giovedì 10 settembre 2009

Il Placido furioso esalta Boffo e snobba Silvio


Fossi stato Michele Placido avrei detto: «Ho più di sessant’anni, sono un regista e un attore famoso, non ho nulla di cui vergognarmi e me ne frego del moralismo di chi mi vorrebbe impiccare in nome dell’anti-berlusconismo». Ma Placido appartiene a quel tipo umano, italiano e no, che vuol fare la rivoluzione con il permesso della polizia, è contro il capitalismo, purché non sia il suo, è solidale con i poveri purché se ne stiano a casa loro. Così gli è venuto naturale dire che no, lui Berlusconi non lo conosce nemmeno, e naturalmente non lo vota, e che sì, lo spirito del ’68 oggi è incarnato dalla «dignità» di Dino Boffo, su cui medita persino di scrivere un testo teatrale. Un grande Avvenire dietro le spalle potrebbe essere il titolo...

A Venezia Placido è arrivato con un film intitolato Il grande sogno, che sarebbe stato quello di cambiare il mondo attraverso la contestazione. «Sto cercando un posto dove stare da solo. Voglio fare l’attore e ho bisogno di privacy» dice Nicola (Riccardo Scamarcio), pugliese di provincia arrivato di fresco a Roma come arruolato in polizia. «Privacy», negli anni Sessanta...

Ogni volta che si rievoca il ’68 viene voglia di mettere mano al revolver che non si ha. È la sentina di tutte le nostalgie, il combinato disposto di tutte le ipocrisie, l’alibi di tutti i fallimenti, il concentrato di tutti i vizi nazionali: estremismo infantile, faciloneria, doppiogiochismo... «La rivoluzione non è la diarrea» diceva Flaiano, ma il colorito giallognolo di molti di quei reduci aiuta a spiegare tante cose, carriere comprese.

Nel film di Placido c’è tutta la pappa del cuore di chi preferisce l’agiografia alla realtà: lo studente lavoratore calabrese, la secchiona cattolica che scopre le ingiustizie sociali e la ginnastica sessuale, il rivoluzionario bello e impossibile che tira le molotov, una pratica che può portare lontano, anche a essere presidente del Consiglio, come avvenne per Massimo D’Alema...

Ovviamente ci