«Non sottovalutate mai il potere del popolo», ha spiegato Christine O'Donnell, candidata sostenuta dal Tea Party, dopo aver vinto le primarie repubblicane in Delaware. «Noi non siamo un partito, siamo un popolo», ha detto Silvio Berlusconi ai suoi sostenitori. «Noi siamo gente del popolo», ha precisato Mario Borghezio, europarlamentare della Lega nord in un talk-show su La7. E ci sarà molto "popolo viola" oggi a Cesena alla Woodstock di Beppe Grillo con lo slogan (e soprattutto il libro in libreria) «Prendiamoci il futuro», mentre il popolo della rete non si capisce chi sia, ma c'è sempre. Ma se il futuro è populista, il passato e il presente che colpe hanno?
Le fratture sociali, con la mancata efficace transizione dalle economie industriali e nazionali a quelle globali, e la paura dello straniero, sotto forma di immigrazione da governare, fanno sì che s'aggiri per l'Europa lo spettro del populismo, che poi torna buono quando ci sono le elezioni anche ai partiti dei più buoni.
«Almeno in Europa», spiega Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e autore nel 2003 di un libro dal titolo L'Italia populista. Dal Qualunquismo ai girotondi, «è sotto gli occhi di tutti che il futuro è populista. In America è diverso, lì è trasversale. Anche Obama è stato accusato di populismo».
Ma da che cosa nasce questo flusso continuo di malumori che si trasformano in odio e in x sulla scheda elettorale, «se non dalla questione immigrazione, come primo elemento, e dalla corruzione della politica, perduto il motore dell'ideologia, come secondo elemento»? Ovviamente la novità – Tarchi lo aveva già scritto nel libro del 2003 – è che venature di questo tipo si colgono forti anche a sinistra, per esempio nella Die Linke tedesca. Ricorda Tarchi che già vent'anni fa gli studiosi iniziavano a prevedere che sarebbero potuti nascere «movimenti populisti capaci di raccogliere fino al 15 per cento dei consensi, oggi siamo lì». Perché sono molte le grandi e antiche linee di frattura – centro/periferia, Stato/Chiesa, datori di lavoro/lavoratori – ma a queste oggi si è aggiunta «la difficile gestione di una società multietnica e multiculturale». Le linee di frattura creano le posizioni radicali e un fronte molto vivo di conflittualità. «Fino ad alcuni anni fa si pensava che certi paesi potessero essere immuni da questi fenomeni: l'Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia. Esempi travolti».
E la causa di questo muro infranto? «Un cortocircuito di mentalità populista e imprenditori politici che la sfruttano. Così il carburante oggi è sparso un po' ovunque. Perché un po' ovunque destra e sinistra stanno vivendo un processo di acquisizione di una mentalità politica professionale che crea un forte distacco del pubblico elettorale», dunque altri, non i partiti tradizionali, cercano di interpretare i «brontolii» e di sollecitarli. La tentazione populista, inoltre, affascina sempre più strati dell'opinione pubblica «perché il ceto medio è il grande perdente di questa fase storica», però c'è un elemento positivo nel fatto che esistono ancora «partiti che hanno la capacità di trattenere nel sistema questi movimenti, senza farli diventare antisistema. Il populismo gestito è un fenomeno sistemico. È improbabile che questi partiti raggiungano da soli la maggioranza, ma è sempre più probabile che abbattano il muro dell'illegittimità». Può esistere un populismo senza capopopolo? Per Tarchi, è molto difficile: «Il popolo ha bisogno di un suo ventriloquo per parlare con una sola voce».
L'Italia è all'avanguardia su questo fronte, dice Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina presso l'Università di Bari. «Se dovessi, sotto tortura, dare una definizione di populismo, direi che è l'unione di un capo carismatico e di un movimento in cui l'elemento irrazionale prevale. Queste due cose stanno assieme di solito perché un capo indica un nemico. Per esempio, il nazionalsocialismo riversò contro gli ebrei tutte le frustrazioni proletarie e, come dice August Bebel, l'antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Però Canfora non pensa che il populismo sia un fenomeno nuovo, «se non forse per gli esempi di caudillismo dell'America latina», insomma «non è un incubo futuro», c'è sempre stato. Semmai «nel periodo ideologico, termine che io uso in senso buono, ci sono state delle parentesi positive, come dal 1945 al 1950, al momento della nascita delle Costituzioni europee. Ma già nel '56 Pierre Poujade eleggeva 50 deputati in Francia e non è che Jean-Marie Le Pen sia molto diverso». L'origine di questi fenomeni, anche per Canfora, è sociale, «è quello che aveva capito Adolf Hitler», il problema è che o si fanno riforme vere «oppure è più facile additare un nemico. Freud direbbe che c'è un Es scatenato contro un nemico che non è tale, come nel caso degli extracomunitari». Sarà anche che le nuove tecnologie, l'informazione accelerata, aiutano la diffusione del virus? «Ma vale anche il contrario, le stesse tecnologie dovrebbero servire pure a controllare queste pulsioni. Le tecniche sono tutte neutrali. I problemi vengono dalle fratture sociali».
Altre «ragioni strutturali inducono a prevedere una stagione di populismo», spiega Agostino Giovagnoli, professore di Storia contemporanea all'Università Cattolica di Milano. Perché siamo passati da società «in cui contavano le opinioni pubbliche, come contrappeso agli esiti elettorali, a società in cui il ruolo delle opinioni pubbliche si è affievolito». Perché i circuiti rapidi e diretti della comunicazione impongono nuove forme alla politica. «La svalutazione della carta stampata, internet e la tv hanno rivoluzionato le cose, ma al fondo del fenomeno c'è sempre una ragione sociale: la centralità del cittadino consumatore è diventata l'essenza stessa della politica». Se per Giovagnoli è difficile che questi fenomeni si trasformino in nuove, vere forme di rappresentanza, è più facile che influenzino tutto il campo della politica, perché «è in crisi il sistema stesso della rappresentanza, la democrazia delegata». A voler vedere un elemento di ottimismo, ci potrebbe perfino essere, e in parte c'è già, anche «essere uno sbocco positivo: venivamo da una democrazia elitaria, dunque erano prevedibili» forme di apertura a metodi di partecipazione più ampia e diretta, «il problema è che i partiti che sono in difficoltà usano il populismo per rafforzarsi, come dimostra perfettamente il caso di Nicolas Sarkozy in Francia sulla questione dei Rom». L'elemento più preoccupante, invece, «è la morte della cultura politica, nel senso che il dibattito non è più sulle cose, sulle riforme». Ma, «giochi di parole a parte», che differenza c'è tra il popolarismo, tradizione italiana, e il populismo? «Il popolarismo evoca qualcosa di antico, una politica che sapeva cogliere e trattenere interessi collettivi. Oggi questi interessi sono molto difficili da interpretare. Il moderno populismo, invece, nasce dalla rivoluzione dei consumi, un'evoluzione storica che inizia negli anni 80».
(fonte: http://www.ilsole24ore.com/)
Nessun commento:
Posta un commento