L’opposizione in Italia si è barricata dietro la Costituzione e Berlusconi si è riparato dietro gli italiani. Questo, in sintesi, il bilancio della contesa politica.
Credo che sia giusto affrontare il nodo costituzionale, in modo libero, critico e spregiudicato, partendo da una serie di domande. Si può amare la Costituzione sopra ogni altra cosa, Italia inclusa? Si può pensare davvero che un Paese possa restare unito dal patriottismo costituzionale? Si ritiene sul serio che la Costituzione sia la sola, vera garanzia di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani? E si può davvero pensare che la Costituzione sia un dogma fuori dalla storia e dal suo tempo, eterna e immutabile? Lasciate che io dubiti di ciascuna delle quattro affermazioni.
Per cominciare, ogni paese civile e ogni buon cittadino non deve amare ma più semplicemente e più concretamente rispettare la Costituzione del suo Paese, perché in quel perimetro di regole e principi ci sono le norme basilari su cui è fondata la cittadinanza. Ma le regole vanno rispettate, non amate; amarle sarebbe troppo o troppo poco, e rischia di risolversi in retorica o ideologia.
Non è poi vera l’affermazione, più volte ripetuta, che i regimi dispotici non hanno o non riconoscono le costituzioni, facendo gli esempi dell’Italia fascista che calpestò lo Statuto Albertino o la Germania di Hitler che stracciò la Costituzione di Weimar, e così la Spagna di Franco e altri regimi autoritari. L’Unione Sovietica aveva una Costituzione federale, repubblicana e democratica eppure fu un regime totalitario, accentratore, antidemocratico e negatore dei diritti umani. Così altri paesi comunisti e totalitari provvisti di costituzione. Persino il regime di Chavez, metà castrista e metà populista, non ha rigettato la Costituzione venezuelana scritta a immagine e somiglianza della Costituzione italiana. Non basta una carta per garantire la libertà, la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Pensate alla prima dichiarazione dei diritti umani con la Rivoluzione francese, e poi pensate al Terrore, alla ghigliottina e alla persecuzione dei dissidenti che ne seguirono, nel nome di quegli stessi principi. Le carte costituzionali sono una condizione necessaria ma non sufficiente per la libertà, la democrazia e i diritti umani.
L’Italia ha una buona carta costituzionale, equilibrata, scritta bene e in modo chiaro. Non nacque dal nulla, ma dalla storia. Le sue radici normative interne furono lo Statuto Albertino e la Costituzione della Repubblica romana del 1849. Le sue radici internazionali furono la Costituzione di Weimar, le costituzioni francesi, ma anche delle altre grandi democrazie. E tuttavia si avverte il peso specifico della vita, della cultura e delle ideologie italiane.
La Costituzione fu il frutto di un compromesso di alto profilo fra tre culture visibili ed egemoni, più una invisibile e indicibile. La cultura laico-liberale, di Einaudi e Croce ma anche di Calamandrei, per intenderci; la cultura cattolico-democristiana, di De Gasperi, Dossetti e Sturzo; la cultura socialista di Togliatti e Nenni. Ma c’era anche un convitato di pietra, che potremmo chiamare la cultura nazionale del ’900: la Costituzione e l’ordinamento statale della Repubblica italiana ereditano dallo Stato fascista il Concordato tra Stato e Chiesa, il Codice civile e penale di Rocco, le leggi sulla tutela ambientale di Bottai, la riforma scolastica di Gentile e Bottai, la Carta del Lavoro del ’26, il sistema previdenziale, il modello economico misto tra pubblico e privato, l’umanesimo del lavoro di Gentile. Aggiungo una considerazione curiosa e irriverente: la Repubblica vinse il referendum perché i fascisti repubblicani non votarono per la monarchia, o perché internati e privati dei diritti politici o perché avversari dei Savoia dopo il 25 luglio. La loro astensione, voluta o forzata, fu determinante per la vittoria della Repubblica... I paradossi beffardi della storia.
Triste è invece il capitolo della Costituzione disattesa, restata sulla carta, sopraffatta dalla Costituzione materiale. Si pensi al mancato riconoscimento giuridico di sindacati e partiti, alla partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende, e a tante altre sue parti. Per non dire dei tradimenti subiti lungo la strada, l’ultimo dei quali è la violazione del diritto costituzionale dei cittadini di scegliersi i propri rappresentanti, voluta da una legge sostenuta sottobanco da quasi tutti i partiti perché consegna il Parlamento nelle mani degli oligarchi di partito. Uno scippo di sovranità su cui nessuna magistratura - anche la stessa massima magistratura, la presidenza della Repubblica, garante e custode della Costituzione - ha mai recepito nulla, ricorrendo alla Corte costituzionale. È lecito passare dal sistema proporzionale al sistema uninominale e maggioritario, ma è incostituzionale negare ai cittadini il diritto di designare i propri delegati. Ma nessuno solleva il problema, salvo poi scendere in piazza in difesa della Costituzione intoccabile.
