sabato 10 aprile 2010

La pedofilia è solo un pretesto


La pedofilia di qualche prete, peraltro già isolato dalla Chiesa, è solo un pretesto. Dietro l'ultimo attacco del New York Times a Benedetto XVI c'è ben altro. C'è una lotta di potere: la finanza massonica contro l'Opus dei e la sua penetrazione crescente anche negli Stati Uniti.

Stiamo ai fatti. Le pedofilia nella Chiesa cattolica americana c'è stata, ma è un fatto del tutto marginale. Un recente rapporto governativo Usa (2008) sugli abusi nei confronti dei minori sostiene che «per oltre il 64 per cento sono commessi da genitori, parenti o conviventi, dunque all'interno delle relazioni familiari; nelle scuole degli Stati Uniti quasi il 10 per cento dei ragazzi subisce molestie», mentre gli episodi che coinvolgono preti cattolici si stima che «siano meno dello 0,03 per cento» sul totale degli abusi sui minori.

Accusare Benedetto XVI, come fa il New York Times, di avere omesso scientemente di intervenire sul caso di un singolo prete, accusa poi rivelatasi frutto di una pessima traduzione in inglese di un documento che testimonia l'esatto contrario, induce a pensare che l'obiettivo vero di un giornale così autorevole sia un altro, qualcosa di più concreto e di più importante. Qualcosa che dà fastidio a un certo establishment Usa.

Per esempio, la penetrazione dell'Opus Dei nell'economia e nella finanza americana, da sempre dominio esclusivo di tycoon legati alle logge massoniche e alla finanza ebraica. Non è una tesi a caso, questa. Lo sbarco dell'Opus Dei negli States è infatti l'iniziativa più concreta che la Chiesa di Papa Ratzinger sta patrocinando da anni, in questo raccogliendo il testimone del papato di Karol Wojtyla.

Il Papa polacco è stato un papa guerriero non solo sul piano della fede, ma anche nel campo politico e in quello economico. Nel suo Paese aveva toccato con mano quali e quanti danni aveva provocato per decenni lo sterminio dei 23 mila ufficiali polacchi ad opera di Stalin nella foresta di Katyn. Quegli ufficiali erano professori universitari, manager e laureati, che al momento della leva militare diventavano, per legge, ufficiali. Con il loro sterminio, la Polonia non ha avuto una propria classe dirigenti fino all'avvento di Solidarnosc, un sindacato di cui proprio il Papa polacco è stato un ispiratore prima e un protettore poi.

Dopo essere arrivato sul trono di San Pietro, memore di quella lezione, Wojtyla ha preso atto della debolezza della classe dirigente cattolica nel mondo, e di una dilagante teologia della liberazione dentro la Chiesa, con sconfinamenti nel marxismo in tonaca sempre più evidenti soprattutto nell'America latina.

I suggerimenti per porre rimedio a quella situazione gli vennero dalla frequentazione, negli anni Settanta, di alcuni incontri riservati organizzati a Roma dall'Opus Dei, l'organizzazione fondata dallo spagnolo Josemaria Escrivà de Balaguer, poi beatificato dallo stesso pontefice nel 2002.

La forte capacità di reclutamento di nuovi adepti da parte dell'Opus tra i manager più affermati e influenti, sia in Italia che in tutti i Paesi europei e delle due Americhe, colpì Papa Wojtyla, fino al punto che decise di entrare lui stesso nel movimento e di sostenerlo all'interno della Chiesa.

La prima offensiva fu contro i preti latino-americani che avevano fatto della teologia della liberazione la loro missione, incitando i poveri a ribellarsi anche con le armi.

Al suo fianco, il Papa polacco ebbe come valido aiuto il cardinale Ratzinger, capo della congregazione per la Dottrina della Fede, che istruì un vero e proprio processo di tipo eretico al manifesto della teologia della liberazione lanciato dal teologo peruviano Gustavo Gutierrez. Le teorie di quest'ultimo, al pari di quelle predicate da Ernesto Cardenal (che è stato un prete-ministro del governo sandinista in Nicaragua) e dal brasiliano Leonardo Boff, furono bandite dalla Chiesa cattolica, che poi ne recuperò i contenuti di solidarietà con i poveri, ma senza il mitra in mano.

Risultato: oggi la Chiesa dell'America latina è controllata dai prelati legati all'Opus Dei, che sono stati i primi a votare per Ratzinger papa, dopo la morte di Wojtyla. E al loro fianco sono numerosi i manager legati all'Opus Dei, presenti in tutti i settori dell'economia in molte posizioni di comando.

Lo sbarco a Manhattan dell'Opus Dei è successivo. Ma è stato pianificato in ogni dettaglio e sta avendo un fortissimo impatto. La sede dell'Opus, che all'inizio doveva essere un palazzotto di tre piani, è un piccolo grattacielo di 17 piani nell'Upper East di New York, tra la Trentaquattresima e la Lexington, a due passi da Central Park, un posto per ricchi. La sede, la cui costruzione è finita nel 2001, ha un soprannome, «Torre del potere», che dice tutto.

E la donazione che l'Opus ha ricevuto per la sua realizzazione è tra le più ricche della storia: 60 milioni di dollari in azioni di un'azienda farmaceutica, rivendute con un'enorme plusvalenza.

In pochi anni, l'Opus Dei ha conquistato uomini potenti e molto in vista, non solo nella finanza Usa, ma anche nel mondo politico e in quello della giustizia.

Una crescita che ha prodotto, come era prevedibile, dei potenti anticorpi, soprattutto nel mondo finanziario e dei media, come confermano gli ultimi attacchi del New York Times. Una guerra che merita un approfondimento. Ci torneremo sopra.

(di Fabio Talenti)

Libertà in Italia: fare i comodi propri

L’Italia non è romana: l’Italia è romana quanto la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Romania; cioè a dire un Paese che ha derivato la sua forza da un’altra espressione, che è l’individuo, e questa nozione dell’individualismo italiano viene da uno dei grandi svizzeri, il Burckhardt, che ha scritto mi pare nel 1850 un grande libro sulla Rinascenza, in cui l’elemento fondamentale è l’individualismo degli italiani.

L’individualismo ha fatto sì che l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione.

