martedì 8 giugno 2010

Negazionisti d'Italia

Sfatti gli italiani, non resta che negare l’esistenza dell’Italia. E così alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità si fa largo una nuova vulgata anti risorgimentale. Una cosa a metà tra il negazionismo truculento alla Beppe Grillo – “L’Unità d’Italia? Non c’è mai stata perché non c’è mai stata l’Italia” – e la bravata facile da moviola televisiva del calciatore azzurro Claudio Marchisio, il quale avrebbe sfregiato l’inno declamando “schiava di Roma ladrona” (ma noi ancora ci illudiamo non sia vero). La Lega c’entra e non c’entra: dopotutto, per italianizzarla definitivamente, basterebbe che governasse un po’ più da Roma come fa Roberto Maroni e un po’ meno in periferia.
Né si può pensare che i negazionisti e i bravacci d’oggi siano il prodotto della pubblicistica anti unitaria più o meno clandestina. Chiaro che il Risorgimento non è stato un pranzo di gala, come non lo è stato il suo ultimo e trionfale atto (la Grande guerra) e come non potrebbe mai essere irenico e indolore alcun giro di ruota nella storia di una patria da riconquistare. Ma questo è già un tema molto alto e al limite della rarefazione, chiama in causa le rivoluzioni fallite su cui s’interrogarono Vincenzo Cuoco e Antonio Gramsci, evoca il senso di un percorso nazionale semmai da perfezionare, non certo da rimuovere come un tatuaggio malriuscito o da irridere con la battuta sconcia. Allora di che stiamo parlando, quando ci prendiamo in carico i beppegrillismi di ritorno e un certo analfabetismo anti patriottico?
Di un’inerzia selvaggia che ha preso domicilio nella terra di nessuno posta tra una retorica e l’altra. La retorica dell’antico, irrefutabile primato civile e morale dell’Italia e la retorica dell’autodenigrazione di cui siamo maestri cantori invincibili, ma che è pur sempre il lascito di una grandezza rimpianta. Tra questi fronti inconsciamente solidali è spuntata una striscia di sabbia, una bava desertica nella quale il pensiero abdica alla visceralità coatta. E’ qui che germogliano soltanto pulsioni istintuali, qui si obbedisce all’impersonalità più convenzionale, alla moda perfino. Ecco, la parola chiave è forse “moda”: Beppe Grillo e Claudio Marchisio (ma noi ancora ci illudiamo che lui sia innocente) credono forse di omaggiare un canone estetico, assecondano il disprezzo o la fraudolenza anti italiana che di questi tempi è così agevole indossare, si sentono in linea con i gusti del momento, con ciò che fa tendenza.
La rinuncia all’autonomia del giudizio fa sempre tendenza. E’ spiacevole. Ma non è un frutto italico, è un prodotto d’importazione. Uno scienziato pitagorico, Enrico Caporali, durante la Prima guerra mondiale esortava così: “L’indipendenza di una nazione ha la sua base nella indipendenza del pensiero che plasma il carattere e dirige la volontà. L’Italia (…) bisogna che rievochi la sua tradizione, che sviluppi il suo carattere, il suo genio originale Etrusco-Latino, ridiventando Maestra di Verità e di Giustizia. Amor ci mosse che ci fa parlare”. Questo è Dante, il resto è moda e passerà di moda.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 7 giugno 2010

Ecco perché la speculazione attacca gli Stati


«Le grandi banche internazionali hanno ormai l'imperativo categorico di non comprare titoli di stato del Sud Europa. E questa non è una decisione dei singoli operatori, ma dei gestori dei rischi delle banche». Il trader di un istituto internazionale, anonimamente, sembra quasi giustificarsi: non posso più aumentare la mia esposizione sui titoli di stato spagnoli, greci, portoghesi e italiani – dice in sostanza –, perché non me lo permettono i risk manager. Dalla sua postazione di trading, tre computer davanti agli occhi e telefono sempre attivo, è un testimone oculare di quello che accade sul mercato. «Vedo vendite sui titoli di stato del Sud Europa in arrivo dalla Cina», afferma. «E vedo pochi compratori», aggiunge. «Ormai il mercato è così ingessato, che ad acquistare titoli italiani sono solo le banche italiane», conclude.

Sul mercato di tutta Europa (non solo in Italia) c'è la bufera. Ieri i BTp sono arrivati a offrire tassi d'interesse di 1,70 punti percentuali più alti rispetto ai Bund tedeschi. Questo significa che il Tesoro italiano, per trovare investitori disposti a comprare il suo debito, deve pagare tassi d'interesse quasi due punti percentuali più alti del Tesoro tedesco. Non si era mai visto dai tempi della vecchia lira. Ma cosa sta succedendo? Chi sta colpendo l'Europa? Se si pone questa domanda agli esperti, si ricevono decine di risposte diverse. Probabilmente c'è una tale concomitanza di fattori, che le spiegazioni di questa bufera sono tante. Per capirle, però, bisogna partire dalla causa: quello che accade ora è diretta conseguenza di una "bolla" che nessuno ha mai notato mentre si gonfiava. Quella dei titoli di stato.

Lo chiamavano rischio zero

I titoli di stato europei sono sempre stati considerati a zero rischio. Almeno dopo la nascita dell'euro. E così le banche li hanno sempre comprati a piene mani. Le stesse regole di «Basilea 2» hanno sempre incentivato gli acquisti, dato che i titoli di stato non comportano alcun sacrificio di capitale regolamentare. Insomma: se prestare soldi a imprese o famiglie per le banche è sempre stato un costo in termini di capitale, prestare soldi agli stati non lo è mai stato. Praticamente non ci sono mai stati limiti.

Nel 2009 gli acquisti hanno raggiunto l'apoteosi. Dato che la Bce prestava loro tutta la liquidità possibile e immaginabile al tasso fisso dell'1%, le banche hanno pensato bene di guadagnarci sopra. Come? Comprando titoli che avessero rendimenti più elevati dell'1% e che avessero "bassi" rischi: cioè i titoli di stato. Il giochino, chiamato carry trade, era semplice: prendevano in prestito soldi alla Bce pagando l'1% e li investivano in titoli con rendimenti maggiori. E per guadagnarci ancora di più, compravano a piene mani soprattutto i bond dei Paesi che allora offrivano rendimenti «interessanti» e che oggi – ironia delle sorte – le stesse banche chiamano Pigs. Maiali.

Se la pancia è troppo piena

Così hanno fatto indigestione. Secondo i calcoli di Rbs, oggi gli investitori internazionali hanno in portafoglio 1.418 miliardi di titoli di Stato di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. Il problema è nato quando la crisi della Grecia ha magicamente trasformato questa montagna di «rischio zero» in qualcosa di potenzialmente rischioso. E i motivi, effettivamente, ci sono. La Grecia, secondo i calcoli del Fondo monetario, passerà per esempio da un rapporto tra debito e Pil del 115% nel 2009 a una percentuale quasi del 150% nel 2013. Ovvio che gli investitori non ripongano grande fiducia nel suo salvataggio: come potrà la Grecia tornare a finanziarsi sul mercato nei prossimi anni, se la sua situazione sarà addirittura peggiorata? «Il mercato – spiega l'economista di Rbs Silvio Peruzzo – crede che nei prossimi anni il rischio di default sarà maggiore». Dalla Grecia, gli occhi si sono poi spostati sugli altri Paesi ritenuti più deboli. Facendo, nel panico, di tutta l'erba un fascio. Prima viene l'Irlanda. Poi il Portogallo. Poi la Spagna. E poi? Sebbene sia da tutti ritenuta più forte, nella lista c'è anche l'Italia. La sfiducia si autoalimenta col panico.

