sabato 8 maggio 2010

Cameron, il conservatore rivoluzionario

A vederlo, non fa molta simpatia, David Cameron. E non mi pare che abbia un gran carisma. Meno simpatia fanno i suoi sostenitori, da certi Tory a Murdoch, fino all’Economist, specializzato in diffamazione dell’Italia a mezzo stampa: l’ultima che mi colpisce negli affetti più intimi, definisce il Sud d’Italia «il regno del Bordello» ed auspica la sua espulsione dall’Europa. Ma Cameron non è solo la password che l’Inghilterra ha scelto per chiudere con i laburisti di Gordon Brown e accedere al cambiamento. Cameron è il leader giovane e pragmatico di un partito giovane e antico, il Partito conservatore, e ha saputo rianimarlo in modo interessante. Lo dico pensando al Regno Unito, ma anche all’Europa, all’Italia e alla sua destra. Cameron ha promesso una rivoluzione conservatrice. Il termine, per gli europei continentali, evoca grandi movimenti di idee calate nella storia, grandi autori. Ma nel gergo politico atlantico, si parlò di rivoluzione conservatrice a proposito dell’onda reaganiana; ne parlò Guy Sorman, per esempio. Qual è la novità del giovanottone inglese? Cameron ha capito che non si può essere conservatori con la parrucca nell’anno di grazia 2010 e nemmeno si può riproporre la ricetta Thatcher, salutare trent’anni fa. E allora ha shakerato idee forti e valori permanenti della tradizione conservatrice con nuove idee, nuovi linguaggi e aperture al presente. Il tutto incartato in un look informale, sportivo e rassicurante.

Le tre principali differenze rispetto ai conservatori del passato sono assai interessanti per noi europei perché sembrano provenire dal nostro continente. La prima è la svolta sociale del conservatorismo, il progetto riformatore, la convinzione che lo Stato debba garantire maggiore giustizia sociale, più qualità alla scuola pubblica, controllo dell’anarchia finanziaria, dopo le follie prodotte dal mercato. Una svolta rispetto alla tradizione conservatrice inglese e rispetto al liberismo della Thatcher; ma una svolta che riannoda i conservatori britannici alla tradizione cristiano-sociale, gollista e di destra sociale europea. Da noi una svolta analoga l’ha fatta Tremonti, passando dal liberismo a una visione sociale dello Stato, critica verso il mercatismo e rafforzata dalla difesa della tradizione. La seconda novità rispetto ai conservatori è l’interesse per l’ambiente, la difesa della natura dal degrado e dall’inquinamento, la visione di un eco-conservatorismo che toglie finalmente il monopolio verde al velleitario ideologismo radical e lo coniuga al realismo dei conservatori. Bella svolta.

Il terzo tema nuovo e forte è l’idea di comunità, tema centrale della nuova destra europea. Un’idea forte, che consente da un verso a Cameron di svoltare rispetto all’individualismo dei conservatori o all’idea popperiana della Thatcher che la società non esiste, esistono solo gli individui. Ma dall’altro verso l’idea comunitaria permette a Cameron di riprendere in modo nuovo la difesa dei legami territoriali, l’identità nazionale, le tradizioni inglesi, le radici cristiane della nazione, la famiglia, che è al centro del discorso di Cameron, la politica per l’infanzia e la tutela del matrimonio. Qui si innestano alcune aperture di Cameron, anche discutibili, come i Pacs per riconoscere le coppie omosessuali, una maggiore indulgenza sul piano dei costumi, dopo il rigorismo puritano e vittoriano, peraltro impraticabile dopo tanti episodi in cui sono rimasti coinvolti anche esponenti conservatori; o una linea più morbida verso le droghe che ora è invece rientrata, visti gli effetti devastanti che ha prodotto. C’è qualcuno in Italia che si attacca a questi spunti marginali e in parte rientrati per ricavare un’analogia con il nuovo corso finiano. Ma dimenticando i temi forti e centrali di Cameron, sulla famiglia, l’identità nazionale, la tradizione religiosa, la comunità, o la tolleranza zero contro la criminalità e l’immigrazione clandestina. A proposito d’immigrazione, per Cameron è fallito il modello multiculturale inglese; bisogna da un verso riconoscere e rispettare tutte le etnie e i loro diritti, integrando a pieno titolo gli immigrati regolari, ma dall’altro bisogna garantire la coesione nazionale, il rispetto delle leggi inglesi e il primato della comunità nazionale sulle minoranze etnico-religiose.

Ricavo questi giudizi e queste sue posizioni dopo aver seguito non solo la sua campagna elettorale, ma dopo aver letto due libri tradotti in Italia da Pagine, «La mia Rivoluzione conservatrice», frutto di una conversazione con Dylan Jones (uscito in Italia con una prefazione firmata da Fini); e poi, nella collana dei libri del Borghese, «Cameron, nuovo conservatorismo», a cura di Francis Eliott & James Hanning. Non so se Cameron riuscirà a mettere su strada queste idee, e se riuscirà a fare un governo, visto che ha vinto ma non ha la maggioranza assoluta dei seggi perché mentre noi scoprivamo il bipolarismo dell’alternanza, gli inglesi si sono convertiti al tripartitismo e alla logica continentale delle coalizioni. Però sarebbe una bella scommessa e un bell’esperimento.

