: quante volte abbiamo sentito dire «questo potrebbe essere un 25 luglio», «sarà un piazzale Loreto», «è la sera del gran consiglio». Il Cavaliere risponde con l’immediatezza del linguaggio, tirando fuori un riferimento ancora presente nella nostra memoria storica.
Non è la prima volta che Berlusconi scomoda il Duce. Nel 2006 disse «Mussolini aveva le camcie nere, io ho le veline». E nel 2003 affermò che il dittatore «non aveva mai ucciso nessuno».
Berlusconi è un radar del linguaggio, un sensore dell’opinione pubblica. È in grado di individuare sempre gli spunti per un messaggio veloce, in grado di colpire e raggiungere il destinatario. L’Italia ha sempre avuto dei miti: sui muri delle trattorie ci sono le fotografie di Totò e Padre Pio, due personaggi molto amati dal sentimento popolare, costruiti anch'essi su un linguaggio che cammina spedito, senza fronzoli, con il semplice buon senso. La politica si adatta.
Quindi Berlusconi cerca nel sentimento popolare un'ammirazione analoga?
Il suo è un fiuto sbrigativo, senza filtri logorroici o cerebrali. A far ridere sono gli allocchi e professoroni che commentano con il dito alzato le sue parole. Non vivono nel Paese reale, quindi possono permettersi noiose prolusioni. Leggendo i giornali che hanno commentato quella frase si trovano i soliti due o tre Soloni. Scontati.
Però succede sempre che in campagna elettorale ci sia qualcuno che inneggia al Duce quando il Cavaliere sale sul palco.
Stupidaggini. Berlusconi è diametralmente opposto all’uomo di Predappio. Anche nella comunicazione c’è una differenza: Mussolini, quando parla, scolpisce chiaro un concetto: il “noi”. Silvio ne ha un altro: l'“io”. Il primo è innamorato di un destino politico, la sua natura è quella di un socialista rivoluzionario che ha letto Nietzsche e a cui rimane l'imprinting del collegio dove gli servivano acqua e pane raffermo. L'altro, invece, è innamorato di sé stesso.
Chi sono invece i “gerarchi”?
Si riferiva ai poteri forti, non a persone della sua cerchia. Le banche hanno un potere superiore a quello politico, le manovre dell’alta finanza incidono su un governo più di un qualsiasi presidente di Regione o del sindaco di una metropoli.
Ma non più di Tremonti.
Non si riferiva a lui. E poi Berlusconi ha un grande vantaggio rispetto al ministro dell'Economia: il consenso. Ripeto, se si affronta una manovra economica le decisioni politiche contano meno di una riunione organizzata a Ginevra da quattro banchieri. Faceva riferimento a loro.

Sovrani senza lobi frontali


Se vogliamo cercare di capire la crisi, dovremmo capire dove siamo e come ci siamo arrivati. Per fare questo, occorrerebbe guardare con disincanto al secolo scorso. Alcuni commentatori fanno risalire le origini del secolo orrendo, quello delle guerre più spietate, alla fondazione della famigerata Federal Reserve. E’ così che saremmo arrivati all’ipocrisia delle “missioni di pace” dove si vorrebbe esportare il nostro modello corrotto, perché qua sta saltando, con contorno di scorie radioattive, in posti sperduti del pianeta. Se la teoria della eversiva Federal Reserve, quella che fa bonifici in altri Paesi, in periodo elettorale, fosse giusta, allora occorrerebbe rileggere le motivazioni che stanno dietro il secondo conflitto mondiale.

Non è nemmeno troppo arduo: l’accordo di Bretton Woods risale al 1944, un anno prima che finisse la guerra... Il nemico da abbattere, allora, era l’asse RO-BER-TO: Roma, Berlino e Tokyo. Cosa avevano in comune questi tre Paesi alla vigilia del conflitto? Avevano ritrovato la sovranità monetaria nazionale. Germania ed Italia emettevano la loro moneta, sotto forma di Biglietti di Stato a corso legale. Se lo facessimo ancora oggi, risparmieremmo circa 350 miliardi di euro all’anno. Soldi che oggi spendiamo per “servire” il debito pubblico. Bastava una tipografia, ed eravamo ricchi.

Bastava lasciare il compito di emettere le banconote al poligrafico di Stato ed impedire alle banche di mettere al passivo la massa monetaria che creano, tramite false scritture contabili, in modo da poter così prelevare una somma come rimborso della rendita monetaria allo Stato.

Non voglio passare per revisionista né per visionista (o sionista, tout court). Ma esiste un dovere che gli storici hanno dimenticato: raccontare i fatti. Non solo gli storici per la verità. Un po’ tutti - non avendo capito internet - si ostinano a divulgare una versione malata della realtà. Ed è ovvio che se si insiste a vivere in un mondo di fantasia, il paese delle meraviglie di Alice, allora tutto è possibile. Anche che falliscano le banche - uniche aziende che hanno il potere di creare denaro con la tastiera del computer… in cambio delle lacrime e sangue dei cittadini. Ovvio che su internet la verità dilaga.

Tra un po’ la insegneranno anche all’università, appena quei poveri malati che si ostinano ancora con la propaganda, non si renderanno conto che la loro guerra a bassa intensità - contro la realtà - è già persa in partenza.

Quindi, rileggiamo gli anni di piombo alla luce degli obiettivi raggiunti dai terroristi:

1982 - Divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia.
1991 - Trattato di Maastricht. Piano piano tutto torna, tutto acquista un senso, alla luce della sovranità perduta. Ed è facile perderla la sovranità

- se si passa da monarchia a repubblica senza spiegare quali sono le prerogative del sovrano, tra cui c’è il batter moneta. Una volta capito che l’unità d’Italia è stata voluta per consolidare i debiti degli Stati-regioni che sono andati a formarla, e che la prima legge unitaria fu la creazione del Gran Libro del debito pubblico... non ci vuole mica John Nash per fare due più due. E’ evidente: si è lasciato quasi sempre - a parte il ventennio della rivoluzione fascista - il potere di batter moneta in mano a banchieri anarchici privati. Così si spiega come funziona il bidone vuoto delle famiglie italiane dell’élite: volgari falsari. Piegato lo Stato alla truffa del debito pubblico, le rendite dei nati stanchi sono assicurate.

Tutto il resto del Paese, sottomesso da uno Stato che appena si rivela nel suo pieno squallore - una specie di mafioso che estorce il pizzo del signoraggio privato ai suoi ignari cittadini - crolla da sè. Perché l'idea dello Stato si basa sulla fede. Una volta che la Guardia di Finanza - appoggiata da una magistratura oggi sonnacchiosa - si sveglia e capisce, altro che yacht di Flavio Briatore!

Dove hanno sbagliato i banchieri che pure avevano comprato tutta l’omertà possibile? Hanno sbagliato perché anche loro sono digiuni del concetto di sovranità moderna. Abituati da sempre a trattare con le corrotte famiglie monarchiche - dividendosi la torta alla faccia dei cittadini - non si sono resi conto che oggi è proprio con i cittadini che dovranno fare i conti.

Sarebbe stato facile - e forse lo è ancora - decidere di rimborsare alla cittadinanza almeno una quota del signoraggio depredato, magari sotto forma di reddito di cittadinanza. Oppure, chessò, la Banca Centrale Europea poteva tramite le sue occulte Operazione di Mercato Aperto, iniettare denaro direttamente ai correntisti - purché questi ultimi avessero rinunciato - in una nanoclausola del contratto d'apertura di conto corrente - alla gestione diretta della rendita monetaria.

Ma no. Per la Banca Centrale Europea siamo tutti fessi, persi come siamo dietro al campionato di calcio ed alle querelle infinite - quanto inutili - di destra contro sinistra e viceversa.

La BCE crede ancora che la gente creda che la gestione dell'emissione di denaro sia in mani rispettabili. In una élite di illuminati che - rigorosamente per il nostro bene - decide di allocare gran parte del credito nelle mani degli amici degli amici.

Secondo la BCE, le forze speciali non si accorgeranno mai che vengono mandate a morire in inutili guerre radioattive... vere e proprie missioni di usury-keeping. Per i marziani della Eurotower, il business può continuare come prima. Tanto, la truffa dura dal 1694, dalla fondazione della Banca d’Inghilterra, a parte qualche breve parentesi punita con assassinii mirati, tipo Kennedy, Allende e Che Guevara. O Mattei, Pasolini ed Aldo Moro, per rimanere da noi...
Quindi, alla Eurotower, la sede maestosa della BCE, il vero potere occulto, la spectre che ci sta affamando, il vertice della pirlamide bancaria, dormono sonni tranquilli.

Tanto chi vuoi che legga quello che sto scrivendo, ventimila persone al massimo.

Auguri e buona continuazione. Per il buon senso, c’è sempre tempo.

E poi, male che vada, che ci vuole a circondare la torre ed arrestare tutti?

(di Marco Saba)

«Repubblica», la santa sede delle falsità


La Repubblica-L’Espresso è una Chiesa. Il Pontefice è Papa Eugenio Scalfari, che come San Pietro appare sul frontone del quotidiano come il Fondatore dell’Ecclesia e la Santissima Trinità oggetto di dogma, fede e devozione, è costituita dal Padre, Umberto Eco, il Figlio, Roberto Saviano, e lo Spirito Santo, Adriano Sofri. Ezio Mauro è il Prefetto della Congregazione del Sant’Uffizio per l’osservanza della fede, mentre Carlo De Benedetti è il Presidente della Conferenza Episcopale. Ieri, Venerdì Santo, sulle colonne anzi tra i colonnati della Basilica, c’è stata la concelebrazione solenne della Trinità che dall’altare de la Repubblica e sul sagrato dell’Espresso hanno cantato la Messa in lode del Signore e l’esorcismo contro il Demonio, il Cavalier Silvio. Oggi, sabato, toccherà, come vuole il rito, al Prefetto della Congregazione che scriverà il suo editoriale, e invece domani, domenica, si affaccerà dal balcone di Santa Repubblica il Papa Eugenio che dopo l’omelia, impartirà la benedizione apostolica ai presenti e la maledizione canonica agli assenti.