La fuga

Appena si è iniziato a capire che il vento sui titoli di stato europei stava cambiando, ovviamente la speculazione ha cambiato verso: prima era di moda comprare, poi è diventato di moda vendere. E il gioco in questi casi è come nel West: il pistolero più veloce è quello che vince. È così iniziata la corsa ad alleggerire le posizioni sui titoli di stato. Chi per specularci, chi per prudenza, chi per coprirsi dai rischi. Chi per precise strategie d'investimento. «Io credo che sia partita prima la speculazione – spiega l'ex numero uno europeo di Lehman Riccardo Banchetti, oggi capo di Pactum Advisers –: sono stati gli hedge fund a rendersi conto per primi che c'era l'opportunità di far pagare agli stati gli errori del passato. Poi sono iniziate le vendite per motivi di copertura dei rischi».

Il resto è cronaca attuale. I risk manager delle banche internazionali hanno bloccato gli acquisti di titoli di stato e hanno ordinato la copertura dei rischi sul mercato dei credit default swap: ecco perché le quotazioni di queste polizze sono più allarmistiche di quelle dei bond. Gli investitori esteri (come i cinesi) hanno iniziato a vendere, anche per alleggerire le loro posizioni sull'euro. Tante banche retail li hanno seguiti, per prudenza. E la crisi si avvita. Così il mercato è diventato illiquido: le vendite sono ora forse minori, ma la volatilità è alle stelle. Basta una voce o una qualunque indiscrezione per far aumentare la bufera. Sarà un complotto, sarà panico, sarà speculazione: sta di fatto che i nodi di una bolla che nessuno voleva vedere stanno venendo al pettine.

(di Morya Longo)

domenica 6 giugno 2010

Santo subito

La Rai ha tagliato il numero di puntate, da quattro a due, che Roberto Saviano, con Fabio Fazio, avrebbe dovuto condurre sulla Rete 1. Le proteste sono state immediate e bipartisan. Hanno protestato il Pd e l’Idv. Sono partite interrogazioni parlamentari. Leoluca Orlando ha maltrattato Mauro Masi, direttore della Rai, che l’ha querelato. Ma non ha protestato solo la sinistra. Anche a destra si sono levate voci fortemente critiche contro l’azienda di Stato.

“Farefuturo”, la fondazione di Gianfranco Fini, ha usato parole forti e ha accusato la Rai di preferire “nani e ballerine” allo scrittore impegnato in prima linea contro la camorra. Il presidente della Camera è forse la personalità pubblica che più si è spesa negli ultimi tempi a tutela di Saviano.

Quando poche settimane fa Emilio Fede lo attaccò, un mese dopo le parole pesanti che sull’autore di Gomorra aveva scagliato Silvio Berlusconi che lo aveva accusato assieme agli autori della “Piovra” di aver danneggiato l’immagine internazionale dell’Italia, fu proprio Gianfranco Fini a riceverlo a Montecitorio per indicare in lui il campione della lotta contro la criminalità organizzata. Ed è proprio la difesa strenua di Saviano a sollevare sospetti su un ritorno giustizialista dell’ex capo di An nei circoli del Pdl più vicini al premier. Ma nella destra anche altre voci si sono levate a difesa dello scrittore casertano. Contro Fede ha scritto su Libero Filippo Facci, raccogliendo numerosi consensi.

C’è una destra che ama Saviano. A dicembre dello scorso anno, uno dei giornalisti più colti e inquieti di quell’area, Pierangelo Buttafuoco pubblicò su Panorama una lunga e bella intervista che fornì importanti squarci di luce sulla cultura dello scrittore e sulle sue passioni politiche. Riletta oggi spiega tante cose e tante simpatie. Malgrado i numerosi appelli aperti dal suo nome Saviano sostenne: «Io non sono un firmaiolo, non ho mai inteso la mia lotta come una lotta di parte». Dopo un elogio a Maroni («il miglior ministro degli Interni che abbiamo mai avuto») accomunò centro-sinistra e centro-destra nella critica di acquiescenza nei confronti del fenomeno mafioso. Del centro-sinistra disse che «ha responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali. Le due regioni con più comuni sciolti per mafia sono Campania e Calabria. E chi le ha amministrate in questi ultimi 12 anni? Il centro-sinistra».

Da qui l’elogio di alcuni settori della destra: «È un errore far diventare la battaglia antimafia una battaglia di parte… Io ho sempre detto, ribadito e sottolineato l’impegno di tanti uomini della destra nella lotta alla mafia. Non solo uomini come Borsellino, ma anche militanti comuni». L’elogio di Borsellino e del giornalista di destra Alfano, ucciso dalle cosche, si aggiungeva a una riflessione più profonda attorno ai debiti culturali che Saviano aveva contratto con quell’area politica. La frase che fece più scalpore e che creò la suggestione di un Saviano uomo di destra fu un'altra: «Come scrittore mi sono formato su molti autori riconosciuti dalla cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Junger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmidt. E non mi sogno di rinnegarlo. Leggo spesso persino Julius Evola». Queste frasi entusiasmarono la destra, soprattutto quella legata all’ex An, che lesse in quelle posizione un riconoscimento culturale e morale prezioso e coltivò la speranza, forse, in una più netto avvicinamento di Saviano.

In questo stesso periodo l’autore di Gomorra è stato tuttavia anche al centro della scena in tutte le battaglia antiberlusconiane, anche se l’autore ha sempre negato di avere pregiudiziali verso il premier, in cui si è trattato di difendere la Costituzione e la libertà di stampa dalle iniziative del presidente del Consiglio. Repubblica ne ha fatto un’icona. È stata la sua firma a dare l’avvio alle battaglie più clamorose che hanno raccolto centinaia di migliaia di adesioni. I movimenti di massa, a cominciare dal “popolo viola”, che hanno fronteggiato l’aggressività berlusconiana a lui si sono ispirati. Il Pd ha sognato più volte di portarlo dalla propria parte eleggendolo in parlamento o proponendogli la candidatura per la presidenza della Regione Campania. Forse era a lui che pensava Ezio Mauro, dopo le ultime elezioni, quando scrisse che il centro-sinistra avrebbe dovuto accantonare tutti i suoi leader per pensare a un “papa straniero”.

