mercoledì 30 giugno 2010
A Bruxelles poteri occulti contro la Chiesa
Il caso Papini, ribelle dimenticato
E a sostenere questo errore tipicamente italiano c’è stato uno scrittore del calibro di Jorge Luis Borges che aveva detto: «Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato». Un sospetto che, in questi anni, ha dimostrato la sua implacabile verità, perché il "ritorno" di Papini è sempre stato rimandato, a differenza di altri "irregolari" che invece hanno suscitato un curioso interesse, come nel caso di Malaparte. Speriamo, ora che arriva, edito nella meritoria collana dei "classici cristiani" di Cantagalli, finalmente in libreria, la ristampa di un libro-cardine nella sua esperienza di scrittore, Sant’Agostino (pagine 254, euro 18,00), che ci si disponga finalmente a riaprire il "caso" Papini, prima dissacratore, ateo, ribelle poi convertito al cristianesimo (nel 1921), in una dimensione tutta sua, quasi controcorrente.
Nell’ampia e importante prefazione al libro Carlo Lapucci, lo inquadra come «uomo di polemica e di critica, con tutti i difetti del polemista sarcastico, orgoglioso e mai soddisfatto, anche se disordinatamente, ha contribuito allo svecchiamento di un’Italia ancora piccola e conformista», ma mette anche in rilievo il segno di un’irrequietezza che diventa «la chiave nella quale va letto oggi Papini: i difetti sono gl’ingredienti di cui è fatta una personalità singolarissima e tutta italiana con l’ansia di trovare, scoprire, distruggere e rinnovare», con due temi che segnano il suo tormento e la sua meditazione: Dio e il Male.
La figura di Sant’Agostino diventa ai suoi occhi una sorta di alter-ego, con il quale confrontarsi proprio su questi due temi. E il Santo d’Ippona diventa decisivo per la sua maturazione, una sorta di inconsapevole inseguimento della sua storia pubblica e interiore che avviene fin dai tempi dell’infanzia e della giovinezza, quando ne sente parlare da una sua zia o quando alla Galleria degli Uffizi vede una piccola tela di Sandro Botticelli, rimanendo affascinato, come sottolinea lui stesso, da quel «singolare colloquio tra la sacra vecchiezza e l’ingenua puerizia dinanzi al gran mare chiaro e deserto».
È la gioventù inoltrata a offrirgli l’incontro risolutivo, attraverso la lettura delle Confessioni. È ancora presto per trovare una corrispondenza piena al nodo metafisico, ma la dimensione umana dell’esperienza di Agostino diventa per lui fondamentale: «Posso dire che prima di tornare a Cristo, Sant’Agostino fu, con Pascal, l’unico scrittore cristiano ch’io leggessi con ammirazione non soltanto intellettuale. E quando mi dibattevo per uscire dalle cantine dell’orgoglio a respirare l’aria divina dell’assoluto, Sant’Agostino mi fu di gran soccorso».
Del resto il giovane Papini, nella sua irrequietezza, si ritrova in una dimensione quasi a specchio rispetto a quella agostiniana, tanto che non ha problemi a scrivere: «Gli somigliavo, si capisce, nel peggio, ma insomma gli somigliavo. E che un uomo a quel modo, così vicino a me nelle debolezze, fosse arrivato a rinascere e a rifarsi mi rincorava».
La biografia esce nel 1929, ma per Papini è una sorta di debito morale, che ha più volte rimandato: «Da un pezzo meditavo di scriver questa vita, ma, preso da un’opera che mi pareva di gran lunga più importante, l’avevo sempre rimandata, senza mai rinunziarvi, finchè la voglia mi ha vinto e mi ha forzato a sciogliere il voto».
Qualcuno potrebbe obiettare che la "vita" di Papini possa sembrare datata, visti gli studi e le ricostruzioni biografiche che del Vescovo di Ippona, sono state fatte: va detto invece che la biografia di Papini stupisce proprio perché pensata da un grande scrittore che ha scelto di raccontare, al di là delle competenze critico-testuali necessarie, ponendosi nella condizione di ogni lettore, che vuole capire il senso dell’esperienza agostiniana. E la sua costante attualità. Così non sceglie né l’aspetto puramente biografico, né quello dell’illustrazione del suo pensiero, bensì segue la necessità di scrivere, «come artista e come cristiano, la storia di un’anima e anche gli accenni alla sua opera immensa non sono altro che assaggi, necessari per illuminare meglio il suo spirito e per dare un’idea meno monca della sua grandezza».