E si è costituita in nazione per influsso straniero.
Era un grande uomo questo Burckhardt: questo libro ancora oggi dice qualche cosa. Dopo oltre cento anni è un libro che dice qualche cosa: questo libro dice che gli italiani sono di natura indipendente, ognuno vuole fare per conto proprio, ognuno vuole essere separato dall’altro, ognuno vuole essere «capo», soprattutto (ilarità). Basta un piccolo gruppo ed egli (l’italiano, ndr) vuole essere il padrone, per dominare gli altri.

Non è vero che gli stranieri hanno portato la dominazione straniera in Italia: essa fu dovuta a Ludovico il Moro che chiamò i francesi: prima essa non esisteva.
Esisteva che cosa? Una separazione di comuni.
Quali sono le grandi creazioni politiche dell’Italia? La prima è il comune. Il comune è una cosa straordinaria: dal buio del Medioevo, dal buio della fine dell’impero romano, dalla confusione, dal disordine sorgono qua e là in Italia dei piccoli centri che si chiamano città. A un certo momento hanno il diritto di chiamarsi «città»: Modena, Parma, Piacenza, Lucca, Pisa, Firenze.
Ognuna cerca di avere dal potere di allora, dall’imperatore, dal Papa, il diritto di essere uno Stato. E questi Stati si fanno la guerra, per secoli, fino che uno non inghiotte l’altro, quando può.
La mia Siena fu conquistata da Firenze dopo trecento anni di lotte e, nell’ultimo stadio, i difensori di Siena andarono in fondo al territorio del comune, a Montalcino, e difesero ancora per cinque anni l’indipendenza della loro Siena che non esisteva più.

Chi ha evidenziato questa importanza della città nella storia italiana, non solo nella storia politica, ma nella storia morale del popolo italiano, fu una persona che è stata presso di voi vent’anni e, nonostante che fosse cittadino di Milano, ebbe anche delle cariche cittadine - perché allora la Svizzera permetteva a degli stranieri di avere delle cariche pubbliche -: Carlo Cattaneo, il quale partecipò alle vostre polemiche locali, com’era lui attaccabrighe, rivoluzionario e quindi anche con un grande ingegno, ma quasi sconosciuto in Italia.
L’Italia non ha mai accettato Cattaneo per la semplice ragione che Cattaneo era propagatore del concetto che il migliore Paese, la migliore amministrazione, il migliore sistema politico è quello della Confederazione, quello che aveva visto qui in Svizzera. Lo propose all’Italia, ma l’Italia gli prepose Mazzini, che voleva l’unità.
Perché? Perché per Mazzini la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale.
Ciò che era vero per gli italiani, doveva essere vero per i giapponesi, per i lapponi, per gli argentini, per qualunque altro Paese.

Il concetto di un governo generale, uguale per tutti, è un concetto mazziniano: non è un concetto di Cattaneo.

Cattaneo è stato un apostolo, invano - ed anche un grande scrittore per conto mio - della amministrazione locale. Ed infatti, quando si parla con gli italiani (quando dico italiani, tutti siete italiani qua, parlando italiano intendo; questa è la «Svizzera italiana», non credo di dire un’enormità, vero? Siete italiani anche voi: non politicamente, ma almeno linguisticamente), questi italiani non si sono mai rassegnati a quello che gli è venuto dal di fuori.
Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare.

Oggi si vede che cosa è accaduto con il Risorgimento.
L’Italia attuale è una triste cosa... triste: per un italiano è una triste cosa, un triste momento, e speriamo che si sollevi da questo.
Ma questa tristezza viene anche dalle sue origini: false. L’italiano non ha mai sentito, come gli inglesi, il bisogno della libertà.
La libertà, nei comuni italiani, era semplicemente l’indipendenza dai comuni vicini. Quando i fiorentini si dichiararono «liberi», lo fecero perché non volevano che venisse il governo spagnolo a comandarli. Oppure, nel caso di Siena, i cittadini di Siena combattevano per la «loro» libertà.

La parola «libertà», in Italia, ha per significato «il comodo mio»: io faccio il comodo mio, voglio la mia libertà, non la libertà degli altri, non la libertà delle altre idee, non la libertà di polemica, non «la libertà»... Ho detto qualche cosa di male? (applausi).
Ora, gli italiani hanno vissuto di illusioni; in tutti i modi vivono di illusioni, intendiamoci bene, in tutti i modi. Anche il mio popolo americano vive di illusioni; ma questi italiani hanno vissuto con il mito di Roma. Gli è sempre parso di essere i discendenti dei romani.
Non sono i discendenti dei romani: tutta l’aristocrazia romana fu distrutta dai cosiddetti «barbari», dai goti, dai longobardi soprattutto, dai franchi più tardi.
Rimase il popolo minuto forse, in qualche posto, ma tutto, tutto fu cambiato: gli italiani non sono i figli dei romani; gli italiani sono figli del Medioevo.

Perché tanta meraviglia, l’altro giorno, quando un numero imprecisato di persone ammazzò otto persone? Tre, perché secondo loro li avevano traditi e cinque perché erano testimoni? Che meraviglia?
Voi non sapete che cos’era il brigantaggio! Io, da bambino, ho viaggiato con mio padre, che era un alto funzionario italiano. Per recarsi dalla città di Grosseto alla campagna aveva accanto due carabinieri a cavallo: uno da una parte e uno dall’altra della vettura perché, diceva «un prefetto non può essere sequestrato», cioè a dire che al tempo mio il sequestro esisteva talmente che in una città - non del Mezzogiorno - era possibile che un prefetto venisse sequestrato.

Vi meraviglia di quelle persone, ma voi sapete quanto è durata la guerra del brigantaggio in Italia? Perché chiamate «Brigate rosse» quelli che si dovrebbero invece chiamare «briganti rossi» (applausi).
I «briganti rossi» sono esistiti in Italia dal ’60 al ’70. La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò a prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento.

Perché queste sono le cifre che noi rivelammo, avute dal ministero della Guerra italiano, di morti di tutto il Risorgimento: dal principio alla fine furono seimila morti. Una cifra che oggi fa ridere, quando le nostre guerre portano sei milioni di morti, sessanta milioni di morti! Mentre i morti della guerra del brigantaggio furono diecimila! Per dire che gli italiani persero più uomini in una guerra interna.
Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti, i quali facevano quello che hanno fatto l’altro giorno i brigatisti rossi: ammazzavano, bruciavano le vittime, bruciavano villaggi.
Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia.
L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato.