Saviano è riuscito a tenersi fuori da tutti i canti di sirene. Forse è oggi il personaggio pubblico che ha preso il posto di alcuni miti della lotta alla mafia come Giovanni Falcone. Tutto ciò dipende dalle cose che scrive, dalla nettezza e dal coraggio delle sue denunce, dalla sobrietà con cui accetta la difficile condizione di uomo costretto a difendersi dagli agguati di camorra, da questa faccia magra e severa, quasi sempre priva di sorriso che accompagna i suoi ragionamenti frasi limpidi e tranquilli anche nel momento della denuncia più bruciante. Anche a sinistra molti non lo amano. Un sociologo di chiara fama, Alessandro Dal Lago, ha scritto un libretto, che è piaciuto al manifesto, in cui critica il fenomeno Saviano e lo considera alla stregua di tante espressioni della cultura mediatica odierna.

La verità è che nessuno sa chi sia davvero Saviano. Sappiamo però che è il personaggio pubblico più trasversale che ci sia, nel consenso e nell’ostracismo. Forse esprime la voglia di tanta parte anche della gente comune di riconoscersi in personaggi-simbolo che rompano lo schema destra-sinistra. Saviano, in verità, non fa nulla per creare attorno a sé suggestioni di anti-politica. Il grillismo è la cosa che gli è più lontana. Vive persino con fastidio questa vasta popolarità che è anche il segno di una scelta di vita abituata a sfidare il pericolo. Oggi è l’italiano più famoso all’estero, ma anche il più odiato in patria per le amare verità che racconta. C’è un fenomeno attorno a lui che risulta inspiegabile agli apologeti e ai critici più incattiviti. Un fenomeno che, a differenza di quello che pensa Dal Lago, sta scavando in profondità ben oltre le sue dimensioni mediatiche.

(di Peppino Caldarola)

Appello alla destra: non spegnete Rai3. E non regalate martiri alla sinistra

Se rispettate la libertà ma soprattutto la vostra intelligenza, non tagliate dalla Rai Saviano, Fazio, la Dandini, Bertolino e chi volete voi. Non commettete questa ennesima sciocchezza. Non regalate alibi a nessuno né martiri alla causa o simboli a chi detestate. Entrate nell’ordine (penoso) delle idee che in Italia la libertà e la democrazia si traducono con spartizione della Rai e lottizzazione delle reti per aree politiche. E allora lasciate Raitre in mano alle opposizioni, alle sinistre e ai gendarmi dipietristi. E lasciate a loro persino di decidere se preferiscono accettare l’ingerenza dei giudici nel palinsesto e negli organigrammi e reintegrare Ruffini alla guida di Raitre o se tenersi Di Bella. Che si scornino tra loro, dipietristi e margherite, dalemiani e veltroniani. Masi intervenga solo se i programmi costano troppo e rendono poco, soprattutto in ascolti; o se qualcuno compie scorrettezze penalmente rilevanti. E basta.

Sì, è vero, li pagano anche con i nostri soldi, ma pretendete che tra le merci televisive esposte ce ne siano almeno alcune di vostro gradimento, anziché pensare di eliminare quelle che piacciono ad altri. Assodato che in Rai non ci possono essere programmi che hanno il consenso di tutti, nemmeno le previsioni meteo, accontentatevi di pretendere la vostra fetta.

Anzi, visto lo sciame sismico di Santoro, che dopo il movimento sussultorio per il costoso addio alla Rai è passato al movimento ondulatorio perché non si sa se resta o va via e ondeggia, è il momento buono per rispedirlo su Raitre. Non si può tradire l’identità di una rete offrendo un programma che cozza con la linea editoriale e diciamo pure politica di Raidue. E se s’indignano, prospettate loro la soluzione simmetrica: Paragone, Sallusti o Belpietro su Raitre in cambio di Santoro, Floris o chi volete voi su Raidue. Ci state? Sarebbero corpi estranei.

Raitre è loro, Raidue è vostra, Raiuno muta con i governi. È brutto ma è così. Lasciate che tornino su Raitre tutti i veri o presunti epurati: da Ruffini alla Guzzanti, da Luttazzi a Rossi, da Travaglio a Crozza, fino a Beppe Grillo. Che se la sbattano loro di dirimere la controversia di far coabitare Santoro e Floris come Ruffini e Di Bella, più la marea di comici. Scegliete voi, commissari politici di Raitre, o mandateli tutti in onda in una non-stop di direttori, conduttori, animatori, cortei, forche e cotillons. Libertà. Gli italiani sanno distinguere almeno il vino dall’aceto o dalla birra, e il vino rosso dal vino bianco; e sanno che su quella rete troveranno quei programmi con quella precisa linea, quei toni, quegli attacchi. Libertà, lasciate libertà. Se non credete che sia giusto, accontentatevi di pensare che è più conveniente, o meno dannoso, se preferite.

Follia doppia sarebbe poi regalare Saviano al martirologio di sinistra, attraverso la censura o il mezzo taglio. Avete visto come Saviano viene attaccato anche da sinistra, sappiate distinguere in lui la scuderia di Repubblica dalle sue opinioni, spesso rispettabili; e la strumentalizzazione che ne fanno, spesso con il suo consenso, dai suoi testi che non pendono a sinistra. Non condannate il suo coraggio nel nome del teatrino che si ricama sopra, non cancellate la drammaticità delle sue denunce con lo sfruttamento commerciale e un po’ vanesio che Saviano stesso ne fa. Su di lui ripeto due obiezioni: non si può ridurre il sud intero a malavita e non si può rappresentare l’Italia nel mondo solo con le sue opere e i film tratti dai suoi libri. Nessuna censura, preferirei solo che Gomorra fosse proiettato a scopo educativo a Scampia o tra i casalesi, piuttosto che a Hollywood come unico ritratto italiano.

So bene che Saviano in video verrà usato in chiave antigovernativa, tramite l’untuoso precettore Fazio. Ma l’effetto si disinnesca se Saviano diventa un personaggio positivo anche per l’altra Italia, invitato anche su altre reti; se si ricordano alcune sue idee tutt’altro che sinistre e se si evita di farne un martire della Rai governativa, che così apparirebbe - per una perversa proprietà transitiva - il braccio armato della camorra. Sapete bene che sul piano politico il miglior argomento da opporre al savianesimo sono i fatti: dite quel che volete, teorizzate quel che vi pare, indignatevi pure, ma resta il fatto che in questi due anni si è colpita la camorra e la mafia come non era accaduto con nessuno dei precedenti governi: tra arresti, confische di beni, controllo di settori inquinati. È ancora poco, ma è tanto se lo paragonate ai precedenti. Lo dice pure Saviano.

La richiesta di cancellare dai palinsesti la carovana della sinistra televisiva non nasce da pulsione autoritaria ma infantile. Non c’è il furore giacobino che alberga dalla parte opposta, non c’è la negazione dell’avversario alla radice, il suo disprezzo integrale, tipico della sinistra illibertaria e dei suoi alleati questurini. Ma c’è dilettantismo ritorsivo, c’è infantilismo politico, con punte di rozzezza naive. C’è un’indole infantile che porta taluni a non voler sentire critiche, pur distorte, o chi prende in giro i suoi. E invece ci vorrebbe pazienza e saggezza, condita di piccola furbizia d’estrazione curiale, democristiana e volpino-liberale. Ma soprattutto ci vorrebbe una «destra» adulta che sappia accettare le critiche anche velenose e ingiuste, sappia circoscriverne la portata e misurare il modesto effetto che ne consegue, e sappia pensare in positivo rispondendo con i fatti o con opinioni opposte. Costruite programmi omeopatici su Raidue, chiamate chi volete voi, senza remore e timori, una volta accettati in video i telemilitanti della videosinistra. Via, siate più sicuri di voi e delle vostre idee, e fate anziché disfare, avanzate voi anziché fermare gli altri, procreate voi anziché curarvi degli aborti altrui. Su, non fate i bambini.