Noto in definitiva due cose: l’Inghilterra somiglia sempre più all’Europa continentale e i conservatori di Cameron vi si adeguano con duttile intelligenza. Ed è un paradosso, considerando che Cameron resta un euroscettico. E poi, dopo l’epoca di Blair, laburista molto lib e poco lab, molto filoamericano e guerriero, arriva un conservatore che riscopre il sociale, la comunità, che sa dissociarsi dagli Stati Uniti e disapprovare Israele quando lancia i missili, che critica Bush per la disattenzione all’ambiente (ma poi lo imita riprendendo il suo conservatorismo compassionevole). Che la sinistra inglese sia sempre più liberal e sempre meno comunitaria, lo avevo riscontrato in un carteggio con sir Ralf Dahrendorf che opponeva al mio comunitarismo la visione individualista. Cameron coglie le conseguenze di quella svolta. Cameron nutre simpatia per Obama e Sarkozy e invece non conosce Berlusconi; è tempo per entrambi che si cerchino e si incontrino presto. Auguri, perfida Albione dal Bordello del piano di sotto.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 7 maggio 2010

Ecco perché ho firmato l’appello in favore dei fascisti solari di CasaPound

CasaPound? Non sapevo nemmeno dove stesse di casa, fino a un paio di giorni fa. Quando una ragazza mi telefona e con voce timida e armoniosa mi spiega che una lista che si rifà a CasaPound, “per la giovinezza al potere”, si presenterà alle elezioni universitarie del 12 e 13 maggio, che per farla conoscere avevano indetto per il 7, cioè per oggi, un corteo e un sit-in. La questura però aveva vietato il corteo, autorizzando solo l’uso della piazza. Mi dice che il settimanale “Gli altri” e Piero Sansonetti avevano lanciato un appello in difesa del diritto a manifestare liberamente e pacificamente, mi legge nomi di altri firmatari, mi chiede di aderire. Dico di sì senza problemi, dove stanno il Piero, la Ritanna e l’Andrea di solito si fanno cose buone e giuste. Avevo dimenticato che siamo un paese corrucciato in cui censori e maestri sono in servizio permanente effettivo.

Alberto Asor Rosa, Margherita Hack e centonovantotto gravitanti attorno ai Comunisti italiani avevano appena firmato un altro appello per escludere dalle elezioni e addirittura espellere dalle università gli estremisti di destra “perché non devono trovare cittadinanza e accessibilità in luoghi di cui la democrazia e l’antifascismo costituiscono la base imprescindibile”. Oddio, un sequel del remake. Allora ho spulciato, chiesto in giro. In effetti non nascondono quello che sono. Si definiscono “area non conforme”, hanno simboli esoterici e contorti, una tartaruga, animale nobile perché porta sulle spalle la sua casa, otto frecce convergenti in un punto. Inneggiano alla turbo dinamica. Amano il nero. Neri gli arredamenti, neri per lo più vestiti, magliette e occhiali. Nero su nero, è la serie di interviste, reperibili sul sito, diciamo così agli antesignani: Mario Tuti racconta di quando “mancò Violante”, Pierluigi Concutelli come non sia facile stare trenta anni in prigione con la schiena dritta. Hanno messo su gruppi di rocciatori, alpinisti, sommozzatori, “Diavoli di Mare”. E di paracadutisti, “Istinto Rapace”.

Sono fascisti, fascisti sociali che credono nella Carta di Verona. Sono fascisti del nuovo millennio, come Gianfranco Fini definiva se stesso una ventina di anni fa. Va da sé che se devono menar le mani le menano. Ultimamente è successo spesso, anche se a Napoli il 1° maggio è stato uno di loro a rischiare la vita. Menano dunque. Ma sempre controvoglia. Il dettaglio è tutt’altro che secondario. Ci dice che non vivono nella stolida, fatale attesa che ogni giorno porti valide ragioni per coltivare il risentimento e alimentare l’odio. Ci dice che sono usciti da una concezione catacombale dell’esistenza, che hanno elaborato il lutto per le loro vittime. Hanno curiosità per il dialogo, non sopportano gli steccati. Malgrado il nero dominante, hanno un che di solare. Forse per questo cominciano a fare più proseliti della concorrenza di sinistra.

Chi ha qualche ricordo di separatezza gruppuscolare sa che la presenza di ragazzi ma soprattutto di ragazze è un segno di vitalità. E la Casa è piena di giovani. Fanno politica, dunque. E la risposta deve essere politica. Non mi pare che l’appello dei docenti rientri in questa categoria. E nemmeno la mobilitazione a Milano contro la commemorazione di Sergio Ramelli, fascista ucciso trentacinque anni fa in modo orribile e nel cui ricordo tutti dovremmo inchinarci in silenzio. Ci sono voluti trenta anni, leader come Almirante e Berlinguer, l’impegno di uomini di cultura e di buona volontà per interrompere una spirale luttuosa e infernale che già allora era fuori dal tempo e dalla storia. Cerchiamo di non farci riprendere da un passato che sembra non dover mai morire.

(di Lanfranco Pace)

giovedì 6 maggio 2010

Avviso al ministro Maroni


Eppure proprio le cronache che svaniscono ci aiutano a capire lo stato di salute di un Paese. Sono il termometro che misura la febbre. Ti dice che hai una temperatura quasi normale, trentasette e mezzo. Ma nello stesso tempo ti avverte che potrebbe arrivarti un febbrone da cavallo.

In Italia di febbroni ne abbiamo molti. Ma il più insidioso ha un nome corto e quasi osceno: l’odio. L’odio politico che diventa ogni giorno di più odio personale e può fare danni irreparabili.

Attenzione: non sto parlando di Silvio Berlusconi e della cupa avversione che suscita in troppa gente. Anche se il nostro presidente del Consiglio sta diventando, controvoglia, un caso unico al mondo. Ha già subito un attentato, vive blindato, le rare volte che cammina per strada deve essere protetto da un muro di guardie del corpo.

Pur non avendo mai votato per lui, e benché l’abbia criticato molte volte sulle colonne del Riformista, provo vergogna per un Paese dove il capo del governo è costretto a procedere come se fosse in territorio nemico. Immagino che qualche lettore del Riformista si stia chiedendo se l’autore del Bestiario non sia impazzito. Oppure non sia passato armi e bagagli al Popolo della libertà. A questi amici, replico: cari lettori, meditate, meditate! Se il Cavaliere è in pericolo, pure voi lo siete. In base a un principio, vecchio quanto il mondo, che recita: oggi a me, domani a te.