E quando dico del soldato - sono stato soldato anch’io - dico che il soldato italiano non era affatto peggiore degli altri. Ma era male guidato, male istruito, mal rifornito, mal nutrito. Ha combattuto male perché l’Italia combatté contro l’Austria nella proporzione di tre uomini contro uno: combatté male, ma non era colpa sua.
Il popolo italiano ha una grande pazienza: lo vedete in questi giorni, che pazienza. Come un altro popolo non sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi! Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione.
Soltanto che lo fa per delle cause accidentali e personali. È possibile avere uno sciopero in una fabbrica perché quella fabbrica è stata toccata. Ma poi, quando si tratta di un’azione più larga, di un principio, allora la cosa non gli interessa.

(di Giuseppe Prezzolini)

venerdì 9 aprile 2010

La morte dei fascisti. Omaggio a Giano Accame


Un omaggio a uno stile conciliante e dalla vista lunga, a un uomo che aveva compreso come fosse deleterio restare chiusi al caldo della propria sfera e che intuì quanto fosse strategico battere nuove strade. Un anno fa se ne andava Giano Accame e il suo ultimo libro La morte dei fascisti era quasi finito. Da oggi è nelle librerie, pubblicato da Mursia e con la prefazione di Giorgio Galli. Si tratta di un lungo e appassionato viaggio all’interno del fascismo, solcato da una penna che, come ha ricordato il professor Alessandro Campi in occasione della presentazione avvenuta nella sede di Farefuturo su iniziativa del Secolo d’Italia, pur mantenendo un forte legame con la sua forza identitaria, proprio per questo riuscì a distaccarsene per aprire una fase nuova. Il senso del libro è quello di voler sfatare l’essenza necrofila della destra, che invece in altri volumi come Cuore nero di Luca Telese e Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli è ben presente.

Proprio la sfida politico-culturale della morte, secondo Campi, non è mai stata prerogativa del pensiero fascista. Accame in Pound ritrova spunti critici in questa direzione, e si era tra l’altro reso conto che i nuovi Cesari contemporanei altro non sono che i mercanti, esponenti del sistema oligarchico che ragionano per il profitto personale e non per la comunità.

Un libro significativo e personale, che spazia da Pound a Celine, da Marinetti alla Divina Commedia per raccontare le idee di un secolo. Quello stesso secolo che ha vissuto le difficoltà culturali di una parte intellettuale del paese messa ai margini, talvolta privata degli strumenti necessari alla legittimazione ideale. E spruzzando, tra una riflessione e un approfondimento, quella voglia di evitare come la peste taluni condizionamenti. Un’intelligenza scomoda quella di Accame, definito da Luciano Lanna il miglior direttore che il Secolo d’Italia abbia mai avuto, anche per la sua peculiarità rimarcata dall’attuale direttore, Flavia Perina: l’assenza di trombonismo. Lo slancio forzato nel voler a tutti i costi sottolineare o evidenziare oltremodo qualsiasi cosa di cui ci si occupi, oggi tristemente al vertice delle procedure anche giornalistiche.

Nelle trecentoquaranta pagine del libro Accame ripercorre, in modo semplice ed efficace, il significato della destra e di cosa comportò in quarant’anni di Repubblica italiana. Sosteneva che in un paese fosse impossibile avere delle fratture insanabili, ma vi fosse invece lo spazio per una riconciliazione democratica. «Non si è mai espresso in termini di risentimento- ha aggiunto Campi - e non dimentichiamo che negli anni sessanta e settanta la scelta di stare a destra era culturalmente penalizzante. E di ciò non se ne è mai lamentato». Non un militante politico, dunque, ma un uomo di scrittura che, da destra, poneva l’accento sulla letteratura, quella cosa bellissima che Giampiero Mughini ha definito come lo squarcio che compone l’identità alla base dell’elaborazione politica: Accame – ha continuato Mughini – era un fascista totale, che ne aveva sensibilmente ed appassionatamente attraversato tutte le fasi: fedeltà, emozioni, sconfitta. E per questo ancor più apprezzabile, se raffrontato ad un’epoca, quella contemporanea, dove le parole pronunciate e le idee affrontano un destino diverso, sempre più relegate nell’oblio di una soffitta o nella polvere di una cantina.

Onestà intellettuale, quindi, come quella mostrata da Pier Paolo Pasolini nell’aprile del 1975 quando, intervistato dal Resto del Carlino, rispose che le bombe non erano state piazzate da una certa parte politica ma dal potere. E che alla successiva domanda sul voto regionale che di lì a pochi giorni si sarebbe celebrato, rispose «meglio un voto sbagliato che un voto imposto». Rimarcando quel rifiuto dell’omologazione che nelle pagine di La morte dei fascisti si denota immediatamente.Accame aveva compreso come la storia andasse metabolizzata non come sintesi immobile, ma attraverso le lenti della conciliazione, in contrasto con la contrapposizione ideologica che rende sordi i dialoghi e vani i tentativi di comunione. Ed è proprio la comunione delle idee che offre la risposta nei momenti critici, in quelle fasi delicatissime dove è imprescindibile chiamare le cose con il proprio nome, bello o brutto che sia, senza lasciarsi distrarre dalle sirene dei preconcetti e delle paure, che altro non producono se non la chiusura a riccio in virtù delle proprie convinzioni.

«Questo libro è una cosa nuova», ha detto Giampiero Mughini, soprattutto perché è la summa di una vita, in un periodo dove si scorgono pericolosi reflussi che, in verità, neanche in quel passato si constatavano. Sacche di conservatorismo stantìo che stonano con le problematiche della post modernità, con le sfide sociali di un terzo millennio che viaggia in rete a tutta velocità, e che, per dirla con le sfumature usate da Gianni Borgna, rischia di paralizzarsi a causa di frangiflutti ideologici che impediscono analisi serene e che, in questo modo, ostacolano drammaticamente lo sviluppo delle idee.