Ieri è stato distribuito ai credenti il nuovo messale dell’Espresso che recava in copertina le sacre immagini del Padre Eco e del Figlio Saviano ed un titolo vagamente biblico: un NOI, gigantesco, contro la legge. Il Padre, Umberto Eco, ha esortato dal Monte Sinai i credenti a resistere resistere resistere perché siamo al colpo di Stato strisciante. Il Figlio, Roberto Saviano, ha annunciato di disobbedire alla legge dell’impero del male, Berlusconi, in materia di intercettazioni, e lo Spirito Santo, Adriano Sofri, ha difeso il Figlio di Dio dall’eresia del Manifesto che ha osato, tramite Del Lago, criticare Saviano e il Libro Sacro, Gomorra. Noi che non facciamo delle nostre idee un dogma di fede, non bruciamo gli eretici e non consideriamo la lotta politica come la guerra finale tra il Bene e il Male, sappiamo distinguere. Sappiamo, ironie giocose a parte, che Scalfari è un Signor Giornalista e giudichiamo perfino interessante la sua senile conversione alla filosofia e a Nietzsche. Sappiamo che Monsignor Ezio Mauro il suo mestiere di Prefetto del Sant’Uffizio lo svolge bene, con meticolosa faziosità ma anche con vera professionalità.

Che Umberto Eco è un Grande Intellettuale e merita un premio alla carriera. Che Adriano Sofri è un vero intellettuale anche se non merita un premio alla carriera. Che Roberto Saviano è un coraggioso giornalista, non ha torto sulle intercettazioni, su cui scrive cose di buon senso, che non è dogmatico come i suoi concelebranti e ha scritto un libro importante e comunque positivo. Come vedete, non c’è disprezzo irriguardoso verso nessuno di loro e rigetto pregiudiziale delle loro opinioni; e ciò nonostante il loro atteggiamento arrogante nei confronti di chi non la pensa come loro, nonostante il loro disprezzo a priori e la loro finzione d’inesistenza di chi dissente dal loro catechismo. Però guardiamoci negli occhi e diciamoci la verità: ma credete veramente che siamo davanti ad un golpe strisciante? Vedo molti strisciare, ma golpe non ne vedo proprio l’ombra. Mi pare,anzi, che in questo paese non si riesca a fare un grande riforma strutturale, un taglio vero alla politica, o una politica in favore del merito, come sognava Brunetta, proprio perché il potere è un’entità ineffabile, astratta, soggetta a mille vincoli europei, burocratici, parlamentari e a cento ricatti, mediazioni, compromessi. Ma vedete pure la legge sull’intercettazione, non riescono a vararla. E io sono contento, vi dico la verità, perché così non mi piace; ma vi pare che un potere golpista sia impotente a varare perfino una legge del genere? Vi pare possibile che un dittatore non riesca a far passare nemmeno una legge, pur contando su un’ampia e democratica maggioranza? Vi pare golpista un governo che ha dovuto perfino rimangiarsi l’abolizione di dieci piccole province (e menomale, era un infanticidio assurdo, perché bisogna eliminarne tutte, a cominciare dalle più costose e non certo dalle più piccole e meno costose)? Vi pare golpista un governo che manda il suo ministro dei beni culturali a inaugurare una mostra e il pubblico gli fa buu e gli impedisce di parlare? Vi pare golpista un governo che non può mandare un suo ministro a ricordare la strage di Bologna perché teme di essere contestato pur non c’entrando nulla con i governi dell’epoca e con la strage? Vi pare golpista un premier che invita la presidente della Confindustria a entrare nel governo e lei rifiuta a scena aperta con l’appoggio della platea? È grottesco che questa denuncia di golpe strisciante avvenga proprio mentre Berlusconi, citando avventurosamente Mussolini, dice di non avere potere se non sul proprio cavallo. O volete dire che il golpe lo sta facendo il colonnello Tremonti con i sacrifici imposti e la finanziaria? Ma la stessa manovra la stanno facendo in tutta Europa, ieri nella Spagna di Zapatero. Via, non scherziamo.

Per finire vorrei notare l’indecorosa vecchiaia a cui è stato condannato dalla sua stessa Chiesa Umberto Eco. Viene invocato ed esposto come una sindone ogni volta che deve esprimere anatemi contro il nemico del popolo di Repubblica e per certificare, dall’alto della sua Infinita Sapienza, che ci troviamo in stato di peccato: per dirla in latinorum, meo golpe, meo golpe, meo grandissimo golpe. Come un ayatollah del laicismo tocca a Eco giustificare la fatwa, applicare la sharia e ad esortare alla jihad. A chi e a cosa vuol resistere, egregio professore, se non ai brutti effetti della vecchiaia e al rischio di suonare fuori luogo le trombe della salvezza, passando così per trombone?

(di Marcello Veneziani)

giovedì 27 maggio 2010

Tv, il regime degli show-men

Lo strapotere dei conduttori e la 'nuova' politica. E se c'è un problema sociale o etico non si chiamano in causa filosofi o poeti: ci salviamo con Vespa, Santoro, Celentano o Bonolis .
In Italia i conduttori di talk-show in particolare e i personaggi televisivi in generale, dagli show men giù giù fino all'ultima velina, hanno preso un potere eccessivo, abnorme, spropositato e pericoloso. Costoro confondono la potenza del mezzo con la propria e così fanno i telespettatori a casa su cui i protagonisti dello show business televisivo esercitano un'influenza pesantissima. Un buon esempio del delirio di onnipotenza e della perdita di ogni e qualsiasi senso del limite e dei propri limiti l'ha dato giovedì sera ad Annozero Michele Santoro parlando per venti minuti buoni, e con grande arroganza, di sue questioni personali come se fossero fatti nazionali.
Dei precedenti (anche se in quei casi si trattava di direttori di testata) si erano avuti con Augusto Minzolini e, più lontano nel tempo, con Gad Lerner. Il fatto è che da noi i conduttori, soprattutto di talk-show politici ma non solo, non sono dei conduttori, sono dei protagonisti assoluti, dei domatori (si pensi a Costanzo, quando era ancora attivo), dei manipolatori a favore di una loro tesi o di qualche forza politica. In Svizzera, paese che ho frequentato a lungo e alla cui Tv sono stato spesso invitato, il conduttore fa, come dice la parola stessa, il conduttore, si limita cioè a stimolare, con intelligenza, gli ospiti e resta sullo sfondo. Noi non possiamo essere svizzeri, d'accordo, ma non possiamo nemmeno tollerare che i conduttori di talk-show abbiano assunto questa importanza che è superiore persino a quella degli uomini politici a meno che non si trasformino anch'essi in mascheroni televisivi.
Di fatto oggi la nuova classe dirigente italiana è formata dai protagonisti dello star system televisivo, sono costoro che dettano i costumi, la way of life, i comportamenti, le regole, le categorie sociali, politiche, etiche. Nella Grecia classica erano Platone e Aristotele, con le loro scuole, ad avere questa funzione e le loro concezioni si trasmettevano agli uomini di governo e, scendendo giù per li rami, alla popolazione. Col crollo delle strutture dell'Impero Romano furono i Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino) ad assumersi questo compito. Nel Medioevo è stata la scolastica. In seguito furono i pensatori illuministi, Mill, Locke, Kant, Hegel, Marx a porre le basi concettuali del mondo moderno. Ma direi che, per quel che riguarda l'Italia, la filosofia, la cultura e l'arte hanno largamente influenzato la società e la politica fino al fascismo compreso.
E ciò è avvenuto fino al dopoguerra proprio grazie alle "famigerate" ideologie: il liberalismo, l'idealismo crociano, il cattolicesimo sociale di Don Sturzo, il socialismo, il marxismo. A noi sono toccati i Vespa, i Santoro, i Floris, i Fazio, i Baudo, i Bonolis, le Ventura, le Marcuzzi, buone braccia sottratte all'agricoltura o al ricamo. E la stampa, canibalizzandosi, segue. Se c'è un problema sociale o anche etico i giornalisti, oltre ai preti, non vanno a chieder lumi a Severino, a Veca, a Rovatti, a Viano, a Ceronetti ma a Fiorello, a Jovanotti, a Celentano, ad Alba Parietti. Ed Edoardo Sanguineti, molto omaggiato post mortem, chi l'ha mai visto in Tv? Probabilmente era troppo brutto per avere diritto di apparire sul piccolo schermo.
La Televisione, dopo la straordinaria e irripetibile stagione di Ettore Bernabei, ha distrutto la cultura e direi anche la società italiana. E oggi, adoratori di idoli di cartapesta anzi di plastica, abbiamo ciò che ci meritiamo. Del resto lo stesso Bernabei aveva avvertito: “La televisione ha un potenziale esplosivo superiore a quello della bomba atomica. Se non ce ne rendiamo conto rischiamo di trovarci in un mondo di scimmie ingovernabili. Io dico che la tv di oggi è come la medicina del Settecento quando i barbieri facevano i chirurghi. Oggi per diventare chirurghi bisogna studiare 15 anni mentre per diventare una star della tv basta qualche apparizione”.
(di Massimo Fini)