L’odio politico è di nuovo emerso negli ultimi giorni, a partire dall’anniversario del 25 aprile, festa della Liberazione. So bene che la Resistenza e la guerra partigiana sono una storia molto più complessa di quella che viene insegnata nelle scuole e predicata dalle tante sinistre. In realtà, finita la dittatura nera, la guerra civile poteva sfociare in una dittatura rossa. I comunisti volevano imporci una democrazia progressiva, così la chiamavano. Destinata a diventare una democrazia popolare con un partito unico. A somiglianza di quanto stava accadendo nei Paesi occupati dall’Unione Sovietica. Ci salvò la presenza delle armate inglesi e americane. Dopo aver perso migliaia e migliaia di ragazzi, caduti in battaglia per liberarci dell’occupazione tedesca, ci fecero un ultimo regalo: una democrazia parlamentare.

Pur sapendo come andarono le cose, penso anch’io che il 25 aprile vada celebrato e festeggiato. Gli storici ci hanno già spiegato con dovizia di argomenti che tutte le democrazie hanno bisogno di un mito fondativo. E il mito che sta alla base della Repubblica nella quale viviamo è quello resistenziale. Ma non tutti la pensano così. Non parlo di chi ha vissuto la tragedia della Repubblica sociale e ha pagato un conto salato. Con uno sterminio massiccio, le tante persone assassinate dopo il 25 aprile. Parlo di una minoranza violenta, tutta rossa, che si attribuisce la proprietà esclusiva dell’antifascismo. E quindi della Liberazione.

Qui arrivo alle notizie subito dimenticate. Sappiamo tutti che cosa è accaduto a Milano e a Roma.

Contestazioni e insulti a chi era chiamato a celebrare la Resistenza. Nella capitale c’è stata anche un’aggressione fisica contro la presidente della Regione e il presidente della Provincia. Costretti a lasciare il palco dai fumogeni e dagli oggetti lanciati da una banda di sedicenti antifascisti, usciti da qualche centro sociale.

Poiché la gramigna si estende a macchia d’olio, dopo il 25 aprile l’odio politico è emerso a Firenze. È stata impedita la presentazione in pubblico di un libro sull’organizzazione Gladio che non piaceva agli odiatori. Si è cercato di bloccare un altro dibattito su un libro di Marco Tarchi, un autore che conosco, docente a Firenze, un intellettuale campione di mitezza. Sui manifesti per un convegno dedicato a Marco Biagi, il giurista ucciso dalle Brigate Rosse nel marzo 2002, sono state tracciate scritte nefande. Una diceva: «Biagi non pedala più». La firma era una stella a cinque punte e la sigla Br. Tutte vicende che ho appreso dal Giornale della Toscana e dalla Nazione.

Insieme ad altre grandi città italiane, Firenze sta diventando un fronte di guerriglia. E non per opera di masse studentesche e operaie. Sono piccoli gruppi di antagonisti, sempre armati di caschi e spranghe, pronti a menare le mani, capaci di un linguaggio mortuario. Usato per minacciare le persone e per ricordare di continuo i massacri del dopoguerra: «A piazzale Loreto c’è ancora posto!». Per me non è una novità. Il gruppo che nel 2006 mi aggredì a Reggio Emilia, guidato da un giovane funzionario di Rifondazione comunista, inalberava un lenzuolo color sangue dove c’era scritto: «Triangolo rosso? Nessun rimorso».

Non è per niente folclore politico, come seguitano a credere in molti a sinistra. Lo squadrismo fascista degli anni Venti è iniziato con piccoli gruppi di violenti. Anche i miliziani dell’antagonismo rosso possono diventare molto pericolosi. Soprattutto in una fase di forte crisi economica e sociale. Gli italiani senza potere, a cominciare da noi che lavoriamo nei media, ignorano che cosa si stia muovendo negli scantinati del ribellismo. Ma il ministero dell’Interno dovrebbe saperlo.

Il ministro Roberto Maroni viene elogiato per tanti motivi. Il primo è che ha fermato i grandi sbarchi dei clandestini e incarcera mafiosi. Vuol dare un’occhiata anche alle bande che spadroneggiano in tante città? È una richiesta cortese e anche un avviso. Si muova, prima di essere aggredito anche lui.

(di Giampaolo Pansa)