(di Marcello Veneziani)

sabato 5 giugno 2010

I silenzi e le ambiguità dell’onorevole Di Pietro


Non è vero che la stampa sia sempre cattiva con lui. Lo scorso 17 maggio Antonio Di Pietro era uscito dalla procura di Firenze dirigendosi con piglio sicuro verso piazza della Repubblica, dove troneggiava e fumava un finto reattore nucleare di cartapesta, propedeutico alla raccolta di firme dell’Italia dei valori per un referendum sul tema. Tra applausi, cori e foto ricordo con i suoi sostenitori, l’ex pubblico ministero si era definito un «teste d’accusa».

Di Pietro disse che aveva spontaneamente scelto di mettere a disposizione degli ex colleghi la sua esperienza di investigatore. I magistrati che seguono l’inchiesta sugli appalti per le Grandi Opere l’avevano convocato come persona informata sui fatti, invece, con tanto di apposito decreto di notifica. C’è differenza.

Quel giorno il dettaglio era diventato una nota a margine, le cose che contano in fondo sono altre. Un peccato veniale. Giocare con le parole, dire e non dire, abbellire la realtà, è tutto lecito. Solo che spesso Antonio Di Pietro trasforma le sue piccole furbizie in metodo. Non risponde, non del tutto almeno, oppure parla d’altro, evocando complotti e mandanti occulti. Altre volte, semplicemente, tace. E non si accorge che così facendo fa il gioco dei suoi detrattori, una legione sempre più numerosa. Vecchia storia, questa delle sparate che si mischiano a silenzi e a repliche invece puntuali. Ancora attuale, però. L’approccio mediatico rimane invariato nel corso del tempo, e non accenna a migliorare, dando così un indubbio contributo alla genesi di leggende metropolitane che riguardano anche su dettagli non proprio fondamentali nella complessa biografia dell’onorevole. Ad anni alterni torna fuori, tra dubbi e ironie, il suo personale tour de force per laurearsi in Legge alla Statale di Milano. La tesi venne discussa nel 1978, il giovane Di Pietro ci arrivò sostenendo 22 esami in 32 mesi, compresi «mattoni» quali diritto privato, pubblico, amministrativo. L’istituto di presidenza della facoltà confermò a suo tempo che tutto era in regola. Ma le illazioni, falsità di vario genere, sono proseguite, nel silenzio del diretto interessato, al quale basterebbe poco per mettere a cuccia i detrattori.

Di Pietro, è un dovere ricordarlo, ha sempre vinto in tribunale, su questioni ben più importanti dei propri titoli di studio. «Non luogo a procedere», quindi prosciolto prima di un eventuale processo da accuse anche infamanti come quella di concussione, generata dall’inchiesta- monstre del Gico di Firenze. Quella brutta storia poggiava su un tema ricorrente della sua vita, il contrasto tra l’azione pubblica, del magistrato prima e del politico poi, con una condotta privata spesso pasticciata, non priva di ambiguità e zone d’ombra. A metterlo su quella graticola furono le sue relazioni con l’avvocato Giuseppe Lucibello e l’amico costruttore Antonio D’Adamo i quali a loro volta intrattenevano— questa era l’ipotesi di accusa—affari con il finanziere Pacini Battaglia. La rilevanza penale dell’intreccio era pari a zero, ma le personalità pubbliche non si giudicano solo dal proprio casellario giudiziale. Proprio per questo, l’alone di mistero che grava su alcuni punti della biografia dell’ex magistrato nuoce non solo a lui,ma anche alle sue opere. «Vogliono infangare Mani Pulite» ripete ogni qual volta vengono pubblicati articoli che riesumano i suoi molto presunti legami con i servizi segreti italiani e americani. Può essere. Ma certi silenzi, come quello sulla surreale vacanza alle Seychelles durante la quale l’allora neo magistrato scrisse un dossier di 172 pagine su Francesco Pazienza che poi finì nelle mani dei servizi segreti italiani, non aiutano. E neppure certe dimenticanze sui viaggi americani, ultimo in ordine di tempo quello fatto in compagnia dell’ex amico Mario Di Domenico. Dopo la recente pubblicazione di una sua foto che lo ritraeva con il dirigente del Sisde Bruno Contrada, il Corriere lo invitò a un confronto sul tema. Risposta non pervenuta. Sono dettagli, omissioni probabilmente ininfluenti. Ma portano ramoscelli da ardere a chi sostiene l’inverosimile tesi che Mani Pulite sia stata guidata a tavolino dall’intelligence Usa. Creano un danno ad una pagina importante della storia italiana, comunque la si giudichi, della quale Di Pietro è giustamente orgoglioso.

Possibile che i suoi ultimi impicci siano il frutto dei rancori di vecchi amici. Ma è lui a sceglierseli, i compagni di viaggio. E con molti di essi, da Elio Veltri a Di Domenico, finisce quasi sempre male, all’insegna della reciproca incomprensione. Nel primo caso si tratta di una querelle sui rimborsi elettorali delle Europee, che secondo Veltri sarebbero stati gestiti in modo privato. Nell’altro, l’accusa di un uso «non associativo» dei soldi del partito apre la strada a illazioni sulla passione immobiliare di Di Pietro, con proprietà che vanno da Curno alla Bulgaria. In questo campo l’attività è frenetica. Tra il 2002 e il 2008 l’ex pm ha speso 4 milioni di euro nella compravendita di nove case, tutte passate sotto l’ombrello della An.To.Cri. La sigla è l’acronimo di Anna, Toto e Cristiano, i suoi tre figli. Si tratta della società di famiglia, dalla quale Di Pietro, nella veste di presidente dell’Idv, ha preso in affitto alcuni immobili per conto del partito. Nulla di compromettente, lo ha stabilito una inchiesta della procura di Roma, che ha archiviato ogni denuncia. Ma anche qui, alcuni comportamenti, come l’acquisto di case tramite prestanome, o di immobili «proibiti» per legge ai parlamentari in carica, lasciano il fianco scoperto alle critiche di chi afferma che il paladino della questione morale dovrebbe agire con meno disinvoltura nei suoi interessi privati.