martedì 25 maggio 2010

Dalla rivoluzione impossibile all'anomalia finiana

Professor Tarchi, qual era la rivoluzione impossibile?
Quella che un certo numero di militanti e dirigenti dell’organizzazione giovanile del Msi cercarono di costruire negli anni Settanta: un tentativo di modifica radicale dell’ambiente politico nel quale si erano trovati ad operare. Un tentativo che ne comportava – nei loro intendimenti – un profondo svecchiamento, l’abbandono della nostalgia per l’autoritarismo fascista, il confronto aperto con la modernità e i suoi problemi, l’apertura di un dialogo franco con gli avversari, con i quali si sentiva di avere, oltre ad un certo numero di divergenze ideali, un buon numero di affinità psicologiche e di preoccupazioni comuni.
Se un ragazzo di vent’anni le chiedesse cosa fossero i Campi Hobbit, cosa risponderebbe?
Un tentativo di uscire dal grigiore della routine neofascista, di cimentarsi su nuovi terreni culturali – la musica rock, il teatro, l’ecologia - e di attivare uno spirito comunitario.
L’introduzione al suo ultimo libro sembra contrassegnata da un sentimento dominante, cioè la sensazione che con i Campi Hobbit si sia persa un’occasione per creare “un’altra destra”. Il programma della Nuova Destra, di cui faceva parte, era molto rivoluzionario per l’epoca (l’ecologismo ad esempio). Se le cose fossero andate diversamente forse la “svolta di Fiuggi”, con tempi, modi e contenuti diversi, si sarebbe potuta fare prima. Che ne pensa?
Diffido degli anacronismi, che non servono a comprendere le dinamiche politiche. Se nel Msi fosse stato possibile condurre al successo le idee di cui i Campi Hobbit furono uno dei luoghi di elaborazione e la Nuova Destra il principale veicolo, quel partito sarebbe stato modificato da capo a piedi, e di una Fiuggi non ci sarebbe stato bisogno, perché l’evoluzione avrebbe reso inutile l’abiura. Ma non è successo: non ce ne erano le condizioni.
Se dovesse descrivermi tre idee “rivoluzionarie” della Nuova Destra, quali sarebbero?
In primo luogo, il passaggio dall’antimodernità all’apertura e al confronto critico con la modernità. Poi, il rifiuto della dicotomia sinistra/destra e la ricerca di nuove sintesi ad essa trasversali. Infine, la denuncia delle pretese egemoniche del modello di civiltà occidentale e la conseguente rivendicazione del diritto alla specificità dei popoli e delle culture.
Una volta ha scritto che alcune cose del Msi, di cui faceva parte, le apparivano stantie e fuori luogo: il nostalgismo, il clima da caserma, l’ossessione per l’ordine. Conferma questo giudizio? Vuole spiegare, al di là degli altri retroscena, quando come e perché uscì dal Msi?
Lo confermo pienamente. La rottura con i vertici missini fu traumatica. Ne costituì la logica premessa un’opposizione interna che durò per quasi tutti gli anni Settanta. Ormai il dissenso dalle posizioni di Almirante era insanabile, e mi dedicavo molto più alle iniziative culturali e metapolitiche della cosiddetta Nuova Destra che al partito di cui pure ero un dirigente nazionale. Il pretesto formale per dichiararmi “decaduto dall’iscrizione” fu una pagina satirica – peraltro non scritta da me ma da Stenio Solinas – de La voce della fogna, la rivista “underground” che dirigevo, in cui si mettevano alla berlina vizi e tic dei dirigenti missini.
Che idea si è fatto della crisi all’interno del PdL?
Credo che vi prevalgano aspetti personali più che dissensi politici. Da parecchi anni Fini cerca di affrancarsi dal “peso” dei partiti in cui milita; già ai tempi di Alleanza nazionale i segni della sua insofferenza erano vistosi e gli strappi improvvisi erano diventati più la regola che l’eccezione. Fini vuole conquistarsi il ruolo che oggi è di Berlusconi, e per farlo punta sul consenso che può riscuotere nel centrosinistra per farsi legittimare come l’uomo ideale per gestire la situazione di delicata transizione che potrebbe crearsi all’indomani dell’uscita di scena dell’attuale Presidente del Consiglio.
Che ne pensa di quella che ormai appare come un retromarcia dei finiani: cioè passare da gruppi autonomi a “corrente” dentro il PdL? E’ un’idea ormai “superata”, da vecchio partito (in fondo, anche Veltroni era contro le correnti), oppure ha ancora un senso?
È una necessità tattica: fuori dal Pdl, i finiani rischierebbero, in caso di elezioni anticipate, di diventare una forza di scarso peso, una sorta di replica dell’Udc. Dall’interno, invece, possono puntare a un’azione di costante logoramento della classe dirigente e nel contempo dialogare con l’opposizione. Se di una corrente si tratta, va detto, è una corrente anomala, diversa da tutte quelle degli altri partiti.

Brutta legge degna del Paese dei guardoni


Scriverò anch’io con la fascia del lutto sul braccio sinistro quando sarà varata la brutta legge sulle intercettazioni che colpisce la libertà d’informazione e d’indagine in Italia. Porterò il lutto al braccio sinistro non solo perché sono mancino, ma anche per distinguermi dagli scioperanti, perché ritengo che i responsabili di questa brutta legge siano due: la maggioranza del Parlamento che la voterà e la maggioranza della stampa italiana che ha fatto carne da porco della libertà di stampa, usando le intercettazioni in modo indecente, sputtanando spesso innocenti ed estranei alle vicende processuali, condannando alla gogna tanti che sono poi risultati penalmente non colpevoli, e usandola come un veleno per campagne politiche diffamatorie. E alle loro spalle, naturalmente, vedo i rispettivi ispiratori: da una parte il governo in carica e dall’altra la magistratura avvelenata. Stampa e magistratura d’assalto con il loro moralismo vagamente terroristico e la loro indignazione intermittente, hanno offerto l’alibi per questa legge che ferisce la libertà di stampa, indebolisce le indagini e sminuisce la conoscenza della verità. Mi sarebbe piaciuto che la Federazione della stampa, che ora proclama scioperi, lutti, fuoco e fiamme, avesse prima duramente condannato l’abuso giornalistico che si è fatto nelle intercettazioni, riducendo la stampa italiana e poi l’Italia stessa a quel porcaio doppio in cui navighiamo. Doppio perché al malcostume che emergeva da quelle intercettazioni si aggiungeva la barbarie di una stampa guardona, di una magistratura livorosa e di un Paese morboso, che moltiplicava così l’effetto Sodoma & Camorra già attivo nella vita reale. E la stessa reazione autocritica avrei voluto che fosse venuta dall’organo di autocontrollo della magistratura e dalle associazioni di magistrati.

È difficile, mi rendo conto, nell’epoca delle contrapposizioni tagliate con l’accetta, dire che la legge è brutta ma i masnadieri che hanno abusato della libertà se la sono meritata. Mi dispiace che a rimetterci siamo noi, cittadini e italiani, che non siamo né tra gli intercettati colpevoli né tra gli intercettatori barbarici. Entrambi, legislatori e intercettatori, hanno concorso a far scendere il nostro Paese di un altro gradino nell’immagine e nella sostanza della sua libertà e dignità. Capisco tutte le ragioni sacrosante che hanno spinto il governo a proporre questa legge, inclusa l’autodifesa davanti a un attacco feroce di colpi bassi, senza precedenti. E non credo nemmeno che tutti i processi, le condanne, perfino i libri che sono stati pubblicati in questi anni sarebbero stati impossibili se ci fosse stata quella legge. Noto anzi che mentre il Parlamento si accinge a varare una legge infame, molti giornali anziché informare, continuano a fare disinformazione, terrorismo puro, e mescolano la verità con la menzogna, la realtà con l’esagerazione.

I tre quarti degli esempi indicati dalla stampa di reati che non sarebbero stati perseguiti e conosciuti se la legge sulle intercettazioni fosse già stata in vigore, sono infondati. Le indagini e i processi non sarebbero stati scalfiti. Vedo però restringersi gli spazi di libera informazione, vedo diminuire gli spazi di verità portata alla luce, seppur insieme a tanto ciarpame. Non posso tacere il mio dissenso bilaterale. Mi sento come giornalista, cittadino e uomo libero ferito da questa norma e da chi l’ha propiziata. E mi auguro ancora che verrà resa ragionevole, utile allo scopo legittimo ma non a spuntare le armi alla lotta contro il reato e alla relativa informazione.

In un Paese normale non ci sarebbe bisogno di norme restrittive sull’uso delle intercettazioni. Basterebbe la responsabilità dei giudici e della stampa, il loro codice deontologico, i loro stessi organi di autocontrollo. Ma questo è un Paese malato, organizzato in clan, cricche e caste, e perciò sorgono norme ad hoc, altrimenti inconcepibili. La patologia italiana riguarda in primis le classi dirigenti, come denunciano perfino gli attori ai festival di Cannes; a patto di aggiungere che nelle classi dirigenti ci sono i detentori di tutti i poteri, non solo esecutivo ma anche legislativo e giudiziario, più la stampa e i poteri economici. Le brutte leggi sono lo specchio di brutte classi dirigenti, e il riflesso di conflitti di stampo mafioso, regolamenti di conti, che le dilaniano al loro interno e tra poteri. Aggiungo il disagio di vivere dentro una guerra e di non sentirmi rappresentato in questo caso da nessuno dei due confliggenti.