Scalfari, il prototipo assoluto del radical chic

Una volta chiesi a Montanelli un giudizio su Eugenio Scalfari. «Non è dei nostri», rispose senza esitazione il grande Indro, intendendo dire che non è un giornalista. Il suo stile è orripilante: ciceroniano, «ore rotundo», privo di capacità di sintesi, involuto, avvocaticchio, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. E corrisponde perfettamente all’uomo. In un libro senile, Incontro con io, con ambizioni penosamente filosofiche, ha scritto: «Ho finalmente raggiunto la pienezza di me». Non osiamo immaginare, perché pieno di sé Scalfari lo è sempre stato. Parlando, come suole, ex cathedra, non ha mai rinunciato a impartire lezioni, soprattutto di morale; in particolare ai colleghi. Del suo giornale ha scritto: «La qualità culturale e morale di Repubblica non ha riscontro con nessun fenomeno analogo nel giornalismo italiano... i suoi lettori rappresentano il meglio della società». Questa boria incontrollata lo ha esposto anche a figuracce incresciose. Nel 1969, quando era deputato socialista, un vigile osò fargli una multa alla Stazione centrale di Milano perché aveva parcheggiato la macchina in sosta vietata. Lui esplose nel più classico e italico «Lei non sa chi sono io!» e gli scagliò contro L’Espresso dove il vigile figurava come l’emblema del potere arrogante e protervo e lui, Scalfari, come il cittadino inerme. Del resto una certa vocazione censoria questo campione della «libera stampa» l’ha sempre avuta. Quando nei sinistrorsi anni Sessanta Maurizio Costanzo invitò Montanelli al suo talk-show, attaccò il conduttore perché aveva dato la parola a «un fascista». Quando, negli stessi anni, gli extraparlamentari diedero l’assalto al Corriere cercando di impedirne l’uscita, plaudì all’iniziativa: «Questi giovani ci insegnano qualcosa (...)l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate (...)a nascondere le informazioni, a manipolare le opinioni pubbliche (...). Chi ama la libertà (...)non può che rallegrarsene» (L’Espresso, 21 aprile 1968).
Prototipo assoluto del radical-chic, con cuore a sinistra ma portafoglio ben sistemato a destra, e ostentato calzino lungo color panna come massimo dell’eleganza mentre lo è del kitsch. O per dirla con le parole di un insolitamente coraggioso Giorgio Bocca, «aveva un po’ di questa disinvoltura: esser di sinistra però esser sempre amico dei potenti». Scalfari ne ha fatto un’intera collezione con una particolare predilezione, lui che cominciò come impiegato di banca, per banchieri, finanzieri, uomini di denaro, da Carli a Baffi a Visentini a Rovelli a Cefis poi abbandonato a favore di Sindona (ah, la mai trovata lista dei 500 privilegiati che scamparono al crac sindoniano...). Dal suo maestro Cicerone Scalfari ha preso, oltre al trombonismo e alla doppia morale, anche lo spudorato opportunismo. È stato, via via, fascista, azionista, liberale, radicale, repubblicano, socialista, comunista, democristiano demitiano. Non c’è stanza del Potere che non abbia bazzicato. Quando si accorse che la Lega di Bossi stava per prendere piede e sconvolgere il sistema di potere in cui era così ben incistato, Scalfari fondò una comica «Lega nazionale» che, scalzando quegli straccioni di leghisti, avrebbe dovuto provvedere, nientemeno, alla «gestione della Nazione... con una morale nuova, con gente credibile e non compromessa» (la Repubblica, 1° dicembre 1991). Più avanti creò, con Ferdinando Adornato, una Alleanza democratica che alle elezioni prese percentuali da albumina. Il fatto è che in politica (la sua grande e vera passione se intesa come Potere) Scalfari non ne ha mai azzeccata una. Nel 1959, già dimentico del massacro ungherese, pubblicò sull’Espresso un articolo dall’eloquente titolo «La Russia ha già vinto la grande sfida?», in cui profetava, con la consueta sicumera, che il sistema sovietico avrebbe prevalso su quello liberista americano, che, riletto oggi, ha effetti esilaranti e surreali, alla Bergonzoni. Ogni volta che ha dato il suo appoggio a qualcuno, si trattasse di Berlinguer o di De Mita, il suo si è trasformato in una sorta di «bacio della morte». Ma la vera, grave responsabilità di Scalfari è un’altra. È di essere stato il grande corruttore della coerenza intellettuale e morale dell’intelligencija del nostro paese. È lui che ha dato inizio alla pratica di scrivere una cosa e il mese dopo, una settimana dopo, il giorno dopo, a seconda delle circostanze, l’esatto opposto, senza batter ciglio. Il record lo raggiunse in un articolo su Craxi dove nella seconda parte smentiva la prima.
Una volta chiesi a Montanelli un giudizio su Eugenio Scalfari. «Non è dei nostri», rispose senza esitazione il grande Indro, intendendo dire che non è un giornalista. Il suo stile è orripilante: ciceroniano, «ore rotundo», privo di capacità di sintesi, involuto, avvocaticchio, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. E corrisponde perfettamente all’uomo. In un libro senile, Incontro con io, con ambizioni penosamente filosofiche, ha scritto: «Ho finalmente raggiunto la pienezza di me». Non osiamo immaginare, perché pieno di sé Scalfari lo è sempre stato. Parlando, come suole, ex cathedra, non ha mai rinunciato a impartire lezioni, soprattutto di morale; in particolare ai colleghi. Del suo giornale ha scritto: «La qualità culturale e morale di Repubblica non ha riscontro con nessun fenomeno analogo nel giornalismo italiano... i suoi lettori rappresentano il meglio della società». Questa boria incontrollata lo ha esposto anche a figuracce incresciose. Nel 1969, quando era deputato socialista, un vigile osò fargli una multa alla Stazione centrale di Milano perché aveva parcheggiato la macchina in sosta vietata. Lui esplose nel più classico e italico «Lei non sa chi sono io!» e gli scagliò contro L’Espresso dove il vigile figurava come l’emblema del potere arrogante e protervo e lui, Scalfari, come il cittadino inerme. Del resto una certa vocazione censoria questo campione della «libera stampa» l’ha sempre avuta. Quando nei sinistrorsi anni Sessanta Maurizio Costanzo invitò Montanelli al suo talk-show, attaccò il conduttore perché aveva dato la parola a «un fascista». Quando, negli stessi anni, gli extraparlamentari diedero l’assalto al Corriere cercando di impedirne l’uscita, plaudì all’iniziativa: «Questi giovani ci insegnano qualcosa (...)l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate (...)a nascondere le informazioni, a manipolare le opinioni pubbliche (...). Chi ama la libertà (...)non può che rallegrarsene» (L’Espresso, 21 aprile 1968).
Prototipo assoluto del radical-chic, con cuore a sinistra ma portafoglio ben sistemato a destra, e ostentato calzino lungo color panna come massimo dell’eleganza mentre lo è del kitsch. O per dirla con le parole di un insolitamente coraggioso Giorgio Bocca, «aveva un po’ di questa disinvoltura: esser di sinistra però esser sempre amico dei potenti». Scalfari ne ha fatto un’intera collezione con una particolare predilezione, lui che cominciò come impiegato di banca, per banchieri, finanzieri, uomini di denaro, da Carli a Baffi a Visentini a Rovelli a Cefis poi abbandonato a favore di Sindona (ah, la mai trovata lista dei 500 privilegiati che scamparono al crac sindoniano...). Dal suo maestro Cicerone Scalfari ha preso, oltre al trombonismo e alla doppia morale, anche lo spudorato opportunismo. È stato, via via, fascista, azionista, liberale, radicale, repubblicano, socialista, comunista, democristiano demitiano. Non c’è stanza del Potere che non abbia bazzicato. Quando si accorse che la Lega di Bossi stava per prendere piede e sconvolgere il sistema di potere in cui era così ben incistato, Scalfari fondò una comica «Lega nazionale» che, scalzando quegli straccioni di leghisti, avrebbe dovuto provvedere, nientemeno, alla «gestione della Nazione... con una morale nuova, con gente credibile e non compromessa» (la Repubblica, 1° dicembre 1991). Più avanti creò, con Ferdinando Adornato, una Alleanza democratica che alle elezioni prese percentuali da albumina. Il fatto è che in politica (la sua grande e vera passione se intesa come Potere) Scalfari non ne ha mai azzeccata una. Nel 1959, già dimentico del massacro ungherese, pubblicò sull’Espresso un articolo dall’eloquente titolo «La Russia ha già vinto la grande sfida?», in cui profetava, con la consueta sicumera, che il sistema sovietico avrebbe prevalso su quello liberista americano, che, riletto oggi, ha effetti esilaranti e surreali, alla Bergonzoni. Ogni volta che ha dato il suo appoggio a qualcuno, si trattasse di Berlinguer o di De Mita, il suo si è trasformato in una sorta di «bacio della morte». Ma la vera, grave responsabilità di Scalfari è un’altra. È di essere stato il grande corruttore della coerenza intellettuale e morale dell’intelligencija del nostro paese. È lui che ha dato inizio alla pratica di scrivere una cosa e il mese dopo, una settimana dopo, il giorno dopo, a seconda delle circostanze, l’esatto opposto, senza batter ciglio. Il record lo raggiunse in un articolo su Craxi dove nella seconda parte smentiva la prima.