Paolo Flores D’Arcais sostiene da tempo che un certo modo di fare «democristiano» si sia impossessato del fondatore dell’Idv. Nel settembre 2009 Micromega, giornale diretto dal filosofo romano, pubblicò una inchiesta sul partito dell’ex magistrato. «C’è del marcio in Danimarca» era il titolo, e quel che seguiva era anche peggio. Il capostipite degli impresentabili, ovvero quel Sergio De Gregorio scelto da Di Pietro come capolista in Campania per le politiche del 2006, il voltafaccia con annesso passaggio al centrodestra fu velocissimo, veniva appena nominato. Acqua passata. Piuttosto, in 40 pagine di testo veniva fatta una radiografia completa sulla vena «inciucista e politicante» che permeava l’Idv, facendo nomi e cognomi dei riciclati presi a bordo. Dai transfughi dell’Udeur a quelli di Forza Italia, passando per il capo della Campania Nello Formisano, «che insieme all’ex dc potentino Felice Belisario ha riempito il partito delle mani pulite di faccendieri e arrivisti, in larga misura di provenienza democristiana». Una mazzata, che fece scalpore ma generò un dibattito che lo stesso Flores giudica «sterile e improduttivo ». E la promessa di chiarire tutto— dice in una intervista a La Stampa—si è rivelata una promessa da marinaio. Ci sono argomenti, pubblici e privati, che vengono lasciati cadere quando invece il primo a trarre beneficio da una maggiore chiarezza sarebbe proprio Di Pietro. Tanto più che quando si spiega, l’ex magistrato lo fa bene. All’inizio di quel 2009 per lui infausto, il suo nome spuntò nell’inchiesta napoletana su Global Service, il mega appalto dei servizi pubblici. Tra gli altri, era stato arrestato Mario Mautone, provveditore alle Opere Pubbliche della Campania che Di Pietro aveva chiamato a lavorare al ministero delle Infrastrutture da lui diretto. Numerose intercettazioni allegate agli atti dimostravano come il suo primogenito Cristiano, consigliere provinciale a Campobasso per l'Italia dei Valori, tentasse tramite Mautone di sistemare gli amici, e sembravano anche dare conto delle preoccupazioni del padre per tenerlo fuori dall’indagine, della quale risultava essere al corrente.

Di Pietro prese carta e penna, e scrisse un memoriale dettagliato, che diede ai magistrati e alle stampe. Le voci e i sussurri sul suo conto si zittirono immediatamente. In quell’occasione mostrò la sua faccia migliore, argomentando e spiegando. Rimasero solo le accuse di familismo spinto, e l’unico caduto sul campo fu Cristiano, costretto a dimettersi dal partito. Oggi è passato poco più di un anno, ma sembra un secolo. Secondo Di Pietro la pubblicazione dei verbali dell’architetto Zampolini va letta come «parte di una strategia eversiva» nei suoi confronti, decisa da «mandanti e beneficiari occulti». Colpa delle lobby, di una informazione schierata contro di lui. All’appello dell’invettiva mancano i giudici comunisti, ma con qualche allenamento possiamo arrivarci.

giovedì 3 giugno 2010

Donna Assunta: «Fini, da solo, non riesce a fare niente»