Evitando così il rischio dell’agiografia a tutti i costi, soprattutto nella volontà che è anche la novità sostanziale che anche storicamente rappresenta questa biografia, di non voler celare o soprassedere sugli aspetti negativi della vita del Santo, osservandoli nella prospettiva del percorso di Redenzione. Per un bisogno di verità rispetto alla rappresentazione anche del Male: «Non ho nascosta o velata nessuna delle colpe di Agostino giovane, a differenza di certi panegiristi di buona volontà ma di poco senno, i quali si studiano di ridurre quasi a nulla la peccaminosità dei convertiti e dei santi, non pensando che proprio nell’esser riusciti a risalire dal letamaio alle stelle consiste la loro gloria e si manifesta la potenza della Grazia».
(di Fulvio Panzeri)
Con Mussolini quest’inferno è diventato il nostro paradiso
No al calcio moderno
Così i camalli affondarono la democrazia dell'alternanaza
In quel tempo l’Msi era guidato da Arturo Michelini, un nazional-conservatore che voleva inserire il suo partito nel gioco politico delle alleanze. Del resto, negli anni cinquanta, molte amministrazioni del sud erano rette dall’appoggio monarchico e missino, e perfino il Pci di Togliatti aveva trescato in Sicilia con l’Msi per sostenere la giunta Milazzo. Insomma, la guerra civile del ’45 e il frontismo radicale del ’48 erano ormai ricordi sepolti, come ricordo lontano erano ormai i celerini di Scelba contro i manifestanti o la legge dello stesso Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’Msi ebbe l’infelice idea di celebrare il suo congresso a Genova, città antifascista con un forte movimento sindacale e comunista. Di fronte alle minacce della sinistra, il Prefetto di Genova aveva saggiamente proposto di spostare il congresso missino a Nervi. Ma social-comunisti, Anpi, Cgil e portuali non accettarono il compromesso; volevano cogliere il pretesto del congresso missino per abbattere il governo di centro-destra. Sarà proprio Sandro Pertini (che perfino il suo compagno di partito Pietro Nenni considerava un violento) ad accendere il fuoco della rivolta con il «discorso del brichettu» (il fiammifero) del 28 giugno.
Due giorni dopo la città fu messa a ferro e fuoco dagli insorti, come accadde poi nel luglio del 2001 ad opera dei no-global. Aggressioni ai delegati missini, rifiuto di accoglierli in albeghi e locande, la celere travolta dai camalli, le jeep della polizia capovolte, incendi e assalti. Forse fece bene la polizia a non rispondere col fuoco e fecero bene i missini a non mobilitare il loro servizio d’ordine che comunque sarebbe stato soccombente. Ci sarebbero stati molti morti, non solo a Genova. Alla fine a morire fu il governo Tambroni e a restare invalida fu la democrazia italiana, che perse da allora il fianco destro. La spuntarono loro, i camalli d’assalto e le sinistre di piazza. Sotto i colpi della piazza i ministri della sinistra dc rassegnarono le dimissioni, il governo Tambroni cadde e gli stessi che avevano giudicato con allarme la violenza di piazza, come Moro e Fanfani, aprirono poi alla stagione del centro-sinistra, portando i socialisti al governo. Quando si parla del rumore di sciabole dei militari e carabinieri italiani, e della strisciante tentazione golpista che attraversò l’Italia tra il ’64 e il ’70, da De Lorenzo a Borghese, coinvolgendo i partigiani Sogno e Pacciardi, si deve considerare quel precedente genovese che rendeva impossibile la nascita per vie democratiche di un centro-destra in Italia. Quel clima violento perdurò a Genova fino ai primi anni 70, se si considera che tra i primi passi del terrorismo rosso in Italia ci furono l’assassinio del militante missino Ugo Venturini e il rapimento del magistrato “destrorso” Mario Sossi.