Non penso, intendiamoci, che la libertà in Italia sia stata compromessa dalla legge per le intercettazioni, non credo al potere terribile delle leggi, temo più l’uso degli uomini. E non mi pare che questa legge riesca a colpire l’essenza della libertà; semmai colpisce una sua diramazione periferica. Ma credo che scenda di un gradino il livello di libertà nel nostro Paese, pur nel nome rispettabile delle garanzie agli imputati. L’esperienza insegna che si è disposti a volte a rinunciare a un po’ di libertà pur di avere un po’ di sicurezza in più; questa legge mi pare che ci faccia rinunciare ad ambedue le porzioni, anche se offre una garanzia in più per gli inquisiti, colpevoli e innocenti. Sono contento per loro, un po’ meno per l’Italia.

(di Marcello Veneziani)

domenica 23 maggio 2010

sabato 22 maggio 2010

La mia vita tra due stragi: a Capaci morì anche mio padre

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l'esame di diritto commerciale, ero esattamente allo "zenit" del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del "taglio" fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell'attentato a Giovanni Falcone lungo l'autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull'accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell'ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l'inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell'uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all'interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima.Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell'economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo "preparati" qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell'amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all'orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per "fottere" il mondo con due ore di anticipo.In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d'altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore "Pippo" Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell'Università di Palermo e storico esponente dell'Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia "loffia" domenicale tradendo un certo desiderio di "fare strada" insieme, ma non ci riuscì. L'avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell'85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati "deportati" all'Asinara, o quella dell'anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.Ma quella era un'estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all'apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell'estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo "esposta" per la sua adiacenza all'autostrada per rendere possibile un'adeguata protezione di chi vi dimorava.
Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l'ultimo bagno nel "suo" mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D'Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti.
Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel "tenere comizio" come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all'immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l'eccidio) e l'agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull'uscio della villa del professore Tricoli, io l'accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l'appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c'era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell'attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d'infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D'Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi "resti", perché quando giunsi in via D'Amelio fui riconosciuto dall'allora presidente della Corte d'Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all'interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell'esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell'ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un'ultima volta.
La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in "familiari superstiti di una vittima della mafia", che noi vivessimo come figli o moglie di ....., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva "Paolino" sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza "farci largo" con il nostro cognome, divenuto "pesante" in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo "montati la testa", rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l'onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra.
E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l'avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall'evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D'altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell'altro avrebbe "sfruttato" questo rapporto di sangue, avrebbe "cavalcato" l'evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di .... o perché di cognome fa Borsellino. (...)
Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Il testo di Manfredi Borsellino è tratto dal volume "Era d'estate" a cura di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi edito da Pietro Vittorietti.

giovedì 20 maggio 2010

Michele, dalla trincea all'incasso

Ci sono i carnefici, le vittime e le finte vittime. Queste sono le peggiori perché hanno l’apparenza delle seconde ma la sostanza dei primi. Alla categoria appartiene di diritto Michele Santoro, specialista nel darsela da martire rimanendo sempre a galla. Quando fu colpito, insieme a Luttazzi e a Biagi dall’”editto bulgaro” di Berlusconi, fece il ponte isterico e si atteggiò a san Sebastiano trafitto dalla protervia del Potere. Ma il meccanismo politico che lo escludeva momentaneamente dalla Rai era lo stesso che per quindici anni (Samarcanda è del 1987) gli aveva permesso di spadroneggiarvi indisturbato, in una posizione di monopolio, tanto nella Prima come nella Seconda Repubblica. Non perde occasione per dichiararsi “scomodo” e “autonomo dai partiti”. Ma che autonomia ha, e può aver mai avuto, uno che, a compensazione della sua cacciata dalla Rai, si fa eleggere parlamentare europeo nella lista Uniti nell’ulivo e che poi, dopo la breve e lucrosa parentesi, rientra in Tv appena i suoi amichetti politici vi hanno rimesso piede?

In realtà Santoro è un doppelgänger di Vespa. Ma meno abile. Ha una tale belluina faziosità che anche quando ha ragione viene istintivamente la voglia di stare dall’altra parte. Non mi stupisce che a Mediaset lo trattassero “come un re”, lo vezzeggiassero, lo coccolassero. Ha fatto guadagnare più consensi lui al Cavaliere di quanti gliene abbiano fatti perdere tutti insieme, con la loro lasciva laudatoria, Bondi, Schifani e Cicchetto. Se la tira da “duro e puro” ma è passato a Mediaset con un contratto miliardario (“non olet”), dopo aver per anni sparato a palle quadre su Berlusconi. Vi faceva la foglia di fico come Antonio Ricci che però ha almeno la scusante di essere lì da sempre.

Ci sono scrittori che hanno lasciato la Mondadori per non essere accusati di criticare Berlusconi e di prendere i soldi da lui. L’ultra ottantenne Montanelli abbandonò il “Giornale”. Altri sono entrati nella scuderia di Arcore, dove il mafioso Mangano, la faceva da stalliere, ma con la pretesa, dopo aver consumato questo stupro consenziente e generosamente pagato, d’esser rimasti vergini. Non è solo una questione di stile. Ma di palle. Di chi le ha e di chi le sventola senza averle. Santoro sembra sempre sul punto di azzannare il mondo intero, ma quando esce dalle denunce generiche e populiste, che sono la sua specialità, e ha a che fare con i potenti in carne e ossa, quelli che ti possono fare davvero del male, diventa uno specialista del dribbling. Una volta invitò Previti. Costui per difendersi da un’accusa più grave afferma testualmente: “Per quarantacinque o quarantasei volte l’avvocato Pacifico mi portò cinquecento milioni dalla Svizzera”, A questo punto ci si sarebbe aspettati che il feroce conduttore dicesse: “Fermi tutti. Lasciamo stare per il momento il resto, che è incerto. Il certo, onorevole Previti, è che lei è stato un colossale trasgressore delle leggi fiscali in anni in cui gli italiani non potevano uscire dal paese, nemmeno per un viaggio di piacere, con più di 800 mila lire”. Santoro fece finta di nulla, tirò dritto e tutto finì nella solita, inconcludente, confusione. Destituito di ogni ironia e autoironia, di qualsivoglia capacità autocritica, privo del senso del limite e dei limiti, soprattutto dei suoi, Michele Santoro è uno che si prende tremendamente sul serio, un “miles gloriosus” che confonde il proprio ombelico con quello del mondo.

Così racconta la sua giovinezza: “Ero molto popolare in città. Un capo vero. A Salerno ero adorato, avevo legioni di fan. Ai miei esami di maturità vennero centinaia di persone. Avevo il massimo di visibilità. Era facile avere tutte le donne che volevo. Come succede ai fenomeni popolari, ai cantanti, agli attori”. A questa fama di sciupafemmine il conduttore di Annozero tiene moltissimo. Ma il vero scopatore, come ognun sa, è silenzioso. Del resto è un uomo dalla volgarità innata, accentuata dal fatto che si ostina a indossare abiti firmati che, antropologicamente, non gli appartengono (la volgarità, com’è noto, è un “non stare nei propri panni” e Santoro è perennemente fuori dai suoi, persino quando è nudo).

Il suo iter è un classico. Da giovane ha militato in Servire il popolo, uno dei gruppuscoli più estremisti e idioti della galassia extraparlamentare (il loro vangelo era il “libretto rosso” di Mao), così a sinistra da finire per confondersi con la destra. Caratteristica che il conduttore ha conservato. Laurea in filosofia con 110 e lode negli anni della contestazione quando il 30 non si rifiutava a nessuno. Poi funzionario del Pci, quando i comunisti erano all’apice. Quindi, come tutti i leader e i leaderini del Sessantotto, l’approdo nei media di regime. In realtà si tratta, come in molti altri casi simili, di due buone braccia sottratte all’agricoltura, dove avrebbe potuto far bene perché è robusto e anche, almeno a giudicare dall’odore, vagamente ferino. E forse non aveva tutti i torti l’ex presidente della Rai, il pur vile e servile Enzo Siciliano, che però un po’ di cultura almeno la masticava, se non altro per aver bazzicato Pasolini e Moravia, quando, richiesto di un giudizio su “Michele”, rispose: “Michele chi?”.

(di Massimo Fini)

mercoledì 19 maggio 2010

martedì 18 maggio 2010

Le Crociate? Furono una cosa seria, non una buffonata leghista


Le Crociate furono una cosa seria. Persino un’apertura di civiltà nella ricostituita unità mediterranea. Non il becero rito che vuol proporci la Lega intriso di fondamentalismo religioso». Parla chiaro Franco Cardini, medievalista a Firenze, studioso di Europa e Islam (Laterza), che di Crociate se ne intende. Critico della guerra in Iraq a suo tempo, oggi si autodefinisce «Cattolico, socialista ed europeista», benché la sua sia una biografia culturale di destra. Fiorentino, 70 anni, critico dell’uso ideologico della storia, Cardini non risparmia fendenti alla «crociata leghista», annunciata ieri da Angelo Alessandri e tesa alla «reconquista» nordista delle regioni appenniniche.

Professor Cardini, la Lega muove da Piacenza alla Crociata contro le regioni rosse. Da Piacenza dove nel 1095 fu pensata la prima vera Crociata. Che pensa di questo gran riciclo della Crociata?