L'Inghilterra ha il Big Ben, la Francia la Tour Eiffel. Noi abbiamo Donna Assunta Almirante. A ognuno il suo: il nostro è un monumento vivente e pensante. Più che un monumento, un'icona. Più che un'icona, un simbolo: di quella destra che non vuole morire democristiana; che non si riconosce in Fini. Seduta sul divano della sua abitazione ai Parioli, dalla quale è passata un bel pezzo dell'attuale classe dirigente del Pdl, Donna Assunta si abbandona ai ricordi e analizza il presente. Lo fa a volte con sdegno, altre con sarcasmo. Due ore di conversazione suggellate da una visita guidata negli ambienti di questa casa che sembra un museo. A ben vedere, forse lo è davvero. Donna Assunta è il pezzo pregiato della collezione. Se l'Unesco la inserisse nella lista dei patrimoni dell'umanità nessuno si stupirebbe.
Donna Assunta, lei sarà molto arrabbiata.
"Perché?".
Dopo l'Msi si è sciolta pure An.
"Gianfranco Fini non aveva ragioni di lasciare la sua casa di via della Scrofa. Poteva rimanere alleato di Berlusconi senza cambiare abitazione, come la Lega. Ha sbagliato ad accettare il passaggio da An a Pdl, ma che vuol dire poi Pdl? Io mica l'ho capito ancora".
Non è l'unica. Però anche per il Pd si può dire la stessa cosa.
"Destra, sinistra, quelli attuali sono governanti di terza categoria".
Ma l'Italia è ancora un grande Paese democratico.
"La democrazia non c'è, c'è il suo degrado".
C'è almeno un politico che le piace?
"Stimo moltissimo Berlusconi, lui sì che è di destra".
E Fini?
"Cambiamo discorso".
Sarà lui il successore di Berlusconi?
"Sono più di quindici anni che ci spera. Forse era convinto che il Cavaliere durasse meno".
Come vede il futuro di Fini?
"Come il presente".
Ossia?
"Non lo vedo".
Però è un fautore del presidenzialismo.
"Quella era un'idea di mio marito Giorgio, che all'epoca definirono matto. Vorrà dire che Fini vuole rendere omaggio al suo mentore. Chissà se la faranno questa riforma".
Se fosse lei al governo qual è la prima riforma che farebbe?
"Bisogna cambiare la legge elettorale: se sciolgono le Camere senza averne fatta una nuova, alle prossime elezioni inviterò i cittadini a non votare. E' indispensabile per gli elettori avere una lista di nomi tra i quali scegliere, agli italiani non serve che le segreterie di partito scelgano deputati e senatori al posto loro. Perché dobbiamo affidare la nostra vita a persone che non conosciamo e che a loro volta non conoscono le leggi?".
Perché non entra lei in politica?
"Me lo hanno proposto tante volte, ma non sono fatta per stare in poltrona. La politica si può fare anche da privato cittadino".
Che è poi quello che ha sempre fatto. Si dice che fosse la più preziosa consigliera di suo marito.
"Sono sempre stata una donna indipendente, questo mio marito lo apprezzava molto. Lo accompagnavo spesso in giro per l'Italia e se mi chiedeva un'opinione non mi tiravo indietro. Anche quando scelse Fini come suo successore, volle ascoltare il mio parere".
Quindi se Fini è arrivato dove è arrivato è anche grazie a lei?
"In quel momento sembrava il giovane con più capacità. Giorgio ne ha lanciati moltissimi, è il leader che ha rinnovato maggiormente la classe dirigente. A parte Fini ci sono Storace, La Russa, Gasparri, Urso, Matteoli, Berselli, De Corato, Poli Bortone... ".
Tra questi il suo preferito è Storace?
"Storace, certo. Ma anche La Russa, uno dei pochi politici validi e intelligenti del Pdl, che ha avuto la fortuna e l'accortezza di stare vicino a Berlusconi. Non ha smentito le capacità del padre, che era un uomo di altissime qualità morali e intellettuali".
E Fini?
"Fini è un uomo che da solo non riesce a fare le cose. Ha bisogno di qualcuno che da dietro lo spinga. Anche la chiusura dell'Msi, mica è stata un'idea sua".
Ma non era lui il segretario?
"Sì, ma c'era un gruppo che lo spingeva verso questa cosiddetta svolta: Tatarella, lo stesso Ignazio, Urso, Gasparri. Sì è lasciato influenzare. Storace era contrario".
Fiuggi rimane una ferita aperta per lei.
"Fiuggi è una ferita per la democrazia. Quando fu votata la mozione di Fini, il 70%, forse l'80% delle persone se ne erano già andate. Non ci fu una chiamata individuale, in modo che ognuno si potesse esprimere con un sì o un no. Quei pochi che erano rimasti alzarono tutte e due le mani e la linea di Fini passò".
Dunque fu un colpo di mano.
"Quel congresso avrebbe dovuto essere dichiarato nullo. Capii da subito che sarebbe stato la tomba del partito. Dopo ho fatto una battaglia di tre mesi, ma ormai non c'era più niente da fare. Devo dire grazie a Indro Montanelli, che in quelle lunghe settimane mi ha sostenuto; e anche a un leader di sinistra, assolutamente insospettabile, che mi fu molto vicino. Il nome però non lo faccio".
Che mi dice di Alemanno?
"Lo conosco poco, quando ha iniziato a fare politica lui frequentava più spesso casa di Rauti".
A lei Rauti non stava molto simpatico.
"Nemmeno a Giorgio se è per questo. Ma alla prova dei fatti si è dimostrato più coerente lui di Fini".
Fini aveva detto che Mussolini è stato il più grande statista del secolo, poi ci ha ripensato.
"Guardi, io non sono mai stata fascista. Ma oggettivamente Mussolini è stato il personaggio chiave della storia italiana del XX secolo. E non dimentichiamo che, dopo venti anni di governo, ha lasciato la sua famiglia senza una lira e senza una casa. Non si è certo arricchito con la politica".
C'è chi accomuna Mussolini a Berlusconi.
"Le opere che partono da Prati e arrivano fino a Ostia le ha realizzate tutte il fascismo, la pianura pontina, la battaglia del grano, gli ospedali, la tutela dei lavoratori, le pensioni, le colonie estive... in quindici anni Mussolini ha trasformato l'Italia; dopo quindici anni Berlusconi deve ancora rifare la Salerno-Reggio Calabria".
Che ne pensa del gossip che circonda Berlusconi sui suoi presunti amorazzi?
"Sa che le dico? Meglio con le donne che con gli uomini".
Fini è favorevole alle coppie di fatto.
"Anch'io".
Ma Fini è favorevole pure a quelle omosessuali.
(Qui Donna Assunta si produce in una battuta epocale, che però non si può pubblicare. A ripensarci ridiamo ancora).
Lei crede in Fini?
"Non credo più a niente".
Obbedisce a Fini?
"Non sono nata obbediente".
Combatterebbe per Fini?
"Non ci penso proprio. Né per lui, né per altri".
Che consiglio darebbe a Fini?
"Non posso dargliene, i sordi non sentono. Anche se...".
Cosa?
"Adesso c'è il mese della visita gratuita di controllo dell'udito. Potrebbe approfittarne".
Fini vuole dare il voto agli immigrati.
"Gli immigrati non lo vogliono il voto, quindi è del tutto inutile, come il voto degli italiani all'estero".
Fini vuole portare il Corano nelle scuole.
"Ma a che serve il Corano a scuola? Al limite si può leggere qualche pagina, ma la nostra religione, la vera religione, è quella cattolica. Poi non capisco perché quando si dice qualcosa sui musulmani bisogna pesare le parole mentre al Papa gliene dicono di tutti i colori e nessuno si scandalizza".
Le piace questo Papa?
"Molto. E' un uomo di grande cultura, anche se non arriva direttamente al cuore come il suo predecessore. Wojtyla era la faccia della bontà, della bellezza. Ti veniva voglia di abbracciarlo. Ratzinger invece ispira ammirazione".
Che voto dà a Alemanno come Sindaco?
"Lo stesso di Veltroni: non sta facendo niente".
Addirittura.
"Ha provato a farsi una passeggiata di sera ai Parioli? Manca la luce, è pieno di immondizia. Se questo è considerato il salotto di Roma, figuriamoci le periferie".
Sistemato Alemanno, passiamo alla Santanché.
"Della Santanché non dico nulla, né in bene né in male".
La Mussolini.
"Prima faceva l'attrice, mi pare. Quando ha visto che combinava poco è entrata in politica".
C'è qualche politica donna che le piace?
"La Finocchiaro e la Prestigiacomo".
Qualche uomo di sinistra?
"Bertinotti: un signore, una persona per bene. Stimo anche l'intelligenza di D'Alema".
Di Craxi che ne pensa?
"Un grosso personaggio, buon amico di mio marito"
E di Bossi?
"Ammiro in maniera incredibile la Lega, lavora sul territorio, è vicina alla sua gente. Io che sono mezza trentina, visto che ho casa in montagna da 34 anni, ho capito qual è la differenza principale tra nord e sud: il popolo del nord è progredito ma non è civile, non è affabile; invece il popolo del sud è civile, ma non è progredito. Bossi sbaglia quando se la prende con il sud: i meridionali sono molto intelligenti, quando emigrano diventano i primi della classe".
Torniamo a Almirante: quando strade italiane sono dedicate a suo marito?
"Duecentocinquanta".
A Roma?
"Nessuna. Il motivo non lo so, manco glielo chiedo a Alemanno. Faccio un'ipotesi: non vuole mettersi in urto con la comunità ebraica. Ma non regge".
Perché?
"Giorgio non è mai stato contro gli ebrei, durante la guerra ha salvato un amico ebreo, Emanuele Levi. Quando fu Giorgio a trovarsi in difficoltà, Emanuele gli trovò un lavoro. E poi un'altra cosa: il fratello di mio marito, Luigi Almirante, sposò Lucia, una ragazza ebrea, alla quale siamo tutti molto affezionati. Giorgio fu testimone di nozze".
Quante persone incontra ogni giorno?
"Una marea, soprattutto quando sono per strada. Di ogni età e ogni colore politico".
Saluta tutti?
"Sì, ma cerco di non stringere la mano. Per comodità faccio il saluto romano".
Le sembra normale?
"Salutare romanamente è internazionale. L'ha fatto il popolo italiano, lo fanno tutti. Lo fa anche il presidente degli Stati Uniti".
Ma se qualcuno insiste per stringerle la mano?
"Giro sempre con le salviettine disinfettanti in borsa. Non ne posso fare a meno, ho un olfatto sensibilissimo. Svengo vicino a un cattivo odore. Pensi che avrei potuto diventare miliardaria".
Che c'entra con gli odori?
"C'entra eccome. Potevo essere un'autorità in campo cosmetico, nella ricerca dei profumi. Avrei fatto soldi a palate".
Che rapporto ha coi giornalisti?
"Splendido, come me sono sempre cortesi. Li adoro tutti, a parte Perna. Infatti l'ho querelato".
Perché?
"Aveva scritto cose orribili su mio marito".
Ha querelato anche Benigni.
"Aveva scritto una filastrocca vergognosa su Giorgio".
Se le chiedesse scusa ritirerebbe la querela?
"Neanche a pensarci".
Lei è una superstar anche su Facebook.
"Me lo hanno detto. Anche se non ho ben capito cosa sia questo Facebook".
La irritano le prese in giro di Dagospia?
"Ma no, D'Agostino mi tratta bene. E' simpatico e intelligente".
Mi riferivo alle foto di Pizzi.
"Quelle di Pizzi non sono prese in giro, ma opere d'arte. Mi ha messo anche in una mostra".
Lei è sempre in giro, la invitano ovunque.
"Non me ne parli, se dovessi dire di sì a tutti non mi basterebbe una giornata di 48 ore".
E quando sta a casa come passa il tempo?
"A volte suono il pianoforte. Oppure canto".
E' brava?
"Una volta ad un ricevimento a Montecarlo ho cantato "Calabrisella mia" davanti al principe Ranieri. Gli piacque moltissimo".
Suo marito cantava?
"Sì, ma un altro genere: le canzoni della guerra".
Cosa vede in televisione?
"Quella di Santoro è una bella trasmissione. A prima vista può sembrare faziosa, ma ragionandoci sopra non è così".
Fede?
"E' molto devoto a Berlusconi".
Floris.
"Ah, quello non mi piace proprio. Mi dà l'agitazione, cammina molto e parla tanto, se potesse farebbe tutto da solo, senza ospiti. E poi non si capisce nulla, gli ospiti si parlano sopra. Mi dà sui nervi. Infatti dopo cinque minuti cambio canale".
Vespa.
"Garbato e preparato".
Cosa distingueva suo marito dai politici di oggi?
"Che lui era un politico, quelli di oggi non si sa cosa siano. E poi stava in mezzo alla gente: non frequentava i salotti, era uno del popolo".
E come marito?
"Eravamo la coppia ideale. Un'unione perfetta, comunione di spirito. Lui era il vero femminista, ha sempre considerato la moglie alla pari del marito, nel rispetto delle reciproche differenze. E poi aveva una dolcezza senza limiti, era educato, elegante".
Il vostro fu un colpo di fulmine?
"Per lui sì, io ci misi un po' a innamorarmi".
Vi univa anche la politica?
"Da ragazzina ero quasi comunista. Ma non lo scriva... Quando vedevo che altri bambini avevano meno possibilità di me, mi interrogavo: perché queste differenze?".
Non vuol dire necessariamente essere comunisti. Più semplicemente, avrebbe voluto aiutare chi se la passava peggio. Non fa così anche oggi?
"In continuazione. Casa mia è un ufficio di collocamento, manca solo la targa fuori dalla porta. Ma è soprattutto quando ci sono di mezzo problemi di salute che cerco di dare un mano. Negli ospedali conosco praticamente tutti: se una piccola raccomandazione può aiutare una persona a risolvere una situazione difficile, alzo il telefono volentieri. In Calabria si dice: l'abuttu un cride allu diunu".
Traduzione?
"Chi ha mangiato non si mette nei panni di chi è a digiuno. E invece bisogna farlo: solo così è possibile avvicinarsi al prossimo".
Altro che comunista, lei è apostolica.
"Sono molto credente, sì".