L’insurrezione di Genova diventerà la madre di tutte le mobilitazioni di piazza con cui la sinistra in Italia ha inteso forzare la democrazia italiana, i suoi governi, le sue scelte, le sue alleanze. Un metodo che viene tuttora utilizzato per abbattere con una spallata di piazza i governi usciti dalle urne. Per fortuna il clima è cambiato, i camalli si sono imborghesiti, non portano più le magliette a strisce e i ganci micidiali, né ci sono in giro partigiani pronti a riprendere le armi. Ma quel governo di centro-destra avrebbe accelerato la nascita di una destra postfascista e avrebbe insieme creato le premesse per una democrazia dell’alternanza, spingendo anche la sinistra a superare il massimalismo e a disporsi così a governare. Ma il Pci dell’epoca prendeva ancora ordini e soldi da Mosca e considerava l’America e il Capitalismo due mali da cui liberarsi. Così la Dc, con i suoi alleati, restò al governo vita natural durante.
(di Marcello Veneziani)
martedì 29 giugno 2010
Dell'Utri, lo strappo dei giovani del Pdl: i nostri eroi sono Borsellino e Falcone
La cultura di destra non è più una barzelletta
Berto, la guerra in camicia nera
Anche se non è da leggere come un documento storico, come dice lo stesso Berto nella sua introduzione, il romanzo-diario Guerra in camicia nera è interessante perché racconta la guerra del fronte africano vista da chi si trovava dalla parte sbagliata della storia. L’arrivo di Berto a Tripoli, il primo settembre 1942, avviene in coincidenza quasi perfetta con un fatto destinato a cambiare le sorti del conflitto sul fronte africano: la nomina del maresciallo Bernard Montgomery a capo dell’VIII armata inglese. In quel momento la situazione era favorevole alle forze italo-tedesche che, grazie alla controffensiva condotta da Erwin Rommel, avevano respinto gli inglesi in Egitto. L’euforia di Berto dura quindi poco: giusto il tempo di accorgersi che il suo viaggio verso il fronte incrocia sempre più spesso il percorso inverso delle truppe italo-tedesche che annunciano la massiccia ritirata conseguente alla sconfitta di El-Alamein. Gli resta però l’ottimismo della «fede», che in un personaggio come Berto fa un po’ a pugni con lo spirito anarchico; lui è peraltro uno di quei fascisti che ritiene necessaria, dopo la vittoria della guerra, una rivoluzione interna al fascismo, che consisterà nell’«eliminare la stupidità e la corruzione» e nel «concedere una maggiore libertà politica».
La guerra vera, però, tarda per lui ad arrivare: si vive spesso in questo libro nell’aria polverosa della disfatta presagita inconsciamente, nel progressivo ripiegamento verso ovest che cede il passo ai fantasmi dell’VIII armata inglese. Quando si arriva al contatto con gli inglesi viene anche la consapevolezza che si tratti di un esercito «troppo numeroso e armato»; poi, dopo che il VI battaglione di cui l’autore fa parte viene spazzato via dal nemico, si manifesta in lui il desiderio del ritorno in Italia, che Berto prova a giocarsi con la carta dell’ulcera duodenale, a suo tempo nascosta per potersi arruolare nelle Camicie Nere. Raggiunge Tunisi ma gli esami danno esito negativo; torna in linea finché non viene il turno, anche per lui, di arrendersi agli inglesi (sarà poi portato nel «Fascist camp» di Hereford, in Texas, dove resterà fino al gennaio 1946). Guerra in camicia nera è il racconto in tono dolceamaro, tra sentimento e cinismo, di un’idea che si accartoccia su se stessa, di un’esperienza in cui la disciplina tenta di convivere con l’egoismo del volere salva la pelle. È un libro, a suo modo, antiretorico e onesto, le cui pagine brillano spesso d’ironia e autoironia: «Tra i tanti motti da cui siamo stati afflitti non ce n’è forse uno che dice: nudi alla meta? La meta è vicina, e io nudo press’a poco lo sono».