(di Francesco De Palo)


http://www-2.radioradicale.it/scheda/300954/la-morte-dei-fascisti-presentazione-del-libro-postumo-di-giano-accame-edizioni-ugo-mursia

Dal postfascismo al Popolo della Libertà

La storia della destra italiana raccontata da un uomo di destra attraverso un continuo susseguirsi di ricostruzione storica e analisi giornalistica. Dopo aver descritto gli Anni di piombo insieme al giornalista di sinistra Sandro Provisionato nel loro La notte più lunga della Repubblica e in attesa di dare alla luce un testo su Pier Paolo Pasolini, Adalberto Baldoni ha voluto ripercorrere le principali tappe della destra italiana, dalla nascita del Movimento sociale italiano fino alla creazione berlusconiana del Popolo della Libertà. Il diario di bordo di questo viaggio attraverso le proprie radici politiche e partitiche s'intitola Storia della destra. Dal postfascismo al Popolo della Libertà (Vallecchi Editore, 2009). "Il mio libro parte dalla nascita del Msi nel 1946, passa attraverso la costituzione di Alleanza nazionale nel 1995 con la svolta di Fiuggi, voluta da Fini e incoraggiata da Fisichella e Tatarella, e arriva fino alla costituzione del Popolo della libertà, questo nuovo organismo politico voluto da Silvio Berlusconi. E’ un libro che offre un’ampia panoramica storica sulla destra in Italia”, spiega il giornalista parlamentare ed ex redattore del Secolo d'Italia (quotidiano del Msi e poi di An ndr).

Baldoni partiamo dalla doppia eredità fascista che caratterizza il Msi: da un lato l’anima di destra che si richiama al Ventennio, dall’altra quella di sinistra che si ispira alla Repubblica sociale italiana.

"Il sottotitolo del libro recita dal ‘postfascismo al Pdl’ perché, da storico della destra, nel 1946 con Michelini, Romualdi e Almirante era già “postfascimo”. L’eredità del fascismo era stata accantonata ed erano pochi i nostalgici che avrebbero voluto una sua restaurazione. Sarebbe stata una follia sia la riproposizione del Ventennio che quella della Rsi. C'era però un richiamo ai valori. Il Msi ha avuto un’anima di sinistra che si rifaceva ai 18 punti di Verona, alla socializzazione e alla partecipazione degli utili del lavoro ed era rappresentata da Giorgio Almirante. C’era poi la destra di Arturo Michelini che sognava un partito conservatore, moderato e atlantico. Il progetto di Michelini fallisce nel 1960 con l’appoggio al governo monocolore del democristiano Tambroni e l’organizzazione del congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Un congresso che si poteva evitare e che segna la fine del disegno di Michelini".

Passiamo agli anni Settanta, quelli degli scontri in piazza, dei morti ammazzati e dell'isolamento politico del Msi.

"Michelini muore nel giugno del 1969 e le redini del partito passano nelle mani di Almirante. Nei primi anni ’70 il Msi ottiene importanti successi elettorali raggiungendo quasi il 9 per cento nelle politiche del 1972 e questo crea delle forti preoccupazioni nella Dc. Contemporaneamente nascono i gruppi extraparlamentari di estrema sinistra e il loro antifascismo militante si traduce in sedi distrutte e militanti del Msi uccisi. Il partito è costretto a stare in trincea e non fa più politica mentre la Dc e il Pci si avviano verso il compromesso storico. Nel 1976 c’è poi la scissione interna e la nascita di Democrazia nazionale e quasi tutta la classe dirigente del partito va via. Una stagnazione e un isolamento politico che vanno avanti fino al luglio del 1983 quando Craxi, incaricato di formare il governo, durante le consultazioni riceve anche la delegazione del Msi".

Negli anni Novanta la mamma di Silvio Berlusconi aveva invitato il figlio imprenditore a non legarsi ai missini. Dal suo libro emerge invece che i primi contatti risalivano al 1976 con il finanziamento a Democrazia nazionale.

"Questo è un particolare che viene ignorato, ma non è mai stato smentito. Mi è stato rivelato da Raffaele Delfino, uno dei leader di Dn, che ricevette un finanziamento da parte di Silvio Berlusconi. Quando Dn ottenne il finanziamento pubblico restituì i soldi al giovane imprenditore. Berlusconi fece anche una battuta a Delfino: 'E’ la prima volta che degli uomini politici mi restituiscono dei soldi'. Berlusconi già allora prefigurava una destra democratica perché non vedeva con simpatia il compromesso storico tra Dc e Pci".

Date le simpatie verso il Psi era ovvio che Berlusconi non considerasse positivamente un avvicinamento tra democristiani e comunisti.

"Moro era un uomo di potere e comprese che per gestire il potere la Dc non poteva appoggiarsi al Psi perché i socialisti non riuscivano a superare il 15 per cento dei consensi. Così come negli anni Sessanta insieme a Fanfani aveva portato avanti l’apertura a sinistra della Dc, nel 1976 voleva il compromesso storico con i comunisti".

Almirante diceva: "Scioglierò il Msi quando nessuno voterà più per noi". Il suo delfino Fini ha sciolto il partito nel momento di massimo consenso elettorale.

"Sono diversi i contesti storici. Almirante e Romualdi muoiono nel 1988 in un contesto storico e politico che muterà rapidamente con il crollo del Muro di Berlino e la fine della politica anticomunista della Dc. Nei primi anni Novanta c’è Mani Pulite e Tangentopoli che porta al crollo di due partiti tradizionali come Dc e Psi. Era cambiato sia il quadro politico internazionale che quello interno e Fini è stato abile a cogliere la palla al balzo".

Una critica che viene mossa al presidente della Camera però è quella di essere andato oltre passando in pochi anni dalle citazioni di Mussolini a dichiarazioni come il "fascismo è il male assoluto". Cosa ne pensa?

"Su alcune cose è andato un po’ oltre. Ma ad esempio la frase del ‘fascismo male assoluto’ è stata male interpretata. Parlando agli ebrei in Israele Fini disse che le leggi razziali del ’38 sono un male assoluto e vanno condannate in toto. Fini non è uno storico, è un politico e il fascismo va lasciato agli storici. Anche le sue dichiarazioni politiche vanno considerate in relazione ai contesti storici attuali. Basta guardare anche a quello che dice nei confronti del presidente del Consiglio".

Il Pdl sembra stare stretto a Fini, ma senza Berlusconi il partito non sembra avere ragione di esistere. Come andrà a finire questa alleanza?

