sabato 9 aprile 2011

L'incubo di Sarkò ora è Marine


È uno spettro paradossalmente seducente, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri, che sta facendo perdere la bussola a Nicolas Sarkozy. Si chiama Marine Le Pen, leader del Front National ereditato da suo padre, il vecchio Jean-Marie. La nuova signora della politica francese sembra aver sopravanzato l'inquilino dell'Eliseo nei sondaggi in previsione delle presidenziali dell'anno prossimo. Lui, il marito di Carlà, corre ai ripari come può. Bombardando Tripoli, per esempio. O, immaginando più redditizi risultati, respingendo i tunisini provenienti dall'Italia in aperto spregio, ai trattati comunitari ed ad una legge italiana, recepita anche dalla Francia in quanto membro dell'Ue, che in un articolo prescrive che tutti coloro provenienti da un Paese dell'area di Schengen, come il nostro, devono essere accolti. A Sarkozy questa norma non gliel'ha tenuta nascosta nessuno. E, infatti, lui la conosce bene solo che fa finta di ignorarla per non attirarsi i fulmini dei suoi connazionali che vedono gli immigrati dal Nord Africa come il fumo negli occhi e sembrano disposti a voltargli le spalle proprio in favore della Le Pen. Comprendiamo le tensioni francesi, ma chi ha stabilito che dobbiamo essere noi a farcene carico? I tunisini, che per cultura e tradizione, si sentono più vicini a Parigi che a Roma, hanno tutto il diritto, dopo la permanenza temporanea sul territorio italiano che il governo avrebbe fatto meglio a garantirgli fin da subito, cioè dopo le prime ondate, di raggiungere la Francia dove i più sono attesi dai loro familiari. Pertanto che Sarkozy faccia tanto lo schizzinoso adesso, fino a dare l'ordine ai prefetti di impedire ai maghrebini di varcare i confini è a dir poco indecente.

Sia sotto il profilo giuridico-politico che sotto quello umanitario. Già le mire egemoniche sarkozyane nel Mediterraneo risultano indigeste, al pari dello shopping che il presidente vorrebbe fare un po' ovunque purché ai danni soprattutto dell'Italia (petrolio libico, Parmalat, ecc.). Rifiutarsi però di accettare le regole imposte dall'Unione è quantomeno scandaloso e sarebbe bene che la Commissione europea intervenisse per calmare i bollenti spiriti di un post-gollista a cui l'insuccesso sembra avergli dato alla testa al punto di ricorrere ad espedienti che mettono a repentaglio i rapporti di buon vicinato con una nazione tradizionalmente più che amica, oltre che ad innescare la possibile dissoluzione dell'Unione europea che ha bisogno soltanto di un "aiutino" per dichiarare la propria repentina fine. Quanto poi alle motivazioni addotte da Sarkozy per giustificare il suo gretto atteggiamento, non fanno davvero onore alla sua intelligenza politica. Si è permesso di dire che la Francia ha già troppi immigrati per poterne accoglierne altri, trascurando il piccolo particolare che quei cittadini francesi dalla pigmentazione scura sono nella stragrande maggioranza il lascito del colonialismo della Republique, un vizio che non s'è perso da quelle parti come si evince dall'impegno che l'Eliseo profonde in questi giorni in Costa d'Avorio. Sarà colpa del mal d'Africa. Ma allora, perché poche migliaia di tunisini, che parlano un francese fluente, dovrebbero restare fuori dalla porta di casa, a Ventimiglia magari? Non è elegante, anche considerando la circostanza che solo qualche mese fra la signora Alliot-Marie, al tempo ministro degli Esteri di Sarkozy, soggiornava, ospite di Ben Ali, sulle soleggiate spiagge della Tunisia. Ma quella è un'altra storia che, per quanto recente, il presidente ha rimosso in fretta. L'incubo Le Pen è più ossessivo e vorrebbe che tutta l'Europa lo condividesse con lui.

(di Gennaro Malgieri)

venerdì 8 aprile 2011

Tutti pazzi per il talebano Mullah Omar. Così Fini (Massimo) dimentica l'Occidente

Siccome conosco molto bene il mio pollo, quando ho preso in mano l’ultimo libro di Massimo Fini, Il Mullah Omar (Marsilio, pp. 162, euro 16,50), sapevo quello che mi aspettava. Tanto lo sapevo quanta provocatorietà ma anche coraggio intellettuale Fini ci avrebbe messo, in un libro in cui per tanti aspetti sembra “tifare” per i Talebani afghani e pur di dare addosso a quell’Occidente amerikanizzato che lui odia con tutta l’anima, che ho cominciato a leggerlo già dieci minuti dopo che il postino me lo aveva consegnato.