(fonte: www.corriere.it di Matteo Giancotti)sabato 26 giugno 2010
Ustica, un filo tra il Dc9 della strage e i traffici nucleari italiani
giovedì 24 giugno 2010
Salvate il soldato Francesco Cossiga
Cossiga non è solo un ex capo dello Stato, un esternatore folle, o l'inventore del Cazzeggio istituzionale. Giusto vent'anni fa, col suo formidabile piccone, Cossiga mise in cinta la Repubblica italiana, anche se poi non riconobbe la figlia che ne nacque. Voi dite Mani pulite, i referendum di Segni, la Lega, la discesa in campo di Berlusconi. Tutto vero, ma vennero dopo. In principio fu Cossiga. Che per cinque anni se ne stette a cuccia al Quirinale, rispettoso del mandato istituzionale, rigoroso osservante del ruolo e della norma, per far dimenticare le fuoruscite dal protocollo del suo predecessore Sandro Pertini. Poi, vent'anni fa, dopo che era caduto il Muro e prima che il Pci si suicidasse, Cossiga cominciò a dar di matto. Picchiò duro sui pregiudizi fradici su cui si fondava la Repubblica consociativa e partitocratica. E per due anni colpì, disse la verità, suscitò la voglia di cambiare, cavalcò per primo l'antipolitica, portò la fantasia al potere. Fu il nostro De Gaulle, ma solo nella pars destruens. Infatti a De Gaulle si ispirò quando fondò il suo partito, l'Udr, che poi lui stesso sconfessò. Tentarono l'impeachment, come avevano tentato di inguaiarlo ai tempi oscuri del suo ministero degli Interni, dopo il caso Moro. Ma oggi non saremmo qui se non ci fosse stato lui.
Ricordo che in quel tempo io fondai un settimanale che guardava a lui per fondare una nuova repubblica. Gli dedicai molte copertine e appelli. Sperai in lui, ma lui in cambio mi offrì un paio di belle interviste, qualche brillante conversazione e il privilegio di entrare in Senato senza cravatta, vestito da extraparlamentare ed extracomunitario.
Cossiga non è un fondatore ma un affondatore, non fondava seconde repubbliche come Pacciardi; era piuttosto uno Spacciardi, perché dichiarò spacciata la Repubblica che egli stesso incarnava. Un presidente kamikaze che aveva pilotato con sorriso beffardo la prima Repubblica a sfasciarsi sul nemico. La fortuna e la disgrazia di Cossiga fu che andò al Quirinale praticamente da ragazzo, al paragone con gli altri presidenti. E tuttora, 25 anni dopo, è il più giovane capo dello Stato vivente. Siede al Senato nello scranno col numero 007, lui che amava giocare con le spie. Ma si è barricato in casa e ha depositato una bomba a orologeria. Parlo di un bel libro dal brutto titolo, Fotti il Potere, che ha scritto con Andrea Cangini. Non va in giro a presentarlo, come ci si aspetta da ogni autore e ancor più da uno come lui. Si rifiuta, si nasconde, vive la sua solitudine depressa e dichiara di essere già morto.
Al di là di alcuni lati comici e grotteschi, Cossiga è un personaggio tragico. Dai tempi di Moro ai tempi del Piccone, Cossiga ha dovuto sparare il colpo di grazia a chi più amava: la Dc e i suoi capi, la cultura del diritto, la repubblica dei partiti in cui aveva prosperato. Più il Vaticano, i grembiulini, la Gladio, il Mossad, i poteri forti (Cossiga sostiene che ci furono interessi economici alle origini di Mani pulite, citando un'inchiesta dell'Italia settimanale sulla spartizione dell'Italia a bordo dello yatch Britannia). E non si è riconosciuto nelle creature che ha via via messo al mondo, il Nuovo e tutti i suoi Testimoni, il Partito e i suoi straccioni di Valmy, come li battezzò lui.
Senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato né il primo comunista alla guida del governo, dico D'Alema, né la destra postfascista al potere, e forse nemmeno l'antipolitica, dico Di Pietro, Bossi e Berlusconi. Fu precursore perfino di Sgarbi e Dagospia. È lui stesso in questo libro a notare il paradosso di D'Alema portato da lui al governo con l'okay dell'America, con il compito di far entrare l'Italia in guerra con la Serbia: e D'Alema, primo comunista al potere, fu colui che bombardò con la Nato l'ultimo regime comunista d'Europa, provocando, sempre secondo Cossiga, «535 morti tra vecchi, donne e bambini».