(di Massimo Fini dal volume Senz'anima - Chiarelettere, pagg. 472, euro 15, in libreria da oggi)

martedì 4 maggio 2010

Non è la Lega ad aver ucciso l’amor patrio

Non prendetevela con la Lega se in Italia è scarso l’amor patrio e rischia di finire tra gli sbadigli il ricordo dell’unità nazionale. Cercavamo da decenni, anzi da secoli, la causa di questo scarso spirito patriottico ed ora l’abbiamo finalmente trovato: la colpa, anche retroattiva, era ed è di Calderoli.

Ma non è colpa della Lega se il Risorgimento fu cancellato dai programmi delle scuole ai tempi del governo Prodi, quando era ministro il compagno Berlinguer. Non è colpa della Lega se la tv, i giornali, la cultura del Paese istigano all’oblio nazionale, incensano gli anti-italiani, e importano mode e modelli stranieri.

Non è colpa della Lega se la globalizzazione ha indebolito ancor più la passione nazionale e l’Europa unita è stata considerata da molti italiani una buona via per liberarsi dall’identità nazionale. Non è colpa della Lega se i flussi d’immigrati sbiadiscono e diluiscono l’identità nazionale italiana. Non è colpa della Lega se appena parli di radici nazionali trovi uno storico, di sinistra, che grida al razzismo. Non è colpa della Lega se da decenni si combatte in Italia un guerra fredda di liberazione dall’Italia e quando Craxi lanciò il socialismo tricolore passò per un mezzo fascista. In passato quella guerra aveva i vessilli ideologici dell’internazionalismo, dei «proletari non hanno patria» e si accucciava sotto l’ombrello sovietico, cinese, sudamericano. Ma anche dall’altro versante non mancavano i patrioti delle patrie altrui, i filo-americani, per non dire i filo-svizzeri e i filo-britannici. Eravamo sempre filo qualcosa e qualcuno situato all’estero, mai filo-italiani. Non è colpa della Lega se per liberarsi dal patriottismo nazionalista e fascista, l’Italia repubblicana e antifascista buttò a mare prima il simbolo dinastico dell’unità, la monarchia (che poi si buttò via da sola); poi rimosse ogni tricolore e denigrò ogni simbolo di unità nazionale, ritenendo che amor patrio volesse dire amor del duce o della guerra. L’amor patrio fu dato in appalto ad Almirante. L’Italia fu dominata da partiti e ideologie i cui riferimenti ideali erano decisamente fuori dall’onda risorgimentale: comunisti, socialisti, extraparlamentari di sinistra, o anche cattolici pacifisti e umanitari, democristiani a bassa tensione nazionale. La ragion di partito prevalse sulla ragion d’Italia, l’ideologia sul patriottismo, la fazione sulla nazione. E ora ve la prendete con la Lega che non boicotta le rievocazioni nazionali ma se ne chiama fuori?

Ho dibattuto l’altro giorno in Rai con un professore che difende l’amor patrio dalla Lega e dai reazionari del governo e vede il Risorgimento come un aperitivo della resistenza; ma poi si è lasciato scappare che lui «ha la fortuna di vivere e insegnare all’estero». Ma come, professor Maurizio Viroli, vuol darci lezioni di amor patrio e poi dice che ha la fortuna, non la necessità, per ragioni di studio e opportunità di lavoro, no, «la fortuna» di stare all’estero? E il nemico sarebbe la Lega, che non l’ha certo mandata in esilio a Princeton perché filo-italiano... Ma mi faccia il piacere...