"Io non sono un tifoso di Berlusconi perché la mia concezione della vita è difforme da quella del premier, ma devo riconoscere che è dotato di enormi qualità mediatiche. Ha un carisma che Fini non è riuscito a conquistare. Fini soffre per questo perché vorrebbe affermare una sua identità personale nel Pdl. Ma finché sarà presente Berlusconi tutte le varie anime che compongono il Pdl rimarranno unite, quando non ci sarà più lui il partito finirà per sfasciarsi".

Viva le donne


Ho scritto che le donne "sono una razza nemica". Non mi sono mai sognato di dire che siano inferiori a chicchessia. Se la lettrice Cristina Di Bortolo avesse letto il mio articolo con "un minino di cervello" avrebbe capito che, al contrario, considero la donna, meglio: la femmina, molto più vitale del maschio.

È lei, che procrea, la protagonista del gran gioco della vita (quello reale, non quello virtuale) mentre il maschio è un fuoco malinconico e transeunte animato da un oscuro istinto di morte (“La donna è orgiastica, baccante, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola, nessun principio può valere più di un istinto vitale”). La donna è la vita, l’uomo è la legge, la regola, il rigore, la morte (il contrasto tra Antigone e Creonte in Sofocle). Non a caso nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, quando l’Essere primigenio, dopo la caduta, si scinde in due la Donna viene definita “la Vita” o “la Vivente” mentre l’Uomo è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”.

È per riempire questo vuoto, per sopperire a questa impotenza procreativa (“l’invidia del pene” è una sciocchezza freudiana), che l’uomo si è inventato di tutto, la letteratura, la filosofia, la scienza, il diritto, il gioco regolato e il gioco di tutti i giochi, la guerra, che però oggi ha perso quasi tutto il suo fascino perché affidata alle macchine e anche perché in campo han voluto entrare pure le stronzette che pretendono di fare i soldati e vogliono fare, con i loro foularini, le corrispondenti di guerra (Ma state a casa, cretine, a fare figli. L’interesse della donna per la guerra è una perversione degli istinti. La donna, che dà la vita, non ha mai amato questo gioco di morte, tipicamente maschile.

Ma ormai così è: le più assatanate guerrafondaie di questi ultimi anni sono state la Albright, Emma Bonino e quella pseudodonna e pseudonera di Condoleezza Rice). Della vitalità della donna fa parte anche la sua curiosità. Che può avere conseguenze catastrofiche. Ma è mai possibile che con tutte le mele che c’erano lei sia andata a mangiare proprio quella che Domineiddio aveva proibito? (da lì sono cominciati tutti i nostri guai, porca Eva). Comunque sia è vero che da quando si sono “liberate” si sono appiattite sul maschile, diventandone una parodia, e insieme alla femminilità hanno perso anche il loro fiore più falso e più bello, il pudore, per il quale valeva la pena, appunto, di corteggiarle.

Han perso la sapienza delle loro nonne alle quali bastava far intravedere la caviglia. Rivestitevi, sciocchine. All’uomo non interessa la vostra nudità, ma scartocciare, lentamente, la colorata e inquietante caramella anche se, alla fine, c’è sempre la solita, deludente, cosa. In quanto a Lisistrata, cara Truzzi, il suo sciopero del sesso fallì completamente. Perché le spose dei guerrieri continuarono a fare i consueti lavori di casa. Essere accuditi senza nemmeno avere l’obbligo di scoparle: l’Eden ritrovato. Inoltre ogni maschio bennato di fronte alla scelta fra la donna e la guerra non ha dubbi: sceglie la guerra (e persino il calcio, che ne è una metafora).

La lettrice Roberta Pesole mi confonde con quei nove milioni di uomini che, dice, vanno a puttane. Posso rassicurarla, nel mio “Di(zion)ario erotico-Manuale contro la donna a favore della femmina” ho scritto “pagare una donna per fare l’amore, c’è qualcosa di più insensato? Ma come, io faccio la fatica di scoparti e ti devo pure pagare? Ma siamo diventati matti?”. Infine nella mia vita ho conosciuto molte donne intelligenti, ironiche e anche autoironiche. Ma nessuna che non fosse permalosa. Come la valanga di insulti che mi è stata rovesciata addosso dimostra.

(di Massimo Fini)