È lui lo sdoganatore dell'Msi, che poi ha criticato la svolta nel vuoto di Fini, come criticò la deriva giacobina del rustico Di Pietro, che pure era suo figliastro: la sua vanga era la versione rurale del piccone. E non solo: qui vaticina il fallimento di Berlusconi, a cui pure mostra umana simpatia e sostegno, e di cui riconosce la voglia di lasciare un segno nella storia e non di pensare alle leggi ad personam, come dicono i suoi avversari. E a differenza loro lo critica non per l'autoritarismo ma per la sua debolezza.
Cossiga è tragico quando sostiene che la vita regge sulla menzogna, e la vita politica ancora di più: «La verità è che la menzogna ben più della verità è all'origine della vita, perché se gli uomini si sono evoluti è stato solo grazie alla loro capacità di mentire agli altri e a se stessi», Cossiga si diverte a dire la verità che coincide paradossalmente e tragicamente con la menzogna. La sua visione tragica è ancora accompagnata da un sardonico sorriso (l'aggettivo non è casuale per il sassarese). Ma Cossiga è tragico soprattutto perché in questo libro si sente odor di morte e di sfacelo, al punto da concludere il suo libro: «Io ero già morto ma la gente non se n'era accorta». Non vorrei spargere falsi allarmi e invadere la sua vita privata, ma temo che Cossiga stia accarezzando la tragica idea di rivolgere il piccone contro se stesso.
(di Marcello Veneziani)
mercoledì 23 giugno 2010
Le nostre vite di corsa contro il tempo che se ne va
Ossessionato, dunque, assediato da una forza incoercibile di cui non riesce a liberarsi, l'uomo apparentemente libero si consegna a una forza che ne condiziona la volontà, pur essendo egli assolutamente consapevole dell'insensatezza del suo pensare, fare, decidere. L'ossessione domina il tempo vissuto, determinandolo oltre ogni ragionevolezza. Il titolo di questo incontro aggiunge anche un altro tema - amore del temporaneo - che, se da un lato sembra circoscrivere e mitigare il sentimento ossessivo, offrendogli una parvenza di accettabilità (un'ossessione giustificata da qualcosa per cui ha un senso il patire), dall'altro lo ridefinisce ulteriormente nella sua concettualità. Dunque, se disponiamo in successione i tre termini - ossessione, vita in fuga, amore del temporaneo - ne abbiamo la sintesi: azione.
Siamo destinati all'azione; la nostra vita è un'incessante fuga dalla contemplazione. Il tempo della contemplazione appare insignificante di fronte al tempo dell'azione. René Guénon è stato il filosofo contemporaneo più radicale nel sostenere che la perdita del valore della contemplazione rappresenti uno dei motivi essenziali dell'origine della crisi del mondo moderno. Gli occidentali, sostiene, mettono l'azione al di sopra di tutto. La filosofia che meglio rappresenta il dominio economico occidentale, il pragmatismo americano, nega perfino l'esistenza di alcunché di valido al di fuori dell'azione stessa. Guénon ha buon gioco nella contrapposizione: i suoi studi sulla cultura indiana lo portano a privilegiare la forma ontologica del pensiero filosofico-religioso dell'induismo, in cui riscontra il più alto significato della contemplazione come fondamento stesso della verità. L'accesso al vero, attraverso la contemplazione, individua nell'idea di tradizione lo spazio per comprendere l'autenticità del tempo vissuto. Ci avviciniamo così al fondamento dell'ossessione.