Per decenni abbiamo visto bandiere rosse al posto di tricolori, abbiamo sentito insulti e visto sputacchiare tutto ciò che evocasse l’amor patrio, abbiamo sentito ripeterci che siamo cittadini del mondo, e ora ve la prendete con i leghisti se gli italiani sono apatici e snazionalizzati? Ma non sono leghisti i “prof” che insegnano a denigrare il proprio Paese, a rimuovere bandiere, eventi e simboli della tradizione italiana, e disprezzano il suo premier, definendolo arcitaliano... Non è leghista la cultura neoilluminista che secerne ancora veleni su tutto ciò che è nazionale, bollandolo come provinciale, controriformista, oscurantista, antimoderno. Non è leghista la globalizzazione che ci fa sentire contemporanei prima che conterranei e ci rende figli del nostro tempo più che del nostro luogo; e vola sulle ali del mercato globale e della tecnica planetaria. Vuoi vedere che anche la Borsa, il capitalismo multinazionale e la tecnica sono effetti della Lega? Noto semmai il contrario. Se si parla da qualche tempo di identità nazionale e di amor patrio, in parte è dovuto proprio alla presenza della Lega, per due ragioni opposte e convergenti, che Dante direbbe per analogia e contrappasso: primo, per avversare la Lega e il suo separatismo, è sorto un flebile senso nazionale, che ha raggiunto perfino la sinistra e i circoli virtuosi del mondialismo; secondo, per superare il micropatriottismo della Lega, il nazionalismo padano, la critica al mondialismo e alle multinazionali, è stato rispolverato il vecchio bagaglio patriottico.

Ora non dirò che Bossi ha risvegliato l’amor patrio, e continuerò a criticare il padanesimo, ma dico che se oggi siamo immersi nell’oblio nazionale, nell’amnesia della memoria storica italiana, nella colonizzazione culturale, economica e di costume del Paese, le responsabilità possono essere di tanti, ma non della Lega. Perciò mi sembra pretestuoso insorgere indignati contro Calderoli, Bossi e compiere il gesto eroico di disertare dai comitati dei garanti dell’unità d’Italia contro un pericolo di lesa nazione che serpeggia da tutte le parti e da così tanto tempo. Lasciate stare l’amor patrio, ve ne siete sempre fregati e ora volete tirarlo fuori per attaccare il governo in carica. Nutro da sempre la sobria fierezza di essere italiano: ma davanti a questo spettacolino comincio a credere che avesse un po’ ragione chi riteneva il patriottismo l’ultimo rifugio dei falliti, dei disperati e dei disonesti.

(di Marcello Veneziani)

Il revisionismo? C’è quello buono e quello cattivo...

Il 28 aprile Stefania Craxi ha dichiarato: «Trascorso il 65° anniversario della liberazione, non vi è stato nessuno ad aver avuto il coraggio politico e l’onestà intellettuale di compiere un gesto simbolico e importante volto a restituire agli italiani la verità della loro storia: recarsi a Piazzale Loreto per un atto di cancellazione dell’atroce oltraggio inflitto al cadavere di Mussolini». Parole che avrebbero dovuto provocare interventi di politici e intellettuali, e che invece sono state confinate in un trafiletto anonimo sui quotidiani, a parte le accuse di provocazione e revisionismo. Eppure Stefania Craxi ha avuto il coraggio di ripetere quanto il revisionista per eccellenza, Giampaolo Pansa, mi disse in un’intervista sei anni fa: non potendo esistere alla fine di una guerra civile una «storia condivisa», vi sia almeno una «storia accettata» da ambo le parti, sicché Ciampi vada a deporre una corona di fiori a Piazzale Loreto come atto di conciliazione nazionale, sul luogo della oscena «macelleria messicana», come la definì Ferruccio Parri. La proposta cadde nel silenzio.

Affermare che non è vero che il 25 aprile è una ricorrenza nazionale fatta propria da tutti come vuole l’ufficialità, non è revisionismo revanscista ma semplice constatazione dei fatti. Una riconciliazione nazionale non può avvenire se non si riconoscono anche gli errori e gli orrori della fazione vincente oltre che di quella soccombente. Come si fa? Si prenda esempio da quanto è avvenuto nei giorni scorsi fra Russia e Polonia. Dopo 70 anni la Russia ha desecretato i documenti in cui Beria, il capo della NKVD, dava l’ordine di fucilare 25mila militari e civili polacchi. Dopo anni di negazioni ufficiali, la Russia ammette una verità che già da tempo era accertata. È così che si giunge a una riconciliazione fra due popoli.

In Italia un passo in questa direzione non è stato mai effettuato e nessuna ammissione «ufficiale» è stata fatta da parte dei politici nei confronti degli eccidi, accertati anche da sentenze, compiuti dai partigiani dopo il 25 aprile. Chi li documenta è uno sporco revisionista che infanga «l’onore della resistenza». Nei suoi alti discorsi il presidente Napolitano dice molte cose oneste, eccetto questa. Egli si reca sui luoghi di tanti eventi collegati alla guerra civile, eccetto su quelli che hanno avuto come martiri militari della RSI.
Questo non sarebbe revisionismo, termine che del resto non viene sempre respinto a priori si badi bene, ma accettato quando fa comodo. Infatti, siamo proprio sicuri che gli storici ortodossi siano aprioristicamente contrari a qualsiasi revisionismo in sé? Oppure che, al contrario, accettino il deprecabile revisionismo solo quando fa comodo?

Vediamo. Un primo esempio riguarda l’orrore delle foibe. Il dato inoppugnabile è che nei crepacci carsici vennero gettati migliaia di italiani, proprio perché italiani. È questa la storia accertata, l’«ortodossia». Chi vi si oppone con tesi giustificazioniste sia sul numero dei morti che sulle intenzioni di quella che fu una vera «pulizia etnica» anti-italiana, è dunque un «revisionista». Ad esempio, libri come Operazione foibe di Claudia Cermigoi (Kappa) o Foibe. Una storia d’Italia dello sloveno Joze Pirjevec (Einaudi). Ma questo è un revisionismo ben accetto dagli storici di sinistra.