«L’uso del termine Crociata è molto tardo e all’inizio non la usava nessuno. A Piacenza si decise di accettare l’invito dell’imperatore di Bisanzio contro i turchi selgiukidi in Anatolia. Quello fu il nucleo della prima Crociata. Nel novembre 1095 al Concilio di Clermont Ferrand Urbano II annunciò l’accordo tra il Papa e l’imperatore per mettere in piedi reparti di cavalieri pesanti contro i Turchi. Poi si aggiunsero i pellegrini, i principi e la decisione di prendere Gerusalemme. Nessuno se lo aspettava, neanche i musulmani».

Ma che c’entra tutto questo con l’agitarsi della Lega?

«Un bel nulla! La Crociata come idea dal punto di vista canonistico e teologico si è affermata nel corso dei secoli, e prima della metà del duecento non c’erano diritti di Crociata, con privilegi, indulgenze e quant’altro. Poi la Crociata è un movimento complesso e ramificato - commerciale, politico - nel mediterraneo e anche in Spagna - e diventa “guerra religiosa di civiltà” solo nel XIX secolo. Nell’ottocento si lega al colonialismo, dopo che nel 700 l’illuminismo aveva duramente contestata l’idea di Crociata imperialistico-religiosa. E poi le Crociate non volevano convertire gli islamici, ma solo riconquistare la terra santa. Sarà nel 1830 Chateaubriand alla Camera a infiammare l’assemblea, parlando di ultima crociata, con i francesi alla conquista di Algeri».

Ma il rifarsi alla Crociata è un fatto comico oppure realmente calamitoso a suo avviso?

«Frutto di un uso becero della storia, in un tempo in cui essa non ha più un significato centrale. Quando gli uomini del Risorgimento o i fascisti idoleggiavano Roma, facevano certo un uso ideologico della storia. Mistificavano, ma allora si viveva in una società in cui l’insegnamento della storia era parte integrante della nazionalizzazione delle masse. C’era un nesso forte con lo stato-nazione e il suo clima pedagogico. Pare che adesso vogliano celebrare i 150 dell’unità con una mostra diretta da Bruno Vespa - relata refero - dove si spiegheranno le radici romane del Risorgimento. Viene da ridere. Poteva avere un senso nel 1849, con i mazziniani o persino durante il fascismo. Ma quella era un’altra società, con altre gerarchie, valori, mete sociali. Quando oggi i leghisti parlano di Crociata, ampolle e Carroccio, fanno delle buffonate kitsch. E così vengono fuori film bruttissimi come quello di Martinelli sulla battaglia di Legnano. Presentata nemmeno come lotta contro lo straniero Federico I - cosa non vera, il punto erano le tasse! - ma come rivincita dei Lumbard contro Roma ladrona».

Una specie di micro-nazionalismo paesano e populistico?

«Sì, un micronazionalismo condito con un perfido tentativo di riallacciarsi al neo-fondamentalismo religioso tipico dell’offensiva neocons, all’opera con Bush Jr in Iraq».

Dunque un certo fondamento «moderno» c’è. E sta nel nesso con l’idea degli Usa cristiani e imperiali, vindici dell’occidente in Oriente...

«La Crociata è stata in quel caso una foglia di fico storico, a copertura di un disegno imperiale. Nel caso della Lega no. Lì prevale la mera regressione, il brutto folklore senza cognizione della storia».

E però la Lega sfonda anche in Emilia, e avanza nelle Marche, Umbria e Toscana. Come mai questo moto ideologico - a tasso zero di cultura storica - attecchisce?

«Attecchirà ancora di più. Perché stiamo entrando in una fase acuta di crisi dell’economia globale, tra le convulsioni della borsa. Che cosa pensiamo possano capire di tutto questo gli italiani, rimpinzati di telefonini, isole dei famosi e centri commerciali? Possiamo spiegare loro che le lobbies stanno deprendando l’Africa di materie prime e acqua? O che la finanza specula in modo inafferrabile sulla recessione e sull’Euro, senza che nessuno possa mettere argini? Molto più facile raccontare loro che tutto dipende dall’ estraneo, dallo straniero. Un po’ come fu fatto in Germania negli anni trenta, con geniale e capillare uso dei media di allora. La Lega rifà lo stesso, in modo artigiano e paesano. In una società ancora più ignorante. E sfonda».

E alla sinistra afasica, lei che viene da altre sponde, cosa consiglia in tutto questo?

«Penso allo splendido striscione dei comunisti greci sul Partenone: popoli d’Europa sveglia! Questo consiglierei di dire alla sinistra e pure alla destra. Senza che ciò significhi buttare a mare il buono già fatto in Europa, a cominciare dall’Euro. Ma ci vuole un’Europa forte, politica, sociale. Che si prenda cura di chi ha bisogno, e senza discriminazioni tra cittadini immigrati e autoctoni. Altrimenti la Lega continuerà a crescere».

martedì 11 maggio 2010

Uomini, mezzi uomini e...


A Porta a porta l'onorevole Nania, ex An, cercando di giustificare Scajola ha spiegato, poiché non era credibile che il ministro non si fosse reso conto che 600 mila euro per un appartamento di 180 metri quadri in una delle zone più suggestive di Roma era un prezzo totalmente fuori mercato, che è usuale che una persona comune quando si trova a trattare un affare con un uomo del potere sia naturalmente portata a fargli condizioni di favore senza che ciò comporti necessariamente una contropartita. Mio padre, Benso Fini, che nel dopoguerra ha diretto per 13 anni Il Corriere Lombardo, il primo quotidiano del pomeriggio italiano, allora assai importante, e che respingeva qualsiasi regalia, anche modesta, eccettuati i libri, mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati. E questo mi ha evitato di cacciarmi in alcuni guai.

Nel 1979 lavoravo per il Nuovo Europeo di Mario Pirani e stavo trafficando per avere un'intervista da Toni Negri, in carcere da un mese. Oggi è semplice: ci si accorda con un parlamentare che entra in prigione e poi riferisce al giornalista. Allora le cose erano più complicate. Dopo estenuanti trattative riuscii a far arrivare a Negri le mie domande scritte e ad avere le sue risposte. Quando ebbi in mano tutto andai da Pirani, nel suo ufficio romano. Lui, che stava preparando il nuovo giornale, fu naturalmente molto contento: sarebbe stata la copertina del primo numero del "suo" Europeo. Nell'ufficio c'era anche l'Amministratore delegato Bruno Tassan Din che, preso dall'euforia, mi propose: «Venga con noi a Milano, sul nostro jet privato». «La ringrazio» risposi «ma ho già un biglietto Alitalia». «C'è anche Di Bella» disse Tassan Din per invogliarmi (era il direttore del Corriere). «Ragione in più per non venirci» replicai io, scherzando. Tassan Din parve molto seccato. Mezz'ora dopo Pirani mi richiamò nel suo ufficio: «Perché ha trattato così l'Amministratore delegato?». «Mio padre mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati». Due anni dopo Tassan Din e Di Bella furono pescati nella P2. Se io fossi salito su quell'aereo i due avrebbero fatto probabilmente delle avances e io, magari non capendo subito bene, avrei potuto farmi trascinare in situazioni poco chiare e compromesso una volta mi sarei compromesso per sempre. In queste cose vale quello che vale per le ragazze: se si lasciano mettere una mano sul ginocchio si arriva alla hause. I politici si fanno mettere le mani su tutte e due le ginocchia. E questo mi stupisce un poco. Sono già dei miracolati, gente che non ha fatto un'ora di lavoro vero in vita sua, che non sa far nulla e sono potenti, ricchi e famosi.

Potrebbero accontentarsi. Invece non ne hanno mai basta. Anche quando non prendono direttamente tangenti si fanno dare affitti a equo canone, pagare mezzi appartamenti, regalare anche la carta igienica. Scajola, per scagionarsi, ha detto che avrebbe dovuto essere un cretino per dare 80 assegni circolari davanti a dei testimoni. Ma c'è anche un'altra ipotesi: il senso di impunità che dà il potere, la convinzione che non si pagherà mai dazio. Lo abbiamo già visto in Tangentopoli. Pillitteri non si faceva consegnare sulla sua scrivania i quattrini, malamente avvolti in carta di giornale? E perché mai la classe dirigente di oggi dovrebbe essere diversa, quando sono quindici anni che non si fa che delegittimare la Magistratura e si è inzeppato il Codice penale, soprattutto per i reati finanziari, quelli di "lorsignori", di leggi talmente "garantiste" che arrivare a una sentenza definitiva è quasi impossibile? Amintore Fanfani, che da vero uomo di potere non ambiva al denaro, abitava all'ottavo piano di un normalissimo condominio in via Platone, non in un appartamento davanti al Colosseo. Ma Fanfani, oltre a essere stato un notevole docente universitario, aveva statura (politica) di statista. Questi son solo degli ometti.

(di Massimo Fini)

lunedì 10 maggio 2010

La Russa: Gianfranco, dì qualcosa di destra

Via Venti Settembre, a Roma, sede del ministero della Difesa: pochi passi e, all’angolo, c’è via delle Quattro Fontane. Per quei 3 milioni di italiani elettori di un partito che si chiamava Movimento sociale italiano la zona è familiare assai. C’era la sede a Palazzo del Drago. Fuori era parcheggiata la Fiat 500 di Giorgio Almirante e i fattorini del Secolo d’Italia, il quotidiano di questo partito proibito dalla Costituzione, a molti ufficiali del ministero recapitavano di nascosto la copia del giornale con gli articoli di Clemente Graziani. Sembra, è il caso di dirlo, un secolo fa.