L'occidente è ossessionato dall'azione, è assediato dal bisogno insopprimibile di agire, e nell'azione si appaga dell'amore per il tempo vissuto finché non viene provocato da quella stessa ossessione per l'azione che, nel momento stesso in cui lo appaga, gli mostra anche il consumarsi del tempo: l'ossessione dell'azione diventa ossessione della fine del tempo. Nella sua riflessione, Guénon spiega come l'azione, non essendo che una modificazione momentanea dell'essere, non possa avere in sé il proprio principio e la propria ragione sufficiente: se non si riconnette ad un principio che vada al di là del suo dominio contingente, è pura illusione, mentre il principio da cui essa può trarre la sua verità è la contemplazione. Per questo Aristotele ha affermato la necessità di un motore immobile, origine di tutte le cose, perché l'azione appartiene al mondo del mutamento, del divenire. Una conoscenza pratica, funzionale agli scopi, degrada in un'agitazione tanto vana quanto sterile: la totalità non può essere generata che da un essere stabile, immutabile.
Guénon radicalizza, dunque, la differenza tra contemplazione e azione, e nella subordinazione della contemplazione all'azione coglie l'origine della crisi del mondo moderno. Eppure, oltre le riflessioni di Guénon, rimane la domanda: perché siamo destinati all'azione? E, quindi: davvero è impensabile un riscatto del destino dell'azione? L'agire è soltanto esperienza di un sentimento ossessivo, un assedio dell'intelligenza oltre ogni ragionevolezza, dove l'amore del temporaneo non è che pura illusione, e l'ossessione della fine del tempo è angoscia del nulla? Perché, dunque, siamo destinati all'azione? Proviamo a trovare una risposta. C'è un prologo in cielo che apre il Faust di Goethe. Mefistofele fa notare al Signore che, pur avendo dato all'uomo - unico tra gli esseri viventi - la ragione, questi si comporta peggio delle bestie. Il Signore prova a convincere Mefistofele: gli fa notare che il suo spirito nichilista e distruttivo non ha giustificazione, che la sua visione dissolutrice non corrisponde alla verità, che il suo compiacersi del male gli offusca la mente e non gli consente di capire quanto di buono c'è nell'uomo. Ma Mefistofele non si lascia persuadere.
Allora il Signore gli chiede se conosce Faust. Sì, dice Mefistofele, lo conosco, è un uomo ossessionato dalla conoscenza, mai nulla lo appaga. Sarà anche ragionevole, continua il diavolo, ma non sa usare la ragione per capire e affrontare la vita. Il Signore conviene che il suo Faust è ossessionato da un grande desiderio di conoscere, di sperimentare (...). Ecco allora il patto di Mefistofele con il Signore. Anche se Faust può sembrare così saggio e razionale, io, dice il diavolo, lo porterò sul mio sentiero di corruzione. E non sarà un compito difficile, osserva Mefistofele, proprio perché c'è in Faust quell'ansia inesausta, quella volontà di azione, quell'eterno bisogno di operare che, alla fine, nonostante le buone intenzioni, travolge nel nulla tutto quanto è stato creato.
(di Stefano Zecchi)
Foibe, la traccia che fa discutere la politica
martedì 22 giugno 2010
Balbo, l'anti-Duce che non voleva entrare in guerra
sabato 19 giugno 2010
Feltri, Belpietro e le manette
Ogni tanto quando c'era un delitto particolarmente importante, in genere rapine perché allora la classe dirigente non si era ancora così corrotta come sarebbe stato negli anni Ottanta e dimostrato nei Novanta con le inchieste di Mani Pulite, arrivavano, oltre ai fotografi, anche le Televisioni.
Da neofita me ne stupivo. Non tanto delle manette, che soprattutto nei trasferimenti di più detenuti sono necessarie, ma dell'esposizione pubblica di queste persone, senza alcun rispetto, senza ritegno, senza protezione (anche quando non ci sono le tv non deve essere piacevole farsi vedere in manette dalle centinaia di persone che transitano ad ogni ora in un grande Palazzo di Giustizia qual è quello di Milano) ma allora nessuno sembrava curarsene, tantomeno i politici e gli opinionisti. In fondo la cosa non riguardava che degli stracci. Il 4 marzo del 1993, in piena Mani Pulite, ci fu l'episodio di Enzo Carra, l'ex portavoce di Forlani, fotografato in manette. I più feroci furono Bibì e Bibò, alias Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttore e vicedirettore dell'Indipendente, che spararono la foto in testa alla prima pagina, ingrandendola il più possibile e indicando Carra al ludibrio della folla inferocita di quei giorni. Il più pietoso fu il "giustizialista" Antonio Di Pietro, ai tempi pubblico ministero, che ordinò agli agenti penitenziari di togliere immediatamente le manette a Carra.