Ormai gli evoluzionisti credono di essere Dio


Chi vuol dimostrare scientificamente l’inesistenza di Dio è, scientificamente parlando, un cretino. Sono pronto a riconoscere anche l’osservazione inversa: la prova scientifica dell’esistenza di Dio è rigorosamente stupida. Due atti opposti di demenza militante e presuntuosa. Credo che di Dio si possa discutere sul piano teologico, filosofico, poetico, sentimentale, come pensiero, intuizione, atto e fede. Ma non sul piano scientifico e sperimentale.
Nei giorni di bufera sul Papa e sulla Chiesa in tema di pedofilia, negli anni dell’ateismo esibizionista, c’è un grosso scimmione che si aggira per i laboratori, i libri, la tv e i giornali: è lo scimmione di Darwin che impone con le zampe della scienza e i barriti dei mass media l’indiscutibile verità evoluzionista. E lo fa non come una teoria scientifica, ma come una risposta assoluta, irrevocabile e generale al senso della vita, dell’umano e del divino. Ne sanno qualcosa Piattelli Palmarini e Jerry Fodor che hanno osato dubitare in un loro testo dell’infallibilità di Darwin. Ne sa qualcosa Roberto de Mattei, del quale è stato chiesto lo scalpo e la rimozione dagli incarichi scientifici ai vertici del Cnr perché sostiene argomenti critici verso il dogma darwiniano. Ma ne sanno qualcosa perfino i religiosi, dal Papa in giù, che nel nome della scimmia dovrebbero chiudere bottega e dichiarare la chiesa superata dal laboratorio.
Non dirò una parola sull’evoluzionismo, non ho la minima autorità e competenza né per gloriarlo né per confutarlo, e nemmeno per spiegarlo. E dunque mi asterrò rigorosamente dal violento diverbio tra gli scienziati che sta riducendo la cultura a una disputa tra macachi, bertucce e babbuini.
Parlo soltanto dell’implicazione assurda che la teoria evoluzionista comporta quando viene applicata oltre i confini della scienza, alla condizione umana, alla storia, al pensiero e al senso del divino. Nessuna scienza spiegherà mai perché un tipo di scimmia si è fatta uomo e altre specie no. E nessuna scienza potrà mai escludere che il seme della differenza, lo specifico di quella specie che poi è evoluta in umana, sia un misterioso Dna, un inalienabile destino, insomma un germe o un codice di cui nessuna teoria scientifica spiegherà mai la genesi, la comparsa e la radicale differenza. Nessuna scienza potrà mai applicare l’evoluzionismo alla vita intera, alla storia, al destino umano e all’anima, facendola debordare dall’osservazione delle specie animali. Perché la realtà, prima ancora di ogni altra teoria, insegna che l’evoluzione è solo uno dei moduli in cui si sviluppa la vita; ce ne sono altri opposti come il declino, la decadenza, il graduale invecchiamento o la degenerazione. O semplicemente l’alternarsi di stagioni e stati della vita, tra crescita e decrescita, tra potenziamento e indebolimento, tra piccole rinascite e piccole morti, tra giorni e notti, primavere e inverni. Ci sono i ritorni o i corsi e i ricorsi, della storia e della natura; e ci sono le parabole, c’è l’asse delle ascisse che cresce e quello delle ordinate che decresce, c’è l’acme di una vita, di un’epoca, di un popolo, situata a cavallo tra un’evoluzione e un degrado.
La maturità, per esempio, è il punto più alto nella traiettoria umana, situato nel centro fra una crescita graduale detta progresso e un invecchiamento altrettanto graduale detto regresso. La storia delle civiltà segue lo stesso percorso evolutivo e involutivo e si sottrae al determinismo progressista. Conosce espansioni e decadenze, sviluppi e degradi, incivilimenti e imbarbarimenti. E sul piano dei saperi e delle arti, ci sono campi, come la scienza e la tecnica, in cui la crescita sembra progressiva, e altre che hanno punti di eccellenza situati e seminati in epoche diverse che a volte sembrano inarrivabili ai posteri: chi ha più eguagliato il pensiero di Platone e di Aristotele, la scultura di Fidia e di Michelangelo, la concentrazione di un Sufi o di un Bodhi, l’abilità danzante di un derviscio o la potenza erotica di un maestro tantrico, la forza fisica di erculei antichi e perfino l’abilità manuale di alcuni inarrivabili artigiani? E quante scoperte, quante tecniche hanno accresciuto una sfera di poteri, atrofizzando o mortificando altre? Si pensi al rapporto tra scrittura e memoria, di cui scriveva già Platone.
Ma anche nell’ambito dell’evoluzione e del progresso, quando si dice che noi vediamo più dei nostri avi perché siamo nani sulle spalle di giganti, il taciuto è che se scendiamo dalle spalle dei giganti antichi siamo nani e non vediamo nulla; ovvero fuori dalla tradizione c’è il nulla. L’evoluzione spiegata alla luce della tradizione assume altri significati e altre implicazioni.
L’evoluzione non è una teoria generale e assoluta di vita. Non spiega il nostro destino, non spiega l’assenza di Dio o dell’anima, come la sua demolizione non ne spiega la presenza; non si sostituisce il disegno intelligente con lo schema evolutivo. Si può applicare ad alcuni, anche vasti contesti. Lo scienziato che scaccia sdegnato il filosofo, il teologo, il credente dai suoi ambiti e poi si avventura a trasformare una teoria scientifica in un giudizio universale, vive lo stesso delirio, compie lo stesso sconfinamento filosofico, teologico e fideistico che condanna. Non si tratta dunque di essere pregiudizialmente avversi all’evoluzionismo, confesso candidamente la mia radicale ignoranza in materia; ma quando vedo una teoria tracimare dal suo ambito, debordare, farsi dogma e schema totale di vita, fino a generare conformismo e perfino intimidazione verso chi sostiene percorsi opposti, allora insorgo. Temo per la libertà e per il libero pensiero, per la libera teologia e la libera fede, ma temo anche per la ricerca scientifica e per la capacità di rimettere in discussione i saperi acquisiti per proseguire nella ricerca.
Le teorie vanno continuamente falsificate, come dice Popper, nel senso di verificate; o revisionate, come dicono gli storici, nel senso di riaprire le pagine chiuse e proibite. La miscela di relativismo e di intolleranza, di nichilismo e di fanatismo, mi spaventa più dei vecchi dogmatismi autoritari. Abbiate passione di verità fondata sul senso della realtà. Lo dico a voi che vivete la scienza come fede e a voi che vivete la fede come scienza.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 8 aprile 2010

Tutti gli uomini del Presidente della Camera


C’è consigliere e consigliere. Ci sono quelli atti a far spirare il vento di fronda e quelli più bravi nell’attività diplomatica. Un leader ha bisogno di poter suonare più strumenti, se necessario uno diverso per ogni occasione. E’ così da tempo per Silvio Berlusconi, è così anche per Gianfranco Fini, il quale non sarà il sovrano del proprio partito, ma nel Pdl ha saputo sostituire i colonnelli semiammutinati condensando attorno a sé una piccola corte funzionale al suo progetto.

Un sistema articolato che gli stessi interessati hanno definito “arcipelago” (parole di Carmelo Briguglio), composto essenzialmente da quattro isole: la fondazione FareFuturo, la holding Immobiliare An, il Secolo, e adesso la nuova associazione Generazione Italia. Ciascuna isola ha il proprio ruolo, ciascuna è guidata da una piccola fazione interna e non necessariamente simpatizzante o solidale nei confronti delle altre.

Non è un mistero che Italo Bocchino abbia convinto il presidente della Camera a benedire la sua Generazione Italia (”una lobby che sponsorizza la leadership di Fini”) rivelandogli la possibilità, in tempi di appeasement con Berlusconi, di costruire un’alternativa agli sberleffi editoriali di quel Filippo Rossi (”io sono come Gianburrasca”) che dirige il web magazine di FareFuturo e che martedì scorso, criticando la subalternità del Pdl alla Lega, ha usato pensieri che furono di Fini, ma ha pure forzato i tempi della politica, con un editoriale polemico diffuso nel momento sbagliato.

Risultato: ha provocato non poco imbarazzo al proprio committente. Come spiega un gran finiano di Montecitorio: “C’è chi non sa quando è il momento di parlare e quando invece è opportuno tacere”. In questo momento, più che a distinguersi da Bossi, Fini è interessato a cucire una solidarietà strategica con la Lega in vista di un nuovo equilibrio che possa far pendere anche il Cav., ora che si ritorna a parlare di riforme, verso il modello semipresidenzialista di tipo francese.