Adesso l’inquilino del dicastero «dei valori di Patria e di custodia di valori nazionali» è Ignazio La Russa, uno che è stato attivista di quel partito, poi fondatore di Alleanza nazionale, quindi cofondatore del Popolo della libertà. La Russa è rimasto dentro le mura del Pdl mentre Gianfranco Fini, il suo ex leader, sta consumando una guerra per abbandonare definitivamente Silvio Berlusconi.

Che cosa accadrà, ha fatto una corrente a Milano?

Non è una corrente ma un posto dove la parola destra ha un preciso riferimento. Punto. All’interno del Pdl. Punto. Fosse stata una corrente…

Fosse stata una corrente avrebbe radunato un po’ più di gente da tutta Italia, e va bene, ma che cosa è accaduto con Fini?

Io la racconto per com’è andata. Poi se la sbroglia lei per come la deve scrivere. Se si fosse trattato di garantire piena libertà di opinioni all’interno del partito, ebbene, Fini avrebbe trovato in me il vessillifero. Ma di sabotare e uscirmene dal partito che sto contribuendo a costruire non se ne parla. Succede questo, è accaduto questo: quel giorno, prima di andare da Berlusconi, Fini chiama me perché mi riconosce qualcosa: mi ha visto nel partito, nella sede di via Mancini, a Milano, due anni prima che io conoscessi lui. Ci mettiamo a piangere. Parliamo di una storia lunga più di 30 anni. E mi spiega: tra un’ora vado da Berlusconi e gli dico che: a) mi sono pentito di avere fondato il Pdl; b) fondo dei gruppi parlamentari autonomi. Praticamente una scissione quando subito dopo, convocando lui una riunione, chiama a raccolta i suoi senza però invitare me. Tutto diventa chiaro, perfino troppo. Vuole la rottura. E con lui ci sono quelli che devono tutto a lui.

Ma Italo Bocchino non deve tutto a lui, anzi è stato perfino osteggiato da Fini che lo aveva messo ultimo in lista sperando che non venisse eletto.

È vero. La famosa vicenda della Caffettiera di Roma, con me, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli accusati di congiura, altro non era che una riunione riservata per cercare una strategia in difesa di Italo. Fini a tutti i costi lo voleva umiliare. Sono contento che adesso abbia cambiato idea.

Con la conseguenza di questi destini separati.

Italo alza sempre l’asticella. Ottenuto un risultato, passa oltre.

Ma questo Pdl è un partito che sente sinceramente suo?

Senza dubbio alcuno. Mio. Non è certo il Movimento sociale, ma già Alleanza nazionale non era neppure il partito per come l’abbiamo conosciuto. Lo iato, o chiamatelo come cavolo volete, è Fiuggi. Quando veniamo chiamati ad abbandonare la casa del padre, lo facciamo con dolore e con convinzione. Ma con la serena maturità di un figlio che si sposa, va via e però ci torna dal padre nelle occasioni belle, nelle ricorrenze.

A proposito: lei celebra la Liberazione…

Ma la mia coscienza mi impone di dire ciò che per molti anni sarebbe stato inaudito sentire. Quello per cui eravamo stati educati: non rinnegare, non restaurare. Anzitutto la pacificazione degli italiani. Mi danno la scorta oggi che la gente mi dà le pacche sulle spalle, dovevano darmela prima quando rischiavo la pelle.

Non rinnegare, non restaurare. Leo Longanesi aveva scritto un libro con un grande titolo: «Un morto tra noi».

Non posso dimenticare quando, un aprile di molti anni fa, con Pinuccio Tatarella e le nostre mogli eravamo in vacanza. Andavamo a Sankt Moritz e ci veniva comodo passare da Giulino di Mezzegra…

Dove venne assassinato il Duce e dove Bettino Craxi, come ha ricordato recentemente la figlia Stefania, un giorno andò a portare dei fiori?

Appunto. Io proposi a Pinuccio di passare da lì e portare un segno, un fiore, un segno di croce. Ebbene, mi fece una cazziata infinita: «Non si fanno queste cose, ci tengono fermi per sempre». E però aggiungeva: «Le devono fare gli altri». E, infatti, le faceva Craxi.

Aveva ragione Tatarella?

A differenza della sinistra, che nel mondo giovanile ha sempre coltivato la propria ala estremista, a destra, al contrario, i ragazzi sono stati sempre un’avanguardia aperta al dialogo. Già negli anni Cinquanta era così, figurarsi dopo, quando nel 1976, con Pinuccio, Massimo Anderson, Pietro Cerullo e Riccardo De Corato, alzavamo il confronto con Almirante fino a sfidarlo nei contenuti.

È l’anno della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Allora avevano ragione loro, gli scissionisti?

Hanno gettato il seme. Hanno solo sbagliato i tempi e i modi. E i compagni di processione, ovvero la Democrazia cristiana che già aveva scelto di buttarsi col centrosinistra e non voleva far nascere un grande fronte per i moderati italiani. Voleva il compromesso storico. Democrazia nazionale gettò il seme ma oggi posso dire che avevano ragione. Non li seguii nella scissione così come oggi non seguo Fini.

Fini sta per caso sbagliando tempi e modi, allora?

Sono troppe le cose che non capisco di Fini, non so neppure se le cose che dice siano di destra.

Forse Fini dice oggi le cose che ieri, prima di essere espulso dal Msi, predicava Marco Tarchi.

Non credo proprio che siano le stesse cose e su Tarchi, se permette, vorrei dire una cosa: aveva ragione con la sua Nuova destra. Magari sbagliava a scimmiottare la sinistra, ma fu fondamentale per la nostra area con i suoi Campi Hobbit e i suoi libri. E poi non fece la scissione. Fu espulso. E con una motivazione idiota: avere scritto su La Voce della fogna, il più bello dei giornali nati a destra, un articolo satirico sull’organizzazione di Mirko Tremaglia per gli italiani all’estero. Non si censura la satira. Tarchi non lo sa ma io lo difesi in quell’occasione.

Visto il risultato alle elezioni del 2006, con le liste di Tremaglia a fare danno, era una premonizione. Tarchi oggi è un politologo estraneo ai partiti, ma quel Msi era dunque destinato a essere il lievito di un partito maggioritario dei moderati?

E chi, altrimenti? I liberali, il cui partito, il Pli, al tempo, nella costituzione dei governi, poneva la condizione irrinunciabile ed essenziale che li volessero?

Nessuna, ma proprio nessuna nostalgia?

Soggettivamente sì ma oggettivamente no, ma è l’essere stato un ragazzo ciò che rimpiango. L’Italia di oggi somiglia ai miei sogni e la guerra civile la sento remota. Sono cugino di Franca Rame!

Perché, Rame è di Paternò?

Scherzo. Lei è prima cugina della mia prima moglie e così mio figlio è cugino di Franca Rame. Cose che se fossimo in Sicilia faremmo il Natale tutti insieme. A Milano, dove nessuno si saluta, la cosa si perde. In ogni modo io non vorrei perdere me stesso. Rivendico, da ministro, il diritto di cambiare il meno possibile.

Per questo scatta dentro l’attivista che è in lei?

Almeno una notte, in campagna elettorale, devo seminare la scorta e farmi la mia bella alba di attacchinaggio. A proposito di scorta: la prima volta, da vice-presidente della Camera, me ne dettero due di agenti, così gracilini, che una volta, senza offesa, glielo dissi: «Se succede qualcosa, vi difendo io».

(di Pietrangelo Buttafuoco)