Altro esempio. Una commissione di storici tedeschi dopo molti anni di indagini ha stabilito che i morti causati da tre giorni di incursioni dei bombardieri alleati su Dresda (13-15 febbraio 1945) non furono tra i 100 e i 250mila, come si era scritto sinora, ma «appena» 25mila. Cifra senza dubbio enorme, ma non come la precedente. La commissione ha frugato nelle anagrafi, nei registi cimiteriali, fra le testimonianze ecc., ma avrà calcolato il numero dei profughi tedeschi delle regioni orientali che si erano ammassati a Dresda e che nessun registro elencava? Non si sa, ma la nuova cifra è stata ben accetta dagli storici ortodossi, senza alcuna indignata accusa di revisionismo perché si basa su documenti e lava in parte l’onta dei bombardamenti terroristici ordinati dal maresciallo inglese Harris, “il Macellaio” Harris, per colpire deliberatamente la popolazione e fiaccarne il morale. Però, insulti e ostracismi si sono avuti nei confronti di Massimo Filippini che nei suoi vari libri sui fatti di Cefalonia, ha potuto dimostrare sulla base di documenti inediti, che i tedeschi non fucilarono migliaia di soldati italiani (almeno 9000 come si è sempre scritto), ma «solo» 250 ufficiali (tra cui suo padre) e che meno di 2mila furono invece i caduti italiani nella battaglia sull’isola contro la Wehrmacht dopo l’8 settembre. Questo invece sì, che è revisionismo «cattivo», perché fa cadere un mito.

Ovvia conclusione: non è il «revisionismo» in sé che fa straparlare certi politici e certi storici, ma solo quello che sconvolge la vulgata imposta dalla cultura della sinistra ortodossa (ma ormai anche da certa destra neo-antifascista). Invece, un altro tipo di «revisionismo» viene accettato senza problemi perché la rafforza, oppure edulcora eventi sino a quel momento indifendibili.

(di Gianfranco de Turris)

domenica 2 maggio 2010

La modernizzazione presto diventerà solo una parolaccia

In un editoriale sul Corriere della Sera Angelo Panebianco scrive che la sinistra accusa la destra «poco moderna». La destra fa lo stesso con la sinistra. Anche Fini dichiara di lavorare «per una destra moderna». E così via. Insomma, dice Panebianco, tutti vogliono attribuirsi «l’ambito trofeo della modernità». E, questo lo dico io, sono in prospettiva in totale controtempo.

La Modernità, che nasce con la Rivoluzione industriale, è infatti vecchia di due secoli e mezzo, secoli che hanno marciato a velocità vertiginosa. Non è più affatto moderna. O, per essere più precisi, non è più attuale.

È ovvio che liberalismo e marxismo nelle loro varie declinazioni, destra e sinistra, non possano mettere in discussione la Modernità, anzi se la contendano come vanto, perché dalla Modernità sono nate, in essa sono cresciute e si sono affermate.

In fondo destra e sinistra non sono che due facce della stessa medaglia. Figlie della Rivoluzione industriale sono entrambe illuministe, positiviste, ottimiste, materialiste, economiciste, entrambe hanno il mito del lavoro (per Marx è X «l’essenza del valore», per i liberal-liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso «plusvalore») e ritengono che industria e tecnologia produrranno una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente per i liberal-liberisti, la maggioranza di essi.

Questa utopia bifronte ha fallito. Innanzitutto sul piano esistenziale. In Europa i suicidi sono passati da 2,6 per 100mila abitanti del 1650 (epoca preindustriale) ai 6,9 del 1850 per arrivare oggi al 20 per 100mila abitanti. Decuplicati. Nevrosi e depressione sono malattie della Modernità.

Negli Stati Uniti 592 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci, il che vuol dire che nel Paese più ricco e potente del mondo più di un abitante su due non sta bene nella pelle in cui vive. L’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, il sempre crescente fenomeno della droga è sotto gli occhi di tutti.

Ma la Modernità sta fallendo anche sul cavallo su cui aveva puntato tutto: l’economia. La globalizzazione, partita anche’essa con la Rivoluzione industriale e giunta a piena maturazione in questi ultimi decenni con l’acquisizione al modello di sviluppo industriale di pressoché tutti i Paesi del mondo (quelli che non ci stanno li bombardiamo), ha creato un’integrazione tale che basta che un qualsiasi punto del sistema ceda per mettere a rischio tutto il resto.

Se crolla la Grecia crolla l’Unione Europea e, di lì a poco, crolla l’intera economia mondiale. Non solo. La Globalizzazione, che è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra Stati, passa per il massacro delle popolazioni del Primo e del Terzo Mondo.

Per restare a galla saremo tutti costretti a lavorare di più, a una velocità sempre crescente, accumulando così altro stress, disagio, angoscia, nevrosi, depressione, anomia. E se anche, a questi prezzi, un Paese si salva, ciò vorrà dire che altri precipiteranno nel baratro. Si creerà un gruppo minoritario di Paesi ricchissimi, ma con al loro interno drammatiche sperequazioni, come già oggi negli Stati Uniti, circondato da un mare di miseria. E il mare di miseria, alla fine, travolgerà tutto.

Fra vent’anni, se l’attuale modello di sviluppo non sarà già imploso, «modernizzazione» sarà una parolaccia. Ma destra e sinistra, troppo interne al meccanismo che le ha espresse, non sono in grado di capirlo.