Come spiega chi conosce bene Fini e ne ha accompagnato gran parte di quegli scarti che nel tempo ne hanno modificato l’immagine pubblica, “sarebbe un errore ritenere che lui preferisca Italo Bocchino a FareFuturo, le provocazione di Fabio Granata alla verve analitica di Alessandro Campi o viceversa”. Si tratta soltanto di una diversa natura di consiglieri, “ce ne uno per stagione – spiegano – e il segreto è sapere modulare gli accenti”.

La politica e la diplozia si alternano alla fronda e alla polemica. Il presidente della Camera deve aver calcolato sin dall’inizio della legislatura la possibilità di non essere capito (”so di essere in minoranza”, ha detto al congresso del Pdl) o di venire ridotto alla caricatura di se stesso nei momenti di massimo anticonformismo e di apparente scapigliatura, persino dagli amici che animano la sua composita area.

Anche per questo a FareFuturo si è aggiunta dal primo aprile l’associazione-corrente GenerazioneItalia. Come ripete spesso Carmelo Briguglio, alleato di Italo Bocchino nella segreta ambizione di scavalcare Ignazio LaRussa nel ruolo di rappresentanti ufficiali del presidente della Camera all’interno del Pdl: “Noi non replichiamo FareFuturo, siamo un’altra cosa. Niente pernacchie, noi diciamo: evviva Fini, evviva Berlusconi”. E dev’essere proprio vero. Il nuovo schema finiano sembra difatti mutuato dall’antica strategia con la quale l’ex leader di An controllava il proprio vecchio partito.

Si può cambiare idea ma non si può guarire da se stessi. Così nella frequenza con la quale Fini fa trapelare irritazione (vera o simulata che sia) per le polemiche di FareFuturo o raffredda il rampantismo di Bocchino – quando il fedelissimo lavora a una revisione della governance del Pdl – il cofondatore rivela ancora una volta quella capacità di triangolare con le correnti, ovvero con le rivalità interne, per adattare attraverso di esse la rotta del proprio partito (e ora della sua sola persona) alle necessità della contingenza politica.

D’altra parte che ci siano differenze e divisioni nell’arcipelago finiano non è, neanche questo, un segreto. La profezia di Fisichella, Briguglio e Bocchino, ma anche Granata e la quasi totalità dei parlamentari finiani – al netto di quelli che in FareFuturo ci militano – non amano la linea editoriale della fondazione. Un sentimento ricambiato con simmetrica freddezza.

Bocchino, in cuor suo, stigmatizza l’improntitudine con la quale si muove FareFuturo (”la politica è fatta di prassi, contingenze e opportunità”) mentre gli intellettualigiornalisti della fondazione rivendicano una libertà di pensiero da contrapporre, dice qualche maligno, “ai vecchi schemi correntizi e irreplicabili con i quali certuni tentano di fare carriera e politica pro domo propria”.

D’altra parte è quasi dall’inizio della legislatura che il gruppo più politico dei finiani ha provato a convincere il leader ad affiancare qualcos’altro a FareFuturo. In un primo tempo si era pensato di trasformare la fondazione An, la holding immobiliare gestita da Donato Lamorte, in qualcosa di spendibile sul piano delle idee. Come diceva quasi un anno fa Granata: “Ci vuole una struttura che possa rappresentare tutte le componenti. Perché FareFuturo, in questo momento, è solo di una parte”.

Alla fine ce l’ha fatta Bocchino, autoconvintosi finiano sempre di più col passare del tempo e diventato adesso per il cofondatore del Pdl il più necessario degli amici, quello più dotato di capacità organizzativa e di senso dell’opportunità politica. Mesi fa lo aveva previsto Domenico Fisichella, l’ex gran consigliere di Fini, che intervistato dall’Unità diceva: “In una prima fase si potrà fare il gioco solitario della fronda, ma poi Fini dovrà chiamare a raccolta forze e uomini che condividano la sua linea”.

E così è stato. Ma in una condizione di sempiterna riconvertibilità, perché GenerazioneItalia non è una corrente nel senso classico del termine; perché Fini le ha concesso finora soltanto un silenzio assenso (la “benedizione” è stata inufficiale); perché la mediazione con Berlusconi è ancora affidata a La Russa; e perché qualora si rendesse di nuovo necessario fare politica “a contrario” tutti gli osservatori interni al Palazzo sono pronti a scommettere su un nuovo equilibrio che torni a premiare il Gianburrasca Filippo Rossi e il pensatoio ribelle di FareFuturo.

Ma per adesso tira un’aria diversa e l’apertura leghista al sempresidenzialismo, tanto caro a Fini che oggi il presidente della Camera ne rilancerà l’opportunità nel corso di un seminario, prescrive accortezza. Come dice Bocchino: “Non è la Lega il nemico

(di Salvatore Merlo)

venerdì 2 aprile 2010

Antonio Pennacchi, l'Omero de' noantri


«Compa’, guarda che io poi straparlo e vie’ fuori un casino. Gliel’ho detto a quelli della Mondadori: fate recensì er libro, io so ’no scrittore, mica ’n personaggio... Se me metto a discute’, sto romanzo mio, Canale Mussolini, va a puttane, perché parlo d’altro e non c’ho misura... E poi, compa’, so’ pure malato...».

Antonio Pennacchi se ne sta sdraiato sul lettuccio della sua camera-studio. A fianco c’è il suo bastone da passeggio, fuori della porta una sedia a rotelle. Gli fa male la schiena, compressione delle vertebre, è già stato operato, non lo si può rioperare, deve aspettare e sperare che il dolore se ne vada così come è venuto. Fare l’invalido, però, un po’ gli piace e così ci gioca. «Compa’, so’ andato co’ quella sedia a fa’ una presentazione, roteavo il bastone davanti a me e urlavo come un matto: “Largo, largo, che so’ ’nvalido...” E tutti a compatimme: “Poretto, chissà come soffre...”. Però compativano di più mi’ moje: “Poretta, chissà come fa a sopportallo...”. Resta il fatto, compa’, che fatico a stare in piedi...».
Ai Pennacchi qui al Giornale siamo abituati. Suo fratello Gianni era una nostra firma e quando mesi fa la sorte se l’è portato via ci siamo sentiti orfani. Era bravo, era allegro e anche lui era matto e quando lo dico a Antonio lui si commuove. «Era l’altra metà di me. Quanto ce siamo menati... “Aho, se menano i Pennacchi”, gridavano i vicini e correvano tutti. Mica pe’ dividece, pe’ guardà... Non sai quanto me manca». Il fasciocomunista è la storia romanzata della loro giovinezza.