Su queste premesse, un arco «costituzionale» assai vasto che va da Scalfaro a Ciampi, dalla sinistra a Fini, vagheggia il patriottismo della Costituzione come cemento del Paese. Ma nessun patriottismo può nascere da un perimetro di regole. I patriottismi non nascono dalle carte e da atti di fondazione così recenti. E tantomeno in un Paese cattolico e mediterraneo come il nostro, dove non vige l’osservanza suprema della Legge e del Testo scritto, come nei Paesi di formazione calvinista e protestante. Più vivo e più vero resta, come ripeto da tempo, il patriottismo della tradizione, ovvero la comune appartenenza che deriva da una storia comune, dalla vita di un popolo, le sue eredità, i suoi caratteri, la sua cultura e la sua natura. È questo il senso della nostra tradizione di pensiero, di Vico e Machiavelli, dove il vero e il certo, l’ideale e il reale, La Repubblica di Platone e la feccia di Romolo, si incontrano sul piano della storia e della vita dei popoli. E questo ancor di più vale per un Paese come l’Italia che non sorge come nazione politica ma come nazione culturale. E dunque il peso della sua storia e della sua letteratura, della sua lingua e della sua civiltà è preminente rispetto agli ordinamenti statali e alle carte costituzionali.
Del resto, di amor patrio non si accenna minimamente nella nostra Costituzione e se ne può cogliere la ragione storica contingente: venivamo da una guerra perduta e dall’ubriacatura fascista e nazionalista, eravamo un Paese a sovranità limitata, e questo impose la sordina all’amor patrio. Infatti di patria si parla solo all’art. 52 a proposito della difesa dei confini; un tema per certi versi oggi più urgente che nel passato e per altri superato dopo Schengen e nella società globale. Ma l’idea difensiva della patria non può esaurire l’amor patrio che non si esercita solo in caso di necessità estrema, ma anche in positivo come un legame d’affetto, di identità e di storia con la propria matrice.
Insomma la Costituzione è troppo recente per fondare l’amor patrio e troppo vecchia per essere immutabile col nuovo millennio e dopo più di 60 anni.
La Costituzione non è immodificabile nel nome di una visione teologica della Carta, che Ciampi definì la nostra Bibbia laica; ma ogni Carta è figlia del suo tempo e nella nostra carta c’è tutto il sapore del Novecento, delle sue ideologie, dei suoi conflitti, del suo linguaggio. Oggi per esempio difficilmente si esordirebbe dicendo che la nostra è una Repubblica «fondata sul lavoro». Asserzione nobile e significativa ma non universalmente rappresentativa, se si considera che il prolungamento dell’età media e dell’età giovanile ha reso il nostro Paese abitato in maggioranza da cittadini che non lavorano più o non lavorano ancora. Meglio sarebbe in linea di principio stabilire che la nostra è una repubblica fondata sul rispetto della persona e della comunità, mediante i diritti e i doveri di ciascuno e di tutti, e dunque la libertà, il lavoro e la dignità dei suoi cittadini. E sarebbe opportuno esplicitare nella Costituzione l’amor patrio e fondare la nostra democrazia sul principio di responsabilità personale e comunitaria e sulla finalità del bene comune. Sul piano degli ordinamenti, alcune modifiche ci sono già state, come la modifica del titolo quinto della Costituzione riguardo l’assetto federale. Non sarebbe affatto inconcepibile se la nostra democrazia si riconfigurasse da Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale, come la Francia o gli Stati Uniti. Ipotesi che i padri costituenti non presero in considerazione perché uscivamo dall’esperienza di una dittatura; ma che oggi sarebbe pienamente legittima. Peraltro c’è una lunga e rispettabile storia di proposte in questo senso: da Pacciardi a Craxi passando per Almirante, il gruppo democristiano di Europa ’70 e sul piano scientifico, il gruppo di Milano guidato da Miglio.
Certo, le modifiche della Costituzione vanno fatte con maggioranze qualificate e non semplici, risicate e occasionali, perché devono esprimere una volontà larga, profonda e duratura. Ma altre modifiche potranno darsi se si considera che siamo oggi nell’Unione europea, viviamo in una società globale, ci sono i flussi migratori, nuovi scenari e nuovi reati legati alle nuove tecnologie, alla bioetica e alle violazioni della privacy. Senza considerare gli sconfinamenti dei poteri istituzionali. Insomma bisogna avere una visione laica e non teologica della Costituzione, considerarla figlia e non madre della storia, dettata dal proprio tempo e dalle forze prevalenti dell’epoca e non dettata da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Una Costituzione da rispettare, non da imbalsamare; e modificarla nelle sue parti più deperibili è un modo per rispettarla sul serio.