Le balle che preludono al caos


Nell'ultima pagina del mio libro "il denaro. «Sterco del demonio"», del 1998, dopo aver raccontato la trionfale cavalcata del denaro dall'epoca della sua prima apparizione (a cavallo fra l'VIII e il VII secolo a.C., in Lidia piccolo regno dell'Asia Minore nell'orbita della cultura greca) ai giorni nostri e della sua progressiva trasmutazione, quasi alchemica, da mero intermediario dello scambio, per evitare le triangolazioni del baratto, e misura del valore a merce vera e propria sia pur assai volatile, così concludevo: «Il giorno del Big Bang non è lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è "futuro", rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine noi, alla velocità cui stiamo andando, proprio grazie al denaro, lo stiamo vertiginosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte, come specie. Se il futuro è infinito e illimitato lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L'impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O, forse, in un moto circolare, niciano, eisteniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell'immenso debito di cui l'abbiamo caricato. Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c'è, sul niente, sul Nulla. In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose e oniriche dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. Quel giorno il denaro non ci sarà più. Perché non avremo più futuro, nemmeno da immaginare. Ce lo saremo divorato».

È quanto sta accadendo, anche se non nei termini così radicali che io indicavo. Per un collasso definitivo ci vorrà ancora un po' di tempo. Non molto. Il prossimo colpo sarà quello del K.O.. Lo ammette il ministro dell'Economia Giulio Tremonti che in un'intervista ad Aldo Cazzullo afferma: «Il crollo delle piramidi di carta, nell'autunno 2008, ha causato il crollo dell'economia reale, che invece si stava sviluppando in senso positivo. Ora a rischiare per un nuovo immanente crollo dell'economia di carta non c'è solo l'economia reale, ma anche la struttura sovrana dei debiti pubblici e quindi dei governi».

Aggiunge infatti Tremonti: «Il salvataggio dell'economia di carta, garantito dagli Stati, ha riprodotto in forma diversa le stesse condizioni di crisi potenziale che c'erano appena due anni fa... Da un lato sul mercato "over the counter", il mercato principe dell'economia di carta sono tornati gli stessi valori ante-2008, dall'altro lato nel mondo ogni otto secondi si emette un milione di dollari o di euro di nuovo debito pubblico».

Tremonti ammette cioè che, come avevo scritto qualche tempo fa sul Fatto, la crisi è stata temporaneamente tamponata immettendo nel sistema altro denaro inesistente, drogato, tossico non meno dei titoli "tossici", nella speranza che il cavallo dopato faccia ancora qualche passo in avanti. Ma la cosa non può durare ancora a lungo, perché, prima o poi, arriva il momento fatale dell'overdose mortale.
«Ma come può intervenire la politica?» chiede a questo punto Cazzullo con un tremito nella voce (almeno così immagino).

«È già molto capire e l'impressione è che, sopra i popoli, superato lo choc iniziale, anche segmenti sempre più ampi delle classi dirigenti comincino a capire».

Ma noi non abbiamo bisogno di classi dirigenti che capiscono le cose quando sono già avvenute, che ci dicano il risultato della partita quando è finita. Ciò che io, che non sono un economista, avevo capito o intuito nel 1998, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti aveva il dovere di capirlo almeno nel 2007 quando ci fu il tracollo dei "subprime" americani. Le sue prediche di oggi, elargite con gran prosopopea, sono inutili oltre che sommamente irritanti (tra l'altro Tremonti, per salvarsi l'anima, colloca il sopravvento dell'"economia di carta" sulla cosiddetta "economia reale" nei primi anni del 2000, ma il processo si è prodotto molto prima, tanto che già nel 1964 l'americano David T. Bazelon, che non era neppure lui un economista ma un letterato, aveva scritto "L'economia di carta" che sosteneva questa tesi).

E ciò vale, ovviamente, non solo per Tremonti ma per tutte le classi dirigenti occidentali, politici, economisti, imprenditori, intellettuali che o non hanno capito, e allora sono dei coglioni indegni di dirigere una Asl, o sono dei mascalzoni che hanno fatto finta di non capire e ci hanno ingannato come continuano ad ingannarci. Perché anche la distinzione fra capitalismo finanziario e capitalismo industriale (l'"economia reale") è un inganno. Anche il capitalismo industriale si basa sulla stessa logica di quello finanziario: una inesausta scommessa su un futuro, additatoci continuamente, per tenerci al basto, come Terra Promessa, che arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo. Se mai il capitalismo finanziario, con la sua brutalità, ha il pregio di smascherare questo giochetto infame che dura da due secoli e mezzo e che deve finire. E finirà.

In un bagno di sangue, quando, crollato questo modello di sviluppo paranoico, la gente delle città, accorgendosi che non può mangiare il cemento e bere il petrolio, si dirigerà verso le campagne dove verrà respinta a colpi di forcone da chi, avendo compreso le cose per tempo, sarà tornato, come ai vecchi tempi, all'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) in cui il valore di una mucca, a differenza di quello del denaro o del petrolio, resta sempre tale, perché una mucca bruca, trasforma l'erba in latte, caga come dio comanda e concima, in un ciclo biologico perfetto, e, al limite, se ne può sempre fare bistecche.
In quanto a Tremonti e a tutti i Tremonti della Terra per loro è pronto, se saranno ancora vivi, l'albero cui saranno pregati di appendersi.

(di Massimo Fini)

martedì 1 giugno 2010

Diciamo addio a Silvio?

Soltanto una volta mi sono sentito nemico di Silvio Berlusconi. Accadde verso la fine del 1989, quando il Cavaliere diede inizio alla guerra di Segrate per la conquista della Mondadori. Allora lavoravo a Repubblica, la preda più ambita di Silvio. E fino al 1991, quando la storia si concluse, il mio stato d’animo fu quello di un soldato che difende la patria dai barbari.

Con Gianni Rocca, rimasi al fianco di Eugenio Scalfari senza incertezze. Tenni anche un diario minuzioso che poi mi servì per scrivere un libro molto anti-Cav. Era L’intrigo che la Sperling & Kupfer di Tiziano Barbieri ebbe il coraggio di pubblicare nell’autunno del 1990. In quel tempo, i libri contro Berlusconi non erano una valanga come succede oggi. Il vertice del Gruppo Espresso Repubblica me ne fu grato? Allora sì, adesso non lo so.

Ho scritto questa premessa per arrivare al dunque del Bestiario di oggi. E il mio dunque ha due facce. La prima è che non sono un anti-Cav irriducibile. La campagna asfissiante contro di lui non la seguo più.

È priva di senso, soprattutto perché i suoi avversari non ci dicono mai chi vorrebbero al posto di Berlusconi. Tuttavia, e siamo alla seconda faccia, da tempo vado scrivendo che il nostro premier dovrebbe ritirarsi a vita privata. Ieri pensavo agli acciacchi dell’età. Ma adesso credo che debba farlo perché ha superato la sua linea di Peter.

Qualcuno si chiederà che cos’è la linea di Peter. È la curva che delimita la competenza di ciascuno di noi nel fare il proprio lavoro. Quando la superi, significa che non ce la fai più. Che la tua competenza è esaurita. E che faresti bene a smettere di affaticarti su problemi che non sei più in grado risolvere. Ho l’impressione che il Cavaliere si trovi proprio in questo frangente. E dunque stia vivendo la sua fase più pericolosa.

I segnali sono davvero tanti. Vogliamo ricordare i più recenti? Il suo calo di autorità è evidente. Non ha ancora sostituito il ministro Claudio Scajola, dimissionato già da un pezzo. Davanti all’assemblea della Confidustria ha ripetuto il gioco che gli piace tanto: chi vuole Emma Marcegaglia al posto di Scajola, alzi la mano! Ma quasi nessuno ha risposto. Il premier avrebbe dovuto sapere in anticipo che sarebbe finita così. Se non l’ha intuito, significa che non ha più il polso della situazione.

Il suo partito gli sta scappando di mano. I dirigenti che lui stesso ha scelto si sono messi a fargli la forca. All’interno del Pdl nascono fazioni sino a ieri impensabili. Gianfranco Fini ha attenuato un tantino le esternazioni guerrigliere, però non ha gettato le armi e prima poi andrà all’attacco. La Lega è diventato il partito più forte del centro-destra. Forse si dovrebbero avvertire i vignettisti che insistono nel disegnare Umberto Bossi come un cane portato al guinzaglio dal Cavaliere.

Ma adesso emerge il guaio più pesante per Silvio. Lui non è affatto un leader da tempo di guerra, mentre tutto ci suggerisce che non siamo più in tempo di pace. L’Italia è destinata a vivere in modo radicalmente diverso da come è vissuta nell’ultimo mezzo secolo. Diventeremo più poveri. Pure chi viene considerato un ricco, se è un contribuente fedele verrà bombardato di nuove tasse. Chi ha pochi soldi in tasca o in banca, ne avrà sempre di meno.

Dovremo scordarci molte comodità da paese opulento. Tutti dovremo tirare la cinghia, sia pure in modo differente. Ricordo una battuta dei primi anni Quaranta, quando ero ragazzino. Sentivo dire dagli adulti: a forza di tirare la cinghia siamo arrivati all’ultimo buco, il foro Mussolini. Tocco ferro nella speranza di non sentir parlare di foro Berlusconi.

Questo stato di cose non rappresenta l’ambiente giusto per il Cavaliere. Lui ha creato le condizioni del proprio successo sull’ottimismo, sulla vitalità economica, sulla rivoluzione liberale, su un paese fatto di individui e non di masse, sulla prevalenza del privato rispetto al pubblico, su uno Stato meno invadente e capace di riconoscere il lavoro di ogni singola persona. A cominciare da una riduzione forte della tassazione.

Molti elettori gli hanno dato credito e lo hanno seguito. Confesso che anch’io, sia pure senza votarlo, ho sperato che Silvio ce la facesse. Ma oggi questo sogno sta svanendo. E insieme al sogno svanisce il personaggio del Cavaliere. Mi ha colpito un intervento pubblicato sul Tempo diretto da Mario Sechi. È uscito giovedì 27 maggio e a scriverlo è stato Francesco Perfetti. L’autore è un eccellente storico liberale. E come tutti gli storici senza pregiudizi riesce non solo a leggere nel nostro passato, ma anche a dare un’occhiata al futuro.

Sapete in che modo iniziava l’articolo? “Adieu Berlusconi! Per quanti scongiuri il Presidente del Consiglio possa e voglia fare, proprio questa rischia di essere la conseguenza finale della manovra economica tutta leghista, riversata sulle spalle dei lavoratori dipendenti e dei ceti medi…”.

Ho imparato a non fare profezie. Dunque mi guardo bene dal dire se la manovra da tempo di guerra sarà la tomba politica del Cavaliere. Dal mio personale punto di vista, penso che il ministro Giulio Tremonti abbia visto giusto nel prevedere un’austerità generalizzata. E mi auguro che il suo schema rigoroso non venga smontato, come potrebbe accadere. Se resterà com’è oggi, Berlusconi vivrà ore difficili.

Sapete chi possono essere i suoi veri alleati? Il Partito democratico che minaccia sfracelli contro la manovra di Tremonti. E la Cgil, che non sapendo cos’altro fare, ha proclamato l’ennesimo, inutile sciopero generale.

(di Giampaolo Pansa)