Pennacchi sta a Borgo Carso, il Canale Mussolini davanti casa, Borgo Piave e Borgo Podgora a fianco, Littoria, cioè Latina, in lontananza. È l’Agro Pontino e alla sua storia lui ha dedicato la sua vita. «Canale Mussolini è un romanzo che mi porto dietro da cinquant’anni, adesso ne ho sessanta, fa’ ’n po’ te. È che io già in seconda elementare volevo riscrivere i libri di testo, non mi piacevano, figurate un po’... Insomma, l’ho rimuginato una vita, si doveva chiamare Il podere, poi un giorno alle bancarelle dei libri usati di piazza Esedra, a Roma, vidi un romanzo con quel titolo: era di Federigo Tozzi. Compa’, se fosse stato ancora vivo l’avrei ammazzato... Comunque, fino all’età di trentasei anni, mi sono sottratto a questo calice, perché la scrittura per me non è un diletto. A me piace leggere, scrivere è fatica. Nella nostra tradizione letteraria, la scrittura era il mestiere dei chierici, e io nun so’ chierico... Io mi sono fatto scrittore perché c’erano storie che andavano raccontate. C’ho tante di quelle storie dentro che le devo caccià via pe’ quanto so’ invadenti».

Quando gli dico che qualcuno parla di lui come di un romanziere naïf, Pennacchi butta per aria la coperta giallorossa della Roma con cui si è avvoltolato come una mummia e cerca di darmi una bastonata. «Compa’, io nun so’ naïf, ho studiato, mi sono persino laureato, tardi, a quarant’anni, ma con una tesi su Benedetto Croce... Certo, in famiglia la mia generazione è la prima a essere andata all’università, vengo da una tradizione di servi della gleba, contadini mezzadri, operai... Semmai, sono un autodidatta, formatosi in un’epoca in cui si leggevano gli scrittori del passato, i morti, insomma... Oggi si leggono solo i vivi, ci si è convinti che il tempo abbia modificato l’esistenza... Oggi si fanno i corsi di scrittura creativa, e invece io li farei di letteratura creativa... Diceva Orazio che i versi devono dormire nove anni, maturare dentro di te, insomma. Uno dice: “Ma che cazzo ne sa Orazio?”. “Ma che cazzo ne sai te”, dico io... L’università mi è servita per imparare delle regole, darmi degli elementi di paragone, indicarmi anche dei percorsi, farmi capire le ridondanze, ma la mia differenza rispetto agli altri è l’estrazione, io vengo dalla fame, è questo che mi fa diverso. Naïf un cazzo! Uno è storicamente determinato, io faccio ciò che sono costruito a fare, il talento è solo la precondizione».

Pennacchi ha passato una vita in fabbrica, la Fulgorcavi di Borgo Piave. Il suo primo romanzo, Mammut, viene da lì. «L’ho scritto perché fosse comprensibile a chi lavorava con me, anche se sapevo che non l’avrebbe mai letto. Per chi scrivo io? Il presente, compa’, non esiste, l’universo è curvo e io non scrivo per i contemporanei: non che vendere mi faccia schifo, ma scrivo per i posteri, pensando che ci sono storie che vanno raccontate e se non le racconto vanno perse. Quante guerre di Troia ci sono state, prima che qualcuno ci si mettesse d’impegno a ricordare almeno quella... Anzi, più che per i posteri io scrivo per i morti... E per quelli che non possono scrivere. Avevo un compagno di fabbrica, analfabeta, ma cacacazzi, Francesco Celentano si chiamava: era uno che a Socrate gli faceva un culo così, anzi sono sicuro che Socrate fosse come Francesco, uno che rompeva il cazzo a tutti, parlava, discuteva, spiegava... Anche il mio barbiere Gastone è così, peccato che sia interista... Ecco, io sono il Platone di Francesco-Socrate...».

Canale Mussolini è un romanzone (Mondadori, pagg. 450, euro 20), un poema epico che ha per protagonisti la stirpe dei Peruzzi, lo zio Pericle, i figli Temistocle, Treves e Turati, il nipote Paride, e poi l’Armida, la zia Bìssola, la zia Modigliana... È una storia di «cispadani-polentoni», i contadini emiliani, veneti e friulani che da nord emigrano a sud, un vero e proprio esodo, e di «marocchini-marocàssi», i laziali che assistono all’invasione e la vivono come un esproprio e una sopraffazione, li odiano e tifano perché la malaria trionfi. È una storia corale, raccontata con senso del mito e ironia, un po’ Il mulino del Po di Bacchelli, un po’ Il placido Don di Sholokhov, un po’ il Grande Sertão di Guimarães Rosa. È anche un libro di storia patria, di quelle che si raccontano intorno al fuoco del camino e tutto assume un tono di leggenda, ma niente però è falso, perché chi l’ha scritta conosce bene le fonti, non bara e non edulcora. È un racconto di poveri, dove le passioni e gli istinti la vincono sui ragionamenti, la vita è fatica, il numero è potenza perché vuol dire braccia in più e sopravvivenza, ci si ama e ci si odia senza secondi fini, consapevoli che solo la guerra civile ha una sua «umanità», perché si sa chi si ammazza. È un romanzo nazional-popolare, perché parte dal presupposto che soltanto capendo «come eravamo» possiamo veramente capire se ciò che siamo divenuti lo è stato per eccesso o per difetto, per rivendicazione o per dimenticanza. È a suo modo anche un romanzo pudico, dove il sesso ha una sua casta nudità e l’io narrante svela solo alla fine un’identità che la nascita aveva condannato e l’amore per gli altri poi riscatterà.

È insomma storia e memoria, azione e compassione, rispetto degli umili, nessuna compiacenza per i potenti. Un romanzo italiano: «Compa’, scrivi che è meglio di Guerra e pace. Perché Tolstoj era bravo, ma non c’aveva la pietas...».

(di Stenio Solinas)