(di Marcello Veneziani)
Credo che sia giusto affrontare il nodo costituzionale, in modo libero, critico e spregiudicato, partendo da una serie di domande. Si può amare la Costituzione sopra ogni altra cosa, Italia inclusa? Si può pensare davvero che un Paese possa restare unito dal patriottismo costituzionale? Si ritiene sul serio che la Costituzione sia la sola, vera garanzia di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani? E si può davvero pensare che la Costituzione sia un dogma fuori dalla storia e dal suo tempo, eterna e immutabile? Lasciate che io dubiti di ciascuna delle quattro affermazioni.
Per cominciare, ogni paese civile e ogni buon cittadino non deve amare ma più semplicemente e più concretamente rispettare la Costituzione del suo Paese, perché in quel perimetro di regole e principi ci sono le norme basilari su cui è fondata la cittadinanza. Ma le regole vanno rispettate, non amate; amarle sarebbe troppo o troppo poco, e rischia di risolversi in retorica o ideologia.
Non è poi vera l’affermazione, più volte ripetuta, che i regimi dispotici non hanno o non riconoscono le costituzioni, facendo gli esempi dell’Italia fascista che calpestò lo Statuto Albertino o la Germania di Hitler che stracciò la Costituzione di Weimar, e così la Spagna di Franco e altri regimi autoritari. L’Unione Sovietica aveva una Costituzione federale, repubblicana e democratica eppure fu un regime totalitario, accentratore, antidemocratico e negatore dei diritti umani. Così altri paesi comunisti e totalitari provvisti di costituzione. Persino il regime di Chavez, metà castrista e metà populista, non ha rigettato la Costituzione venezuelana scritta a immagine e somiglianza della Costituzione italiana. Non basta una carta per garantire la libertà, la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Pensate alla prima dichiarazione dei diritti umani con la Rivoluzione francese, e poi pensate al Terrore, alla ghigliottina e alla persecuzione dei dissidenti che ne seguirono, nel nome di quegli stessi principi. Le carte costituzionali sono una condizione necessaria ma non sufficiente per la libertà, la democrazia e i diritti umani.
L’Italia ha una buona carta costituzionale, equilibrata, scritta bene e in modo chiaro. Non nacque dal nulla, ma dalla storia. Le sue radici normative interne furono lo Statuto Albertino e la Costituzione della Repubblica romana del 1849. Le sue radici internazionali furono la Costituzione di Weimar, le costituzioni francesi, ma anche delle altre grandi democrazie. E tuttavia si avverte il peso specifico della vita, della cultura e delle ideologie italiane.
La Costituzione fu il frutto di un compromesso di alto profilo fra tre culture visibili ed egemoni, più una invisibile e indicibile. La cultura laico-liberale, di Einaudi e Croce ma anche di Calamandrei, per intenderci; la cultura cattolico-democristiana, di De Gasperi, Dossetti e Sturzo; la cultura socialista di Togliatti e Nenni. Ma c’era anche un convitato di pietra, che potremmo chiamare la cultura nazionale del ’900: la Costituzione e l’ordinamento statale della Repubblica italiana ereditano dallo Stato fascista il Concordato tra Stato e Chiesa, il Codice civile e penale di Rocco, le leggi sulla tutela ambientale di Bottai, la riforma scolastica di Gentile e Bottai, la Carta del Lavoro del ’26, il sistema previdenziale, il modello economico misto tra pubblico e privato, l’umanesimo del lavoro di Gentile. Aggiungo una considerazione curiosa e irriverente: la Repubblica vinse il referendum perché i fascisti repubblicani non votarono per la monarchia, o perché internati e privati dei diritti politici o perché avversari dei Savoia dopo il 25 luglio. La loro astensione, voluta o forzata, fu determinante per la vittoria della Repubblica... I paradossi beffardi della storia.
Triste è invece il capitolo della Costituzione disattesa, restata sulla carta, sopraffatta dalla Costituzione materiale. Si pensi al mancato riconoscimento giuridico di sindacati e partiti, alla partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende, e a tante altre sue parti. Per non dire dei tradimenti subiti lungo la strada, l’ultimo dei quali è la violazione del diritto costituzionale dei cittadini di scegliersi i propri rappresentanti, voluta da una legge sostenuta sottobanco da quasi tutti i partiti perché consegna il Parlamento nelle mani degli oligarchi di partito. Uno scippo di sovranità su cui nessuna magistratura - anche la stessa massima magistratura, la presidenza della Repubblica, garante e custode della Costituzione - ha mai recepito nulla, ricorrendo alla Corte costituzionale. È lecito passare dal sistema proporzionale al sistema uninominale e maggioritario, ma è incostituzionale negare ai cittadini il diritto di designare i propri delegati. Ma nessuno solleva il problema, salvo poi scendere in piazza in difesa della Costituzione intoccabile.