Perché ci piace il j'accuse di Massimo Fini

«Ci sono solo due modi - ha scritto a suo tempo Francesco Merlo - di essere italiano. O assumendo su di sé tutti i vizi e i difetti d'Italia, o sentendosi sempre altrove, sempre contro, sempre fuori. O arcitaliano o antitaliano». Sottolineando però che «l'italiano antitaliano è l'italiano migliore che abbiamo, dai Pirandello ai Montanelli». Bene, adesso in questa lista va senz'altro incluso Massimo Fini, il giornalista e scrittore più irregolare dei nostri tempi che con il suo ultimo libro fresco di stampa - Senz'anima. Italia 1980-2010 (edizioni "chiarelettere", pp. 472, € 15,00) - ricostruisce, attraverso gli articoli che ha pubblicato nel corso degli ultimi tre decenni, i profondi mutamenti antropologici, sociologici, etici ed estetici del nostro paese, per arrivare alla conferma del classico j'accuse di tutti gli antitaliani: «Io - dice - non mi riconosco più in quest'Italia».
Riecheggiano un po' in questo giudizio le famose parole di Giovanni Amendola, «quest'Italia che non ci piace», che sulla Voce di Giuseppe Prezzolini fecero esordire nel 1910 tutto questo filone culturale. Ma tant'è, Massimo Fini non ha nessun problema a ricollegarsi a quella precisa temperie culturale, la "ventura delle riviste" come si disse, da cui - ammette lui stesso - «uscì il meglio del fascismo e dell'antifascismo». Classe 1943, nato a Cremeno, in provincia di Lecco, da padre giornalista toscano e da madre russa, Fini frequenta a Milano al mitico Berchet il ginnasio e i primi due anni di liceo, poi viene espulso a passa al Carducci, dove sarà vicino di banco di Claudio Martelli. «Mi definivo - ricorda - anarchico liberale, facendo impazzire l'unico comunista della classe».Di quegli anni e del suo orientamento politico culturale, così descrive l'orientamento suo e di quelli come lui: «Noi, ribelli ma non rivoluzionari, lettori del Camus de L'uomo in rivolta e avversi al Sartre "compagno di strada", che agli albori degli anni Sessanta ascoltavamo, carbonari segnati a dito dal benpensantismo borghese non meno che da quello cattolico e comunista, il primissimo De André».
Non è da tutti, d'altronde, aver avuto don Luigi Giussani come professore al liceo; essere stato amico di Indro Montanelli; aver lavorato dopo la laurea in giurisprudenza alla Pirelli, prima come impiegato e poi come pubblicitario e copywriter; essere stato l'amico che ha trascorso a chiacchierare in macchina fino alle tre del mattino l'ultima notte di Walter Tobagi prima che il giovane giornalista del Corriere venisse assassinato dai terroristi; aver cominciato nel '71 la professione all'Avanti! diretto da Ugo Intini; aver intervistato quasi tutti i protagonisti della politica e della cultura in Italia; aver animato nei primi anni Ottanta la rivista Pagina, insieme a un gruppo di intellettuali abbeveratisi alle acque più libertarie del '68 come Ernesto Galli della Loggia, Giampiero Mughini, Aldo Canale, Paolo Mieli, Giuliano Ferrara e Pierluigi Battista.
Dal 1985, poi, Fini ha pubblicato una serie di libri - a cominciare da La ragione aveva torto? - in cui ha espresso una posizione di critica nei confronti dei paradigmi dominanti, dall'utilitarismo al consumismo fino al mito della crescita e all'occidentalismo. In questo quadro, diceva che i concetti di destra e sinistra erano obsoleti, vecchi di due secoli in cui le trasformazioni sociali e culturali hanno reso inutilizzabili queste divisioni, anche alla luce di una sempre maggiore somiglianza programmatica tra le diverse forze politiche. E da allora approfondisce via via la sua convinzione che le etichette di destra e sinistra non significano più niente e la vera dicotomia emergente sia quella tra coloro che vogliono imporre un'unica visione del mondo che unifichi il tutto in principi (culturali, giuridici ed economici) universali e chi, invece, vuole difendere i propri valori e la propria diversità seppur in contrasto con il cosiddetto pensiero unico. Non è un caso che nel 1983 un suo scritto autobiografico compare nell'antologia C'eravamo tanto a(r)mati, un libro curato da Stenio Solinas e Maurizio Cabona che puntava ad archiviare le logiche degli anni '70 e al quale parteciparono tra gli altri anche Massimo Cacciari e Diego Gabutti, Francesco Guccini e Giordano Bruno Guerri, Armando Torno e Umberto Croppi, Paolo Isotta e Raffaele Belcaro, Adolfo Morganti e Alberto Camerini.
Del periodo che va dagli '80 a oggi si occupa invece questo Senz'anima che, come dicevamo, potrebbe apparire a primo acchito come una raccolta di articoli di Fini, «scegliendo - precisa - fior fiore quelli che paiono migliori». Ma il risultato non è proprio quello, solito, dei libri messi su assemblando materiali già pubblicati. Qui c'è invece un vero filo conduttore e un'interpretazione unificante che consentono un'operazione in qualche modo paragonabile agli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Se l'intuizione di fondo degli articoli del poeta-regista unificati in quell'opera era l'omologazione antropologica degli italiani in atto all'inizio degli anni Settanta, qui emerge il quadro dell'Italia del nuovo millennio, «che ha perso ogni freschezza, la sua antica grazia, senza sorriso, cupa, volgare, ossessionata dal denaro, dal benessere, dal corpo, dagli "status symbol", dai gadget, dagli oggetti». Un'Italia, annota Massimo Fini, «pronta a commuoversi su tutto, solo per potersi autocompiacere della propria commozione, ma sostanzialmente indifferente all'altro, al vicino, al prossimo. Un'Italia senza misericordia».
Il libro parte da un reportage uscito su Il Giorno nel gennaio 1983, in cui si descriveva il nuovo quartiere di Milano Due. Fini venne colpito da quello che gli sembrò un negozio: «Spinsi la porta a vetri - scriveva - e mi trovai in un locale che, lì per lì, non capii se fosse una cucina, una gelateria o una saletta di conferenze. Nel corridoio, fra le sedie, c'era un carrello a tre piani, di quelli che, solitamente, si usano per servire i liquori. Non so da che cosa mi resi conto, forse da un crocifisso, che quella era una chiesa, la chiesa di Milano Due». Successivamente, leggiamo poco dopo, quella cappella è stata sostituita da una più grande, «ma la sensazione di straordinaria freddezza è identica». E l'esempio è estremamente attuale, aggiungiamo. Chiunque ha assistito di recente ai servizi televisivi sul funerale di Raimondo Vianello, che si è celebrato proprio lì, avrà ad esempio notato che quando in un servizio si è fatto riferimento a Baudo che prendeva la parola, una telegiornalista lo ha presentato dicendo: «Pippo è salito... sul palco».
L'estrema attualità del libro di Fini emerge in tutta evidenza anche nelle pagine - risalenti al 1995! - su Vittorio Feltri e il suo modello di giornalismo. Sottolineando il repentino passaggio dal giustizialismo più virulento al garantismo militante del direttore del Giornale, Fini scriveva: «Feltri non tralascia mai di ricordarci che lui, comunque, vende, vende, vende. È diventato il suo leit motiv, e si direbbe quasi la ragione della sua esistenza, come se un giornale fosse un negozio di patate o di un'imnmobiliare o una concessionaria di pubblicità. La Voce di Prezzolini vendeva tremila copie, ma dalle sue pagine è uscito il meglio dei movimenti di pensiero e degli uomini che hanno fatto la storia italiana del Novecento». E di quest'Italia che "non gli piace" a Fini non va giù che «i comunisti sono diventati anticomunisti, i fascisti antifascisti, Ferrara liberale, Feltri garantista...». Una cosa è certa: Fini è irriducibile a tutti gli schemi del pensiero unico. Critico della globalizzazione, dell'americanosfera e della deriva televisiva del discorso pubblico, resta un libertario. E va giù duro contro il clima di divieti e censure tipico dei nostri anni: «In molte città è vietato anche chiedere l'elemosina, cosa che non si era mai vista in nessuna società del mondo a eccezione della Russia sovietica». E conclude: «Non ci sono mai stati tanti verboten e limiti alle libertà individuali come nell'epoca presente, dove tutti si dichiarano liberali».
(di Luciano Lanna)

La partigiana Fallaci fa a pezzi l’antifascismo

Ci voleva la zampata postuma di Oriana Fallaci, da morta, per rianimare il dibattito sulla cultura italiana. Ieri hanno fatto brillare una mina lasciata dalla bellicosa Oriana in una lettera inedita di dieci anni fa. È una lettera su Gentile, Croce e la viltà degli antifascisti, dura e schietta come nella prosa fallaciana, scritta a Chicco Testa e resa nota dal Riformista. In questa densa lettera (scritta a fine luglio del 2000), la Fallaci dice quattro cose: che l’assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Che Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei «cacasotto» perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato. E infine, che avrebbero dovuto ammazzare Croce, che, parole sue, all’inizio «leccò il culo» a Mussolini, come molti intellettuali «che poi sarebbero diventati numi del Pci». In quattro mosse la Fallaci descrive con la sua brutale franchezza il Novecento intellettuale italiano.

Sì, l’assassinio di Gentile fu una carognata, ingiusta e vigliacca, ha ragione la Fallaci. Ma la cosa più grave che alla Fallaci sfugge fu che Gentile non fu ucciso perché fascista intransigente, ma al contrario perché puntava alla concordia, chiedeva a fascisti e antifascisti di sentirsi prima di tutto italiani e uniti nella tragedia della guerra. Questo non gli fu perdonato: non piaceva ai fascisti fanatici e spiazzava gli antifascisti feroci, in larga parte di estrazione comunista. De Felice distinse tra fascismo-movimento, radicale e rivoluzionario, e fascismo-regime, conservatore e autoritario. Io credo che esista anche un fascismo-partito e un fascismo-nazione, ovvero una visione militante e partigiana del fascismo; ed un fascismo-nazione che pensava al fascismo come al braccio secolare dell’Italia, nel senso che il fascismo era per loro la realizzazione dell’Italia nel Novecento, come il Risorgimento lo era stato nel secolo precedente; ma l’Italia era il punto fermo. A questa idea del fascismo-nazione aderirono Gentile e Rocco, Volpe e altri grandi. Anche la Repubblica sociale fu per loro una necessità storica ma non l’apoteosi del fascismo. Gentile vi aderì per coerenza col suo passato, Volpe si tenne in disparte, Rocco era già morto. Tutto il pensiero di Gentile era percorso dall’idea di unità, identità, comunità e non da quello di fazione e guerra civile.

Per la Fallaci, Gentile non era fascista; è una mezza verità. Sì, perché il suo pensiero si era compiuto prima che nascesse il fascismo: l’arco della sua teoria è già conchiuso nella prima guerra mondiale. Sul piano della cultura politica il suo fu un pensiero risorgimentale, percorso da un’idea della politica come religione civile e dello Stato come valore etico super partes. Con le pericolose controindicazioni totalitarie che sappiamo. La sua riforma della scuola non fu la più fascista delle riforme, come disse Mussolini, ma una grande riforma umanistica di idealismo educativo, percorsa da amor patrio. La sua «Enciclopedia» fu aperta a studiosi antifascisti. Ma la sua adesione al fascismo non fu un incidente di percorso e nemmeno un equivoco: l’idea dello Stato nel fascismo ebbe in lui il teorico più forte; la filosofia della guerra ebbe in Gentile la sua più alta elaborazione; il tentativo di annodare il fascismo al Risorgimento fu opera di Gentile sul piano filosofico e di Volpe sul piano storico. No, non fu occasionale il suo fascismo.