Del resto allora Bibì e Bibò erano dei forcaioli assatanati, sarebbero diventati dei "garantisti" a 24 carati quando passarono nella scuderia di Silvio Berlusconi. Se la prendevano anche coi figli degli imputati. Per esempio quelli di Craxi. Toccò a me scrivere sull'Indipendente una lettera aperta a Vittorio (“Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, 11/5/1993) ricordandogli che i figli non hanno i meriti ma neanche le colpe dei padri. Così come toccò a me, nel momento della caduta, mentre una legione di improvvisati fiocinatori si accaniva sulla balena ferita a morte, scrivere, sempre sull'Indipendente, un articolo intitolato “Vi racconto il lato buono di Bettino” (17/12/92), in cui, benché tempo prima Craxi mi avesse definito, nientemeno che dagli Stati Uniti dov'era in visita, “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili”, ricordavo che oltre all'uomo sfigurato , sconciato che vedevamo, con orrore, in quei giorni drammatici, ce n'era stato anche un altro che aveva suscitato speranze in molti. Passata la stagione euforica di Mani Pulite, l'immagine di Enzo Carra in manette è passata alla storia come l'emblema della "gogna mediatica" che non avrebbe dovuto ripetersi mai più (come dopo il "caso Valpreda" si giurò che mai più nessuno sarebbe stato chiamato "mostro"). Il Garante della privacy emanò alcune regole di comportamento per i media e parve affermarsi una maggior sensibilità per il rispetto della dignità dei detenuti. Ma solo per alcuni.
Lo dice il recente episodio che ha visto protagonista Fabio De Santis, l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane, uomo di fiducia di Angelo Balducci, insomma uno della "cricca". Con un cellulare De Santis è stato portato in manette, come gli altri quattro detenuti che erano con lui (due spacciatori di droga, un ladro, un rapinatore) dal carcere fiorentino di Sollicciano al Tribunale del Riesame. Quando è sceso dal cellulare De Santis ha dovuto percorrere una ventina di metri sotto l'occhio delle telecamere. Solo due telegiornali però hanno mandato in onda quella scena. La giustificazione più farsesca e farisaica è stata quella di Mauro Orfeo, direttore del Tg2: “Volevamo denunciare una gogna che ricorda certe immagini di Mani Pulite”. Denunciava la gogna mentre lo stava mettendo alla gogna.
Il Garante della privacy è intervenuto, molti politici e opinionisti si sono indignati. Molto giusto. Ma nessun Garante della privacy ha battuto ciglio e nessun politico si è indignato, nessun opinionista ha alzato il dito quando tutti i telegiornali, solo per fare, fra i tanti possibili , l'esempio ricordato ieri da Travaglio, mostrarono, con evidente compiacimento, le immagini di tre rumeni in manette accusati di stupro (e poi assolti). Molti politici, in particolare donne, dichiararono: “Per questi soggetti ci deve essere la galera subito e poi, processo o non processo, buttare via la chiave”.
Che cosa significa tutto ciò? Che si sta sempre più affermando in Italia un doppio diritto, di tipo feudale e peggio che feudale. Quello per i "colletti bianchi", per i vip, per "lorsignori", che oltre ad essersi inzeppati il Codice di procedura penale di leggi talmente "garantiste" da rendere quasi impossibile l'accertamento dei reati loro propri (fra poco non potranno nemmeno essere intercettati se non con mille limitazioni - parlo dei limiti posti alle indagini della polizia giudiziaria e della magistratura , non di quelli, a mio parere sacrosanti, alla loro divulgazione), van sempre trattati con i guanti. Per tutti gli altri, per coloro che commettono reati da strada, che sono quelli dei poveracci, non vale nemmeno la presunzione di innocenza. C'è la "tolleranza zero". Ma questa è la vecchia, cara e infame giustizia di classe.
(di Massimo Fini)