Su queste premesse, un arco «costituzionale» assai vasto che va da Scalfaro a Ciampi, dalla sinistra a Fini, vagheggia il patriottismo della Costituzione come cemento del Paese. Ma nessun patriottismo può nascere da un perimetro di regole. I patriottismi non nascono dalle carte e da atti di fondazione così recenti. E tantomeno in un Paese cattolico e mediterraneo come il nostro, dove non vige l’osservanza suprema della Legge e del Testo scritto, come nei Paesi di formazione calvinista e protestante. Più vivo e più vero resta, come ripeto da tempo, il patriottismo della tradizione, ovvero la comune appartenenza che deriva da una storia comune, dalla vita di un popolo, le sue eredità, i suoi caratteri, la sua cultura e la sua natura. È questo il senso della nostra tradizione di pensiero, di Vico e Machiavelli, dove il vero e il certo, l’ideale e il reale, La Repubblica di Platone e la feccia di Romolo, si incontrano sul piano della storia e della vita dei popoli. E questo ancor di più vale per un Paese come l’Italia che non sorge come nazione politica ma come nazione culturale. E dunque il peso della sua storia e della sua letteratura, della sua lingua e della sua civiltà è preminente rispetto agli ordinamenti statali e alle carte costituzionali.
Del resto, di amor patrio non si accenna minimamente nella nostra Costituzione e se ne può cogliere la ragione storica contingente: venivamo da una guerra perduta e dall’ubriacatura fascista e nazionalista, eravamo un Paese a sovranità limitata, e questo impose la sordina all’amor patrio. Infatti di patria si parla solo all’art. 52 a proposito della difesa dei confini; un tema per certi versi oggi più urgente che nel passato e per altri superato dopo Schengen e nella società globale. Ma l’idea difensiva della patria non può esaurire l’amor patrio che non si esercita solo in caso di necessità estrema, ma anche in positivo come un legame d’affetto, di identità e di storia con la propria matrice.
Insomma la Costituzione è troppo recente per fondare l’amor patrio e troppo vecchia per essere immutabile col nuovo millennio e dopo più di 60 anni.
La Costituzione non è immodificabile nel nome di una visione teologica della Carta, che Ciampi definì la nostra Bibbia laica; ma ogni Carta è figlia del suo tempo e nella nostra carta c’è tutto il sapore del Novecento, delle sue ideologie, dei suoi conflitti, del suo linguaggio. Oggi per esempio difficilmente si esordirebbe dicendo che la nostra è una Repubblica «fondata sul lavoro». Asserzione nobile e significativa ma non universalmente rappresentativa, se si considera che il prolungamento dell’età media e dell’età giovanile ha reso il nostro Paese abitato in maggioranza da cittadini che non lavorano più o non lavorano ancora. Meglio sarebbe in linea di principio stabilire che la nostra è una repubblica fondata sul rispetto della persona e della comunità, mediante i diritti e i doveri di ciascuno e di tutti, e dunque la libertà, il lavoro e la dignità dei suoi cittadini. E sarebbe opportuno esplicitare nella Costituzione l’amor patrio e fondare la nostra democrazia sul principio di responsabilità personale e comunitaria e sulla finalità del bene comune. Sul piano degli ordinamenti, alcune modifiche ci sono già state, come la modifica del titolo quinto della Costituzione riguardo l’assetto federale. Non sarebbe affatto inconcepibile se la nostra democrazia si riconfigurasse da Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale, come la Francia o gli Stati Uniti. Ipotesi che i padri costituenti non presero in considerazione perché uscivamo dall’esperienza di una dittatura; ma che oggi sarebbe pienamente legittima. Peraltro c’è una lunga e rispettabile storia di proposte in questo senso: da Pacciardi a Craxi passando per Almirante, il gruppo democristiano di Europa ’70 e sul piano scientifico, il gruppo di Milano guidato da Miglio.
Certo, le modifiche della Costituzione vanno fatte con maggioranze qualificate e non semplici, risicate e occasionali, perché devono esprimere una volontà larga, profonda e duratura. Ma altre modifiche potranno darsi se si considera che siamo oggi nell’Unione europea, viviamo in una società globale, ci sono i flussi migratori, nuovi scenari e nuovi reati legati alle nuove tecnologie, alla bioetica e alle violazioni della privacy. Senza considerare gli sconfinamenti dei poteri istituzionali. Insomma bisogna avere una visione laica e non teologica della Costituzione, considerarla figlia e non madre della storia, dettata dal proprio tempo e dalle forze prevalenti dell’epoca e non dettata da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Una Costituzione da rispettare, non da imbalsamare; e modificarla nelle sue parti più deperibili è un modo per rispettarla sul serio.
(di Marcello Veneziani)
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