(di Massimo Fini)

sabato 1 maggio 2010

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Ecco il Mostro. Sporco, indecente, nel pensare, nello scrivere e nel vivere. La lurida grandezza di Céline in tutto il suo splendore che poi coincide con la pienezza del suo squallore, ritratta in sette pose. Sette interviste nell’arco di un quindicennio sul viale del tramonto, dal dopoguerra alla sua morte, tornano in libreria sotto il titolo di Polemiche (Guanda, pagg. 120, euro 12,50).

Si avvicina il mezzo secolo della sua morte, ma non si allontanano le maledizioni sull’opera di Louis-Ferdinand Destouches, medico che diventò in arte Céline. Maledetto per il suo maledettismo, imperdonabile per le sue filippiche contro gli ebrei, i borghesi, i capitalisti. Non amo Céline, non sono un suo cultore, i suoi pamphlet irriverenti mi irritano, a cominciare da Bagattelle per un massacro e così la sua prosa intermittente e merdace, con tutti quei punti sospensivi; non ho mai scritto nulla su di lui e sulle sue opere. E ancor meno amo i celiniani, anzi detesto i manieristi del turpiloquio che traggono nobiltà e ispirazione da lui; non sopporto il rococò del triviale degli ultimi suoi emuli. Però, c’è della grandezza autentica nella sua scrittura, nel personaggio, nella sua vita. C’è della purezza nella sua impurità, e del genio nel suo delirio. Céline ha penetrato come pochi negli abissi della condizione umana, perduta a Dio e alla dignità, abbandonata nelle fogne oscure della vita. Uno dei rari scrittori che ha passione di verità e genuino desiderio di far combaciare la parola alla vita e alla verità più nuda e cruda. Così il suo stile riflette la sua passione di verità, tragica e brutale.

Quel vivere ai confini della morte, alla ricerca di emozioni estreme e grottesche, quello scrivere sulla soglia dell’invettiva, tra la parola e il vomito. Fu un medico valoroso, Céline, e un soldato valoroso, prima d’essere quel grande scrittore che fu. E pagò con quattordici mesi di duro carcere le sue parole di fuoco sugli ebrei e sul mondo; fu accusato di essere collaborazionista ma non aveva mai collaborato con nessuno, non aveva scritto per le riviste filo-naziste, era stato messo al bando nella Germania nazista, come arte degenerata, mentre dicevano che piacesse a Stalin. Viveva da barbone, in Danimarca e poi in Francia, in guerra contro il mondo. A condannarlo furono anche intellettuali che magari avevano trescato col nazismo. Come Sartre, che prima di collaborare con il comunismo e chiudere un occhio sui suoi orrori, aveva scritto anche per riviste collaborazioniste; ma alla fine il dannato fu lui, Céline. Io non vorrei dire, ma gli unici intellettuali che hanno pagato di persona le loro idee o anche i loro deliri, sono stati i Céline, i Pound, i Brasillach, i Gentile, i Pericle Ducati, i Borsani, i Carl Schmitt, gli Hamsun e si potrebbe ancora continuare. Epurati, a volte condannati a morte, o segregati in carcere, umiliati in gabbie, considerati peggio che bestie. Ed erano fior di scrittori, a volte anche generosi e grandi nella loro umanità, oltre che nei loro errori. La stessa cosa non avvenne invece per gli intellettuali che sostennero il comunismo, Stalin e Mao, Ho Chi Minh e Castro. Alcune idee si pagano, altre sono gratuite, se non addirittura ben pagate. Si vede che sono idee più grandi, più esigenti, diranno a propria consolazione i maledetti...

Céline fa parte di quell’universo di intellettuali dannati per uso di parola; ma lui restò un caso a sé, anarchico, disperatamente solo, non inscrivibile in nessun partito e in nessuna ideologia. Detestando i capitalisti e amando i poveri, Céline a volte dà l’impressione di essere un comunistoide, come lui stesso dice. Nella sua bella introduzione, Ernesto Ferrero ricorda che Céline fu difeso dal movimento nazionale ebreo, fu detestato dai nazisti che proibirono i suoi libri, ed egli stesso scrisse invettive contro Petain e contro Hitler paragonandolo a un clown pervaso di «satanismo wagneriano», fu il meno tedescofilo degli scrittori francesi e si tenne sempre in disparte. Una volta disse che gli ebrei sono i padri della nostra civiltà, e «si maledice sempre il proprio padre».

Queste interviste offrono lo spettacolo della solitudine creativa di Céline, la follia e la lucidità che si accavallano, insieme con la grazia e la ferocia. La tenerezza inerme si affaccia a volte nel suo aspro inveire: quando ad esempio parla di sua madre e del suo nome d’arte tratto da lei per difendere la sua professione di medico; o quando parla della sua solitudine, della povertà, del suo gatto, della sua ritrosia a farsi fotografare («una foto è una pietra tombale») e del suo scrivere per campare... Ma poi riprende la vis polemica e il turpiloquio quando inveisce contro le cricche del potere, contro chi commercia e specula sulle idee e sulla pelle di altri, contro i riveriti padroni della letteratura, contro la Chiesa «grande ibridatrice e ruffiana». «Le civiltà finiscono con le donne, le frasi e i profumi»; «Parigi è il buco di culo del mondo. I francesi hanno coltivato la gioia di vivere». «La mia colpa? Aver detto sempre la mia verità, senza barare». La mia verità, dice Céline, non la verità, ha questa disarmante franchezza, questa libertaria modestia, estranea agli intolleranti. Queste interviste descrivono anche il disfacimento del suo corpo, il suo declino, le sue spalle che si curvano e sprofondano la sua testa tra i lunghi capelli e il collo torto. Resta una fronte spaziosa e uno sguardo ingenuo e profetico che invoca attenzione e sprigiona magìa. Un volto che racconta le ferite della sua genialità nella disfatta di una vita al termine della notte. Céline, il rigurgito della verità.

(di Marcello Veneziani)