Tra parentesi, la copia mi è così dedicata: «A Giampiero, in nome di un eterno litigio». Falsissimo. Con Fini ci conosciamo da circa trent’anni, e io da liberal occidentale e che ama molto l’America non ho mai “litigato” con lui. È lui che una volta sì e l’altra pure ne dice di cotte e di crude su di me e sui miei libri e sul fatto che sono al mondo. Lo ripagherò adesso con la stessa moneta? Ma nemmeno per idea.

Per quanto uno possa essere lontano dai criteri e dai giudizi di Fini, questo libro te lo racconta a meraviglia l’inferno afghano - la “guerra sbagliata” di cui ha scritto l’americano Bing West, già autore di un magnifico libro sulla battaglia di Fallujah durante la guerra in Iraq. L’inferno delle battaglie che noi occidentali non possiamo vincere e della democrazia che non possiamo esportare; l’inferno di una paesaggio geopolitico dove ogni montagna e ogni tribù e ogni signore della guerra sono un mondo a sé e con regole loro e non ci puoi far niente, e tanto più se quello che fai di più è lanciare bombe da diecimila metri; l’inferno di costumi e credenze che i secoli hanno modellato e rispetto ai quali i valori occidentali sono purtroppo merce invendibile.

Italiani come invasori

E purtroppo non è neppure vero che i soldati italiani in particolare siano ben visti perché «brava gente», perché sono in Afghanistan a portare medicinali e accarezzare i bambini e costruire ponti e scuole. Quando lo scontro di “civiltà” è talmente aguzzo e devastante, non ci sono più sfumature né terreni di mezzo né carezze ai bambini che tengano. Agli occhi della buona parte della gente afghana, i nostri soldati appaiono degli invasori. Né più né meno dei soldati americani e, prima di loro, dei russi.

Fini racconta un episodio agghiacciante. Il 26 settembre del 2006 tre nostri Puma vennero centrati dall’esplosione di un ordigno che era stato nascosto dai Talebani in un canale di scolo. I nostri soldati vengono scaraventati via dal botto, il caporalmaggiore Giorgio Langella muore sul colpo, la soldatessa Pamela Rendina si contorce per terra gravemente ferita. Dalle case del villaggio lì vicino escono a decine degli afghani, nessuno dei quali aiuta i nostri soldati. «Al contrario, la folla canta, balla, urla di gioia, sghignazza», scrive Fini. Leggere questa parole è come una medicina che ti fa schifo solo a vederla, e che però il medico ti ha raccomandato perché indispensabile a guarire la tua malattia. In questo caso l’illusione che prima o poi noi occidentali la guerra in Afghanistan la vinceremo e placheremo le febbri di quel Paese a noi remotissimo ed esporteremo la democrazia al modo nostro. Un’illusione che non ha né capo né coda. E dunque, grazie al medico Fini.

Lasciamo stare i passaggi del suo libro che a leggerli hai un sussulto. A esempio quello in cui è lì lì per scrivere che l’attentato dell’11 settembre 2011 lo ha organizzato la Cia con la complicità di Osama bin Laden. Ho detto “lì lì”, perché in verità Fini arriva sulla soglia di questa voragine intellettuale e poi si ritrae: non di molto, ma si ritrae. Lasciamo stare le tante pagine in cui Fini non la smette di dire che la gente afghana ha i suoi valori e di quei valori vive e quei valori sono migliori della paurosa assenza di valori della società occidentale. Che appaia come un valore che le donne malate debbano essere curate solo da medici donne e giammai da medici uomini, oppure che le donne non debbano andar a scuola, queste sono porcate che non ingoierò mai.

Sono porcate, non valori: porcate che fanno male a loro, alle loro donne innanzitutto.

Così come neppure un solo minuto della mia vita rinuncerò a credere che l’avventura della mia generazione - l’avventura la cui architrave portante era l’esibizione e la messa in valore del corpo femminile - sia stata un’avventura di felicità e di libertà per tutti, una felicità e una libertà che ha migliorato la vita di tutti. E me ne strainfischio altissimamente di tutte le «donne senza dignità» che oggi usano in Italia e altrove il loro corpo a far reddito e carriera. Mai e poi mai scambierò lo scorcio di una strada occidentale con i suoi negozi e le sue minigonne e le sue libertà e le sue razze e religioni mescolate e fuse assieme, voglio dire uno scorcio di Parigi o di Zurigo o di Amsterdam o di New York o di Milano, con null’altro al mondo.

Il Male assoluto

Ma non è questo il punto. Fini ha fatto benissimo a scrivere questo libro e a intitolarlo a un personaggio che nel sentire corrente di noi occidentali appare come «il Male assoluto». Ossia il Mullah Omar, l’orbo su cui pende una taglia di 25 milioni di dollari. Solo che quando la metti sul piano del Male assoluto, finisci col non comprendere nulla. Non comprendere nulla del Paese dove sei e combatti, della gente che ti sta attorno, di quello che puoi fare o non fare con loro e per loro.