Dure ma veritiere poi le parole di Oriana Fallaci sugli antifascisti. Noto solo che quei partigiani non vollero sminare i ponti non solo per mancanza di coraggio, come lei scrive, ma perché -come insegna anche la vicenda via Rasella-Fosse ardeatine a Roma - c’era in alcuni capi partigiani la logica del tanto peggio tanto meglio. Ovvero le brutalità naziste potevano servire a generare un clima di odio verso i medesimi e i loro alleati fascisti, e quindi a legittimare la lotta antifascista, la guerra rivoluzionaria e le vendette più atroci.

Infine trovo ingiusto il giudizio della Fallaci su Croce. È vero che il primo Croce sostenne il fascismo e anzi lo alimentò anche teoricamente: le opere di Sorel, che furono breviari per il fascismo, le aveva portate lui in Italia. L’idea di un dittatore che rimettesse a posto l’Italia dopo il biennio rosso non dispiaceva a Croce. Ma pensava ad una dittatura momentanea, come ai tempi dei romani. E non dimentichiamo che, a differenza di Gentile, Croce non fu interventista; era e restava giolittiano. Poi, dal ’25 in avanti, avversò il fascismo, chiamò a raccolta gli intellettuali nel celebre manifesto, mantenne dignitoso dissenso, e pubblicò per quasi tutto il ventennio La Critica che fu una palestra di antifascismo. No, Croce non fu un «leccaculo» e nemmeno un voltagabbana.

E qui, infine, vorrei dire una cosa sugli intellettuali italiani. Li consideriamo opportunisti e vigliacchi, camaleonti e servili ma è giusto se ci riferiamo alle seconde file. I grandi intellettuali italiani del Novecento furono coerenti e pagarono di persona. Tralascio quanti combatterono o persero la vita nella prima guerra mondiale, interventisti intervenuti, ma dico Gentile e Gobetti, Gramsci e Martinetti, Rensi e Soffici, Bonaiuti e Ducati, Volpe e Marinetti o fra i più giovani Berto Ricci e Giaime Pintor. Alcuni furono uccisi, altri pagarono con l’emarginazione, l’esilio, la perdita delle loro cattedre. A differenza di altri intellettuali europei pusillanimi e defilati: penso ad esempio a Sartre o al grande Heidegger. Croce non patì per il suo antifascismo ma fu comunque sorvegliato e minacciato. Il vero errore degli intellettuali civili italiani fu che credettero alla coincidenza di cultura e politica, e così restarono prigionieri del loro sogno totalitario: dico Gentile, Gramsci, Gobetti. L’idea che cultura e politica coincidono fu la madre di tutte le più rovinose utopie e di quella brutta razza che fu l’intellettuale organico e asservito al potere. Sciagurato è pure separare cultura e politica: più saggio è pensare alla loro continuità pur nell’autonomia delle sfere. Ma toglietevi il cappello quando parlate di loro, perché pagarono di persona le loro idee. E non confondeteli con la media, anzi con la marmaglia dei professori che giurarono per il regime e per le leggi razziali, pur essendo antifascisti, e poi saltarono il fosso. I mediocri galleggiano sempre, tra clan mafiosi e servitù; i grandi pagano la loro grandezza con la vita e la solitudine.

(di Marcello Veneziani)

sabato 8 maggio 2010

Cameron, il conservatore rivoluzionario

A vederlo, non fa molta simpatia, David Cameron. E non mi pare che abbia un gran carisma. Meno simpatia fanno i suoi sostenitori, da certi Tory a Murdoch, fino all’Economist, specializzato in diffamazione dell’Italia a mezzo stampa: l’ultima che mi colpisce negli affetti più intimi, definisce il Sud d’Italia «il regno del Bordello» ed auspica la sua espulsione dall’Europa. Ma Cameron non è solo la password che l’Inghilterra ha scelto per chiudere con i laburisti di Gordon Brown e accedere al cambiamento. Cameron è il leader giovane e pragmatico di un partito giovane e antico, il Partito conservatore, e ha saputo rianimarlo in modo interessante. Lo dico pensando al Regno Unito, ma anche all’Europa, all’Italia e alla sua destra. Cameron ha promesso una rivoluzione conservatrice. Il termine, per gli europei continentali, evoca grandi movimenti di idee calate nella storia, grandi autori. Ma nel gergo politico atlantico, si parlò di rivoluzione conservatrice a proposito dell’onda reaganiana; ne parlò Guy Sorman, per esempio. Qual è la novità del giovanottone inglese? Cameron ha capito che non si può essere conservatori con la parrucca nell’anno di grazia 2010 e nemmeno si può riproporre la ricetta Thatcher, salutare trent’anni fa. E allora ha shakerato idee forti e valori permanenti della tradizione conservatrice con nuove idee, nuovi linguaggi e aperture al presente. Il tutto incartato in un look informale, sportivo e rassicurante.

Le tre principali differenze rispetto ai conservatori del passato sono assai interessanti per noi europei perché sembrano provenire dal nostro continente. La prima è la svolta sociale del conservatorismo, il progetto riformatore, la convinzione che lo Stato debba garantire maggiore giustizia sociale, più qualità alla scuola pubblica, controllo dell’anarchia finanziaria, dopo le follie prodotte dal mercato. Una svolta rispetto alla tradizione conservatrice inglese e rispetto al liberismo della Thatcher; ma una svolta che riannoda i conservatori britannici alla tradizione cristiano-sociale, gollista e di destra sociale europea. Da noi una svolta analoga l’ha fatta Tremonti, passando dal liberismo a una visione sociale dello Stato, critica verso il mercatismo e rafforzata dalla difesa della tradizione. La seconda novità rispetto ai conservatori è l’interesse per l’ambiente, la difesa della natura dal degrado e dall’inquinamento, la visione di un eco-conservatorismo che toglie finalmente il monopolio verde al velleitario ideologismo radical e lo coniuga al realismo dei conservatori. Bella svolta.

Il terzo tema nuovo e forte è l’idea di comunità, tema centrale della nuova destra europea. Un’idea forte, che consente da un verso a Cameron di svoltare rispetto all’individualismo dei conservatori o all’idea popperiana della Thatcher che la società non esiste, esistono solo gli individui. Ma dall’altro verso l’idea comunitaria permette a Cameron di riprendere in modo nuovo la difesa dei legami territoriali, l’identità nazionale, le tradizioni inglesi, le radici cristiane della nazione, la famiglia, che è al centro del discorso di Cameron, la politica per l’infanzia e la tutela del matrimonio. Qui si innestano alcune aperture di Cameron, anche discutibili, come i Pacs per riconoscere le coppie omosessuali, una maggiore indulgenza sul piano dei costumi, dopo il rigorismo puritano e vittoriano, peraltro impraticabile dopo tanti episodi in cui sono rimasti coinvolti anche esponenti conservatori; o una linea più morbida verso le droghe che ora è invece rientrata, visti gli effetti devastanti che ha prodotto. C’è qualcuno in Italia che si attacca a questi spunti marginali e in parte rientrati per ricavare un’analogia con il nuovo corso finiano. Ma dimenticando i temi forti e centrali di Cameron, sulla famiglia, l’identità nazionale, la tradizione religiosa, la comunità, o la tolleranza zero contro la criminalità e l’immigrazione clandestina. A proposito d’immigrazione, per Cameron è fallito il modello multiculturale inglese; bisogna da un verso riconoscere e rispettare tutte le etnie e i loro diritti, integrando a pieno titolo gli immigrati regolari, ma dall’altro bisogna garantire la coesione nazionale, il rispetto delle leggi inglesi e il primato della comunità nazionale sulle minoranze etnico-religiose.

Ricavo questi giudizi e queste sue posizioni dopo aver seguito non solo la sua campagna elettorale, ma dopo aver letto due libri tradotti in Italia da Pagine, «La mia Rivoluzione conservatrice», frutto di una conversazione con Dylan Jones (uscito in Italia con una prefazione firmata da Fini); e poi, nella collana dei libri del Borghese, «Cameron, nuovo conservatorismo», a cura di Francis Eliott & James Hanning. Non so se Cameron riuscirà a mettere su strada queste idee, e se riuscirà a fare un governo, visto che ha vinto ma non ha la maggioranza assoluta dei seggi perché mentre noi scoprivamo il bipolarismo dell’alternanza, gli inglesi si sono convertiti al tripartitismo e alla logica continentale delle coalizioni. Però sarebbe una bella scommessa e un bell’esperimento.

Noto in definitiva due cose: l’Inghilterra somiglia sempre più all’Europa continentale e i conservatori di Cameron vi si adeguano con duttile intelligenza. Ed è un paradosso, considerando che Cameron resta un euroscettico. E poi, dopo l’epoca di Blair, laburista molto lib e poco lab, molto filoamericano e guerriero, arriva un conservatore che riscopre il sociale, la comunità, che sa dissociarsi dagli Stati Uniti e disapprovare Israele quando lancia i missili, che critica Bush per la disattenzione all’ambiente (ma poi lo imita riprendendo il suo conservatorismo compassionevole). Che la sinistra inglese sia sempre più liberal e sempre meno comunitaria, lo avevo riscontrato in un carteggio con sir Ralf Dahrendorf che opponeva al mio comunitarismo la visione individualista. Cameron coglie le conseguenze di quella svolta. Cameron nutre simpatia per Obama e Sarkozy e invece non conosce Berlusconi; è tempo per entrambi che si cerchino e si incontrino presto. Auguri, perfida Albione dal Bordello del piano di sotto.

(di Marcello Veneziani)