Male assoluto o no, nell’Afghanistan di domani i Talebani dovranno avere un loro posto e un loro ruolo. E questi accordi prima si faranno e meglio è, e meno morti massacrati ci saranno stati. A quel punto un qualche alto ufficiale americano o altro si troverà di fronte il Mullah Omar, e meglio per lui se saprà con chi ha a che fare, se di quel suo interlocutore conoscerà non solo il fanatismo, ma anche il curriculum e il coraggio e il suo radicamento nella storia recente dell’Afghanistan e della sua gente. Solo da quel contatto e da quel rapporto e da quella conoscenza reciproca potrà nascere qualcosa di non belluino. Non certo dalle bombe scaraventate da diecimila metri.

(di Giampiero Mughini)

Cretino e imbecille in lotta


L'idiozia e gli intellettuali. Il tema della nona lezione del Corso per la prevenzione dell'idiozia poteva essere trattato in tanti modi. Pietrangelo Buttafuoco e Francesco Merlo hanno scelto i toni della leggerezza, in qualche momento addirittura con quelli dell'avanspettacolo. Tanto che forse non è un caso se volendo spiegare come e perchè l'editorialista di Panorama e quello di Repubblica si fossero presentati in coppia pur avendo apparentemente in comune solo il fatto di essere entrambi siciliani, Buttafuoco abbia fatto un ardito parallelo con altre due coppie di siciliani, quelle di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e di Ficarra e Picone, che hanno sicuramente bazzicato più i palcoscenici del varietà che le aule universitarie e le sale delle biblioteche. E forse non è un caso che nella tradizione appunto del migliore varietà abbiano ricoperto a turno il ruolo del comico e quello della spalla che dà lo spunto per la battuta.

Merlo mette subito in chiaro: ‹Non tutti gli intellettuali sono cretini, ma tutti i cretini sono intellettuali›, e disegnando l'identikit di due categorie, il cretino cognitivo (sa un po' di inglese, se è raffinato anche un po' di francese, è ben vestito, si eccita sul tema del clima, legge solo in bagno e per questo ha una cultura di cacca) e il cretino di sinistra (è sempre contro i ponti, ama i caprioli ma schiaccia le mosche e le zanzare, non ha bisogno di leggere Gramsci perchè vede direttamente Santoro in televisione, considera le pale eoliche sempre mafiose e rimpiange le lucciole) che spesso e volentieri si sovrappongono. Sul cretino di destra, Merlo non ha dubbi: ‹Per me è il berlusconiano›.

Buttafuoco, che spiega di non riconoscersi nello stereotipo dell'editorialista di destra, la prende alla lontana ma conclude che, per esperienza vissuta, secondo lui, il cretino è sempre di sinistra, mentre ‹L'imbecille è di destra›. Per Buttafuoco, anche il conformismo è sempre di sinistra e comunque, a proposito di intellettuali: ‹Sfortunati gli scrittori di destra, quelli di sinistra non li leggono perchè sono di sinistra, quelli di destra non leggono proprio›. ‹Gli strumenti del cretino sono l'indignazione e l'invettiva, e il fantuttone, che è un fannullone indaffarato sempre pronto a intervenire su tutto, è il tipico esempio di cretino›, rilancia Merlo ricordando di avere coniato quella definizione per il ministro Brunetta che se l'era presa con i fannulloni.

Buttafuoco polemizza con Umberto Eco, che stigmatizzando il bunga bunga di Arcore aveva detto che lui la notte faceva tardi leggendo Kant. ‹Io preferirei fare tardi con Nicole Minetti›, ha sottolineato Buttafuoco suscitando la disapprovazione di Merlo: ‹Ma io sono un cretino di sinistra, lui un intelligente di destra›. Nella veste di buon insegnante, Merlo propone anche due buoni rimedi contro l'idiozia: la distanza e la laicità. "Ma purtroppo - ammette - la laicità è una virtù difficile da esercitare".

giovedì 7 aprile 2011

La stramba idea di sdoganare i fascisti


Sono stato anch’io, come credo tutti o quasi, molto sorpreso dall’iniziativa dei cinque parlamentari che hanno proposto l'abrogazione della XII Disposizione Transitoria e Finale della nostra Costituzione, che recita «È vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Un'iniziativa da ritenersi, nel senso etimologico del termine, intempestiva. Perché effettivamente i tempi non sono ancora maturi per tale scelta: o non lo sono più. Mi spiego meglio, certo che queste righe rischiano di mettermi alla gogna e, francamente, di ciò poco preoccupato.

Debbo dire che le reazioni della stragrande maggioranza dei parlamentari e dei mass media non mi stupisce, anzi è esattamente quella che mi sarei immaginato. Non parlerò dell'opinione pubblica, perché essa, se mai è esistita in questo paese, non esiste più da tempo: sostituita dal vocìo a gola spiegata, dall'imbonimento televisivo, dall'eterna spettacolarizzazione del Nulla, dal conformismo dissimulato dal turpiloquio che lo fa sembrare ribellione. Ma debbo dire di sentirmi disturbato e disgustato. Dalla sinistra, che quasi compatta si trincera pretescamente dietro le vecchie formule liturgiche, i vecchi crocifige, e rispolvera l'ormai desueta «resistenza» confidando nel suo immarcescibile potere deterrente. Dal centrodestra, che reagisce tra l'indispettito e l'ipocrita, senza osare non solo dire fino in fondo quel che pensa, ma nemmeno chiedersi sul serio, e una buona volta, se pensa davvero qualcosa. E che cosa.

Distinguiamo dunque con cura, tanto per far un po' d'ordine, i due piani del discorso. Primo, la questione politica e pratica. Secondo, la questione morale e di principio. Anzi, cominciamo da quest'ultima. I «Padri Costituzionalisti», varando il Documento fondamentale della nostra Repubblica quel 27 dicembre del 1947, sapevano benissimo quel che facevano: e lo facevano con grande equilibrio, con straordinaria coscienza.

Nel '47, i fuochi covavano ancora sotto la cenere e le ferite erano ancora vive, brucianti. L'antifascismo aveva un valore assoluto: per qualcuno addirittura religioso. Eppure, al di là della retorica che accompagnava anche tutto ciò (la retorica c'entra sempre) e della forza d'intimidazione esercitata allora da alcuni partiti, era chiaro anzitutto che di antifascismi ne esistevano parecchi (quello liberale o cattolico non era quello socialista o comunista). Ed era chiaro soprattutto che, per coscienze democratiche e istituzioni democratiche il proibire qualcosa era sempre e comunque un vulnus: paradossalmente, la difesa della democrazia che si voleva mettere in atto attraverso una disposizione costituzionale era in contraddizione con lo spirito stesso della democrazia, che - per quanto l'espressione che sto per citare si sia usurata col Sessantotto e dintorni - vieta di vietare.

Non si difende la democrazia con un provvedimento liberticida; non la si tutela resuscitando, sia pur in modo limitato ed eccezionale, lo spettro del «delitto d'opinione». Una democrazia non può vietare alcuna manifestazione di libertà di pensiero: può solo inquadrarla in un sistema di leggi che le impedisca di sviluppare potenzialità negative. I Padri della Costituzione lo sapevano: e difatti incapsularono quella norma velenosa - che tra l'altro non spendeva nemmeno una parola non diciamo a condannare, ma neppure a definire il fascismo: e si limitava al divieto di riorganizzazione di un partito disciolto, non di creazione di altri nuovi partiti eventualmente simili o analoghi (difatti nacque il MSI) - nel contesto di una «Disposizione Transitoria e Finale» (intendendo questo secondo aggettivo nel senso non già di «definitivo e irreversibile», bensì di «conclusivo del documento»: non dell'argomento). Ma, nel pensiero dei Padri, quanto a lungo avrebbe dovuto durare la «transitorietà» della XII Disposizione? Evidentemente, finché i tempi non fossero mutati e finché non fosse maturata una definitivamente solida coscienza democratica.

Questa considerazione consente di tornare al primo dei piani del discorso dai quali siamo partiti: la questione politica e pratica. Viviamo in un tempo di volgarità, di equivoci, di violenze. Un tempo di scarsa cultura e dunque di scarsa riflessione: e, in cambio, di spregiudicate mistificazioni. Ammettiamo pure l'impossibile: vale a dire che il Parlamento, a maggioranza qualificata (il 66%, necessario alle modifiche costituzionali), accogliesse la proposta d'abrogazione della XII Disposizione. Chi si prenderebbe la briga della «Rifondazione Fascista»? Quale e quanta parte della popolazione italiana se ne sentirebbe attratta o interessata? E, soprattutto, su quali basi si riannoderebbero le fila di un discorso tragicamente interrotto sessantotto anni fa (alludiamo al Partito Nazionale Fascista, mentre ad esempio il MSI si rifaceva semmai al Partito Fascista Repubblicano e alla repubblica Sociale)? Che «modello fascista» si adotterebbe? Il solo che al giorno d'oggi avrebbe qualche chance di successo sarebbe un mostriciattolo xenofobo e razzista: un abito che il fascismo indossò nella seconda parte della sua esistenza e che preluse alla sua rovina.

Personalmente, credo che nel suo valore politico originario il fascismo fosse essenzialmente un esperimento di convergenza e di compatibilità della valorizzazione dell'identità nazionale insieme con la giustizia sociale. In altri termini, il programma dei Fasci di Combattimento del '19, quello «di San Sepolcro», ch'era piaciuto anche a Nenni, a Salvemini e a Toscanini. Sarebbe poi così «desueto», così inattuale, un programma di quel genere: o meglio, al di là di molti punti che lo renderebbero anacronistico, sarebbe inattuale lo spirito che lo animava? Forse no: solo, dubito che interesserebbe a qualcuno. Men che mai a quanti oggi, osino o meno ammetterlo o proclamarlo, credono di sentirsi «fascisti».

Ecco perché ritengo che la proposta dei cinque parlamentari, senza dubbio plausibile e legittima sul piano della democraticità, sia inattuabile in quanto inattuale e intempestiva. La nostra democrazia, fondata e auspicata nel 1947, è maturata alla meglio fino a destrutturarsi rapidamente a cominciar dagli Anni Settanta e a rovinare dagli Anni Novanta in poi. Non dico che non si può abrogare la XII Disposizione perché i tempi non sono ancora maturi: sostengo che non lo sono più, che il frutto della democrazia italiana è maturato troppo, vale a dire che è marcito. Verrà quindi per naturale avvicendamento l'inverno di questa democrazia calpestata e tradita: non so che aspetto avrà, ma so che verrà. Poi, forse, volverá cantando primavera, come diceva il vecchio inno falangista. Ma quando e come, non lo so. Allora, chi vivrà, vedrà. Allora, forse, vi saranno condizioni di maturità e di sicurezza della libertà di tutti tanto forti da consentire quell'abrogazione e chissà quali altre belle cose. Ora, no. Non possiamo permettercelo. Non lo meritiamo.

(di Franco Cardini)

martedì 5 aprile 2011

Gli americani rivogliono La Maddalena, sopralluogo della Us Navy


Nell'arcipelago tornano gli americani. Non una forza a sé inquadrata nella Us Navy, come dal 1972 al 2008: gli uomini della Marina statunitense faranno parte di un distaccamento della Nato. Forse con loro ci saranno marinai di altre nazioni che aderiscono al Patto Atlantico. Ma niente più sommergibili a propulsione nucleare armati con missili atomici: almeno così sembra dalle prime indiscrezioni. Solo una nave simile all'Orion e agli altri mezzi-appoggio di un passato a stelle e strisce che si pensava dimenticato.

In questo caso, infatti, si parla piuttosto di unità per il supporto logistico e il pronto intervento, da tenere all'àncora sull'isola di Santo Stefano. Non si esclude che gli ufficiali Nato possano venire accolti nell'ex ospedale militare, trasformato in hotel superlusso durante i lavori per il G8 mancato e poi mai aperto in attesa del bando di gara della Regione. Tempi previsti per il via al piano: fine estate, probabilmente settembre.

Le novità che da Bruxelles e Roma rimbalzano alla Maddalena sono mozzafiato. Arrivano nel momento in cui il processo di riconversione dell'arcipelago per usi civili appare arenato. E in secche pericolose. Tra la pesantissima eredità lasciata dalla Cricca di Balducci, Bertolaso, Anemone & Company. Tra effetti delle inchieste giudiziarie, bonifiche mai concluse, appalti gonfiati ad arte. Tra le macerie di una ricostruzione in parte fallita. Tra i ritardi accumulati dalla nuova Struttura di missione della Protezione civile. Tra i palleggiamenti di responsabilità per il mancato decollo di mille iniziative che vedono da mesi defilati Regione, ministero dell'Ambiente, presidenza del Consiglio.

E pongono naturalmente tanti interrogativi. Che cosa significa in un quadro del genere l'ipotesi di rilancio della presenza militare nell'arcipelago? Come si concilierà tutto questo con i programmi per valorizzare l'industria delle vacanze? Come sarà possibile indirizzare verso un'unica direttrice il turismo e le incognite degli insediamenti bellici?

Per il momento è prematuro trovare risposte certe. L'intera operazione è coperta da strettissimo riserbo. Non si sa ancora se i dati raccolti sul campo da alcuni inviati Nato, insieme con l'iniziale screening sulle possibilità concrete d'azione del rischieramento, verranno effettivamente confermate. L'unica sicurezza è che la decisione di esplorare un ritorno a Santo Stefano rappresenta di fatto un'inversione di rotta rispetto agli ultimi anni. Di più: il riallineamento di forze è legato a quel che da mesi succede sulle coste nordafricane. Rivolte delle popolazioni arabe, guerra civile con conseguenti raid alleati in Libia, imponenti flussi migratori, mutamenti negli assetti geopolitici del Mediterraneo: tutto ciò ha indotto governi, analisti e comandi occidentali a preventivare misure alternative nei confronti delle posizioni consolidate assunte finora.

Lungo questa linea si colloca, per esempio, la decisione di rafforzare la base americana di Sigonella, in Sicilia. Nella stessa ottica, il potenziamento dell'attività di scali militari vicini all'isola, come l'aeroporto corso di Solenzara, oltre che il ruolo svolto da Decimomannu. E, ancora, il febbrile riavvio delle comunicazioni con i ponti radio collocati sui rilievi dell'isola di Tavolara. Non è dunque casuale che nelle ultime settimane il transito di sommergibili italiani, francesi e americani sia tornato quello dei tempi caldi. Periodi nei quali, come succedeva esattamente 25 anni fa, gli Usa si preparavano a sferrare un attacco contro Tripoli: corsi e ricorsi della Storia. O momenti della Guerra fredda contrassegnati dalla presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo.

Manovre ad ampio raggio, quindi. Ma, in attesa di riscontri formali per ora difficili da ottenere, alla Maddalena la sola ipotesi di un rientro americano scatena le reazioni più diverse. Se questa possibilità verrà confermata nei prossimi giorni, del resto, i confini del dibattito politico non saranno limitati all'arcipelago ma si estenderanno a tutta la Sardegna. E si ripresenterà lo scontro fra coloro che hanno creduto in un'alternativa di pace in questo caso fondata sulla riconversione turistica e tutti quelli che invece hanno pensato solo alle ricadute per gli affari immobiliari e per il commercio.

Le ultime notizie sono trapelate proprio tra le pieghe del costante conflitto tra i delusi dalla partenza dell'Us Navy e chi al contrario paventa il blocco totale delle iniziative basate sull'industria delle vacanze. In un contesto del genere non è così passato inosservato l'arrivo nell'ultima settimana di due alti ufficiali statunitensi, pare inquadrati nella Nato. I quali, come raccontano i bene informati che nonostante la lontananza non hanno mai smesso di coltivare rapporti con gli americani passati di qui, hanno spiegato in giro di voler dare un'occhiata ai moli e ai tunnel lasciati tre anni fa a Santo Stefano.

«Più per nostalgia che per altri motivi», avrebbero aggiunto. Per poi puntualizzare con autorità militari locali i veri motivi della visita: verificare lo stato dei luoghi per un'eventuale ripresa dell'attività sull'isola. Circostanze in poche ore riprese e rilanciate nelle conversazioni telefoniche tra la Sardegna e Washington. Dove più d'uno degli americani a suo tempo referenti di operatori maddalenini, oggi al Pentagono, avrebbe confermato le tesi allo studio della Nato.

Nel frattempo le voci sono corse sul web. Tra forum e blog, sul sito del consigliere regionale Paolo Maninchedda si annuncia un'imminente ispezione della Difesa alla Maddalena: «Perché questa visita? Che cosa sta accadendo di nuovo?», si chiede fra l'altro l'esponente sardista. Niente di strano che tutto si leghi così all'ultima ipotesi in campo. Ipotesi resa plausibile dal fatto che l'ex base per la manutenzione dei micidiali hunter killer sarebbe ancora in locazione alla Us Navy. Con un contratto dalla scadenza significativa: 2034.

lunedì 4 aprile 2011

Oswald Spengler, il profeta dell'Occidente sotto assedio


Oswald Spengler, l’autore del celebre Tramonto dell’Occidente (1918), forse il testo più emblematico sulla crisi della civiltà occidentale di tutto il Novecento, pubblica qualche mese dopo l’avvento al potere di Hitler (1933), un altro libro destinato a grande scalpore, Anni della decisione. In quest’opera - ora riedita dall’editrice Clinamen: O. Spengler, Anni della decisone (a cura di Beniamino Tartarini, pagg. 212, euro 15,90) - l’autore del Tramonto analizza impietosamente le conseguenze storiche della fine dell’eurocentrismo dovuto alla Grande Guerra. Ne emerge, per molti versi, un ritratto di impressionante attualità.

È noto che per Spengler la nascita, lo sviluppo e la fine di ogni civiltà sono dati dal rapporto tra Kultur e Zivilisation, ovvero tra civiltà e civilizzazione. Esse rappresentano, rispettivamente, l’impulso iniziale e lo stadio terminale, la fase creativa e quella decadente: ogni civiltà ha la sua civilizzazione, ovvero l’esaurimento della sua spinta vitale. Le civiltà, in altri termini, sono come organismi e, come tutti gli organismi, nascono, vivono e muoiono.

A giudizio del pensatore tedesco per secoli l’anima occidentale si è manifestata nella tensione verso lo «spazio infinito» e l’«estensione illimitata»; nella tendenza senza limiti al superamento di ogni ostacolo. Lo testimonia il dominio della superficie terrestre attuato dall’uomo europeo con le grandi scoperte geografiche, che hanno conferito a questa civiltà il suo inconfondibile carattere planetario. Di qui l’inevitabile imperialismo, espressosi nell’espansione politica, economica, spirituale verso tutto il globo. La ricerca di «un unico spazio spirituale», la creazione dell’idea di futuro, il senso di una direzione attiva rivolta a un fine da perseguire, la volontà di potenza dispiegatasi insieme al sentimento di libertà e di indipendenza, la passione dell’infinito sono tutte espressioni in qualche modo assimilabili al Dna autentico dell’Occidente.

Se non che, la storia degli ultimi due secoli si è situata all’opposto di questa autenticità perché la secolarizzazione, la laicità, il liberalismo, la tolleranza, la democrazia, l’individualismo, cioè l’insieme dei valori propri della società borghese, hanno portato l’Occidente alla sua dissoluzione; essi infatti lo hanno disarmato di fronte all’emergere di nuove forze vitali. Non sono perciò l’inizio di una nuova epoca, ma il crepuscolo destinato alla notte, segni emblematici ed inequivocabili della fine; sono la fase decadente della civilizzazione che è seguita a quella vitale della civiltà.

Ora questa visione tragicamente pessimistica e decisamente conservatrice - per non dire reazionaria -, della storia, viene riassunta ed amplificata in Anni della decisione: condanna senza appello dell’illuminismo e del razionalismo; critica radicale della rivoluzione francese e delle idee di libertà e di uguaglianza; odio verso la democrazia e tutto ciò che tende a livellare talenti, diversità e fortune; individuazione della teologia cristiana quale progenitrice dell’utopia socialista e dello stesso bolscevismo; disprezzo aristocratico verso le masse e verso la società di massa; rifiuto dell’«americanizzazione» della vita e dello sradicamento sociale degli individui; rigetto della moda, dello sport e del tempo libero, in quanto forme di conformismo e di stupidità; avversione della fandonia mediatica; disprezzo della partitocrazia e delle sue propaggini sindacali; rigetto per ogni forma di pacifismo e di abbandono della concezione virile ed eroica della lotta; orrore per l’urbanesimo e per l’esaurirsi di ogni legame organico fra uomo, mondo e natura; apologia della comunità organica rispetto alla società.

Soprattutto Spengler denuncia lo spirito irreligioso che pervade la contemporaneità. E poiché l’anima vera di ogni civiltà è religiosa, se ne deve dedurre che l’ateismo testimonia indirettamente la fine dei valori, e in modo particolare la fine dello spirito occidentale che ha perso così gran parte della sua creatività. Siamo, cioè, al «nulla radicale».

Tuttavia questa situazione si configura anche come una grande possibilità storica per un ritorno vigoroso della volontà di potenza in grado di arrestare il declino occidentale. Anni della decisione si presenta insomma come un’opera “politicamente scorretta” e del tutto anti “buonista”, che si pone contro i luoghi comuni della pubblica opinione e dunque contro ogni conformismo e ogni appiattimento ideologico e politico. Oggi essa può essere vista come una grande intuizione circa l’esito nichilistico del presente, portatore di un senso di angoscia e di smarrimento che supera ogni posizione politica, sia di destra come di sinistra: un affresco storico-sociale che risente dell’influenza di Nietzsche, sotto forma di una vulgata del suo pensiero. In tutti i casi il pensatore tedesco mette a segno alcune notevoli intuizioni, come quella del futuro “accerchiamento” dell’Occidente da parte delle masse del Terzo Mondo; anticipazione “profetica” che suona di indubbia attualità perché sembra anticipare, per molti versi, le tesi dello scontro di civiltà formulate da Samuel Huntington. A giudizio di Spengler, nei successivi decenni la civiltà occidentale sarebbe stata minacciata da due rivoluzioni mondiali, l’una proveniente dal basso, l’altra dall’esterno: «lotta di classe e lotta di razze. \ combatteranno fianco a fianco, forse come alleate; sarà questa la crisi più grave che i popoli bianchi - uniti o no - dovranno attraversare insieme, se vorranno avere ancora avere un avvenire. \ all’assalto ai bianchi da parte della massa complessiva della popolazione mondiale di colore, divenuta\cosciente del proprio essere comunità».

(di Giampietro Berti)

La fine della sovranità nazionale


Che a Londra si sia discusso se fornire di armi gli insorti libici è la conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che in Libia non si è intervenuti per “salvaguardare le vite dei civili”, che era la motivazione ufficiale della risoluzione Onu, ma a favore di una delle due fazioni in campo. Tuttavia la notizia più inquietante che viene dal summit di Londra è un’altra: la decisione di costituire ‘un Gruppo di contatto permanente con il compito di coordinamento fra gli organismi internazionali per interventi umanitari e di supporto delle opposizioni’. È la fine della sovranità nazionale. Nessuno Stato potrà più essere padrone a casa sua, dipenderà da un Superstato che sarà arbitro di decidere se si comporta in modo sufficientemente virtuoso con le opposizioni interne, tale da non meritare una punizione, a suon di bombe, come quella che sta subendo la Libia. Ma chi sono costoro che si arrogano questi diritti? Sono 36 Paesi, fra cui alcuni dei più importanti Stati democratici, o presunti tali, che hanno deciso di identificarsi con la ‘comunità internazionale’, concetto fumoso ma che viene regolarmente tirato fuori quando si vuole far rigar dritto qualcuno che non è ‘democratically correct’. Ma nel mondo ne esistono altri 140.

Naturalmente nessuno si sognerà mai di far decollare dei Mirage verso Mosca. L’attività del ‘Gruppo di contatto’ si dirigerà verso gli stracci che, per una ragione o per l’altra, non vanno a sangue all’Occidente. In qualsiasi paese è relativamente facile fomentare un’opposizione per avere poi il pretesto di intervenire. Gli americani lo hanno fatto in Kosovo, armando gli indipendentisti albanesi, e tentano di farlo quotidianamente in Iran. Gli inglesi lo hanno fatto in Libia. All’inizio della crisi libica stavo dalla parte degli insorti. Si simpatizza istintivamente con chi si rivolta contro un dittatore. Mi convinceva che affermassero che “in ogni caso la questione deve essere risolta fra noi libici, senza interventi stranieri”. Ma è bastato che Gheddafi reagisse perché si mettessero a invocare Papà Sarkozy e Mamma Nato. Fermati davanti a Sirte dalle truppe di Gheddafi gridavano: “Attendiamo i raid della Nato. Sarkozy pensaci tu. Arriva presto, che così poi noi possiamo avanzare”. È un modo molto comodo, questo, di fare gli insorti, di fare gli eroi con la mutua. Gli insorti afghani, che rappresentano un’opposizione direi piuttosto consistente visto che occupano l’80% del Paese, subiscono da dieci anni il trattamento che i rivoltosi libici hanno assaggiato per pochi giorni dagli aerei di Gheddafi. Non si lamentano. Si battono, disprezzando gli americani che usano quasi esclusivamente i caccia e i droni, aerei senza equipaggio, e facendo strame di civili (persino Karzai, di fronte all’ennesima strage, è stato costretto a dire ai suoi padroni americani: “Ma combattete almeno un po’ all’afghana!”).

È molto facile fare i muscolari quando si sa che si può colpire senza essere colpiti. È il caso di Pierluigi Battista che ha innescato una polemica contro i ‘pacifisti di destra’, in particolare Feltri. Ho conosciuto Battista quando facevamo Pagina. Era, con Aldo Piro, uno dei nostri ‘giovani di bottega’. Bravissimi entrambi. Ma Battista è uno che se gli scoppia un petardo a dieci metri sviene. Fa parte di quella schiera di “ammiratori dell’eroismo altrui, dei monopolizzatori del patriottismo delle retrovie, degli snob della guerra” così splendidamente descritti da Curzio Malaparte ne ‘La rivolta dei santi maledetti’ dopo Caporetto. Se ci fosse una sola possibilità che un missile di Gheddafi colpisse le nostre città, le nostre case e magari la sua, Pierluigi Battista diventerebbe più pacifista di Feltri.

(di Massimo Fini)

sabato 2 aprile 2011

Cacciate quello studioso, è un cattolico vero


Cacciatelo, crede nel disegno divino. An­cora una volta sale questo coro contro Roberto de Mattei, vicepresidente del Cnr, studioso di valore ma cattolico inte­grale. Ogni volta che il professor De Mat­tei critica Darwin, l’evoluzionismo e il rela­tivismo, combatte l’aborto e l’eutanasia, e infine sostiene che le catastrofi sono un castigo divino, i difensori della libertà e della tolleranza insorgono indignati non per criticarlo, come è comprensibile, ma per cacciarlo dal Cnr. La convinzione che le catastrofi siano un segno divino non è una trovata aber­rante di de Mattei o di qualche setta inte­gralista, ma è la fede che ha percorso per millenni non solo la dottrina cattolica, co­me sostiene lo stesso de Mattei, ma le prin­cipali tradizioni religiose del pianeta; ebraica, cristiana, islamica e pagana. In questi giorni si è parlato di collera divina e castigo celeste pure in Giappone, esente dai monoteismi.

È il rovescio della Divina Provvidenza: se credi che la mano divina intervenga pietosa nella storia, è coerente credere che intervenga anche per punire. Conosco de Mattei da una vita e mi ha sempre colpito, pur senza condividerla, la sua fedeltà intransigente alla dottrina cat­tolica. Non riesco a pensare un Dio immer­so nella storia che assegna terremoti e sal­vataggi, premi e punizioni. Ma ha ancor meno senso una fede comoda e ruffiana con lieto fine, dove c’è il paradiso ma non c’è più l’inferno, o è vuoto. È uscito in questi giorni un film terribile, «Non lasciarmi», dove un gruppo di cloni umani viene allevato per fornire pezzi di ricambio all’umanità. Dopo gli espianti d’organi, le loro giovani vite «completa­no » il loro corso, cioè muoiono. Ma quei cloni sono ragazzi e hanno emozioni, pen­sieri, amori, anima. A pensarci, quel Dio crudele che manda catastrofi per liberare dal peccato è come quella Scienza crudele che manda a mori­re le sue creature per liberare dalle malat­tie.

Anche lo scientismo ateo ha le sue vitti­me ed esige, come il Dio del Vecchio Testa­mento, di sacrificare Isacco in suo nome. Che dite, cacciamo pure i ricercatori che credono nella Scienza assoluta, o più sag­giamente puniamo le violazioni ma non le convinzioni?

(di Marcello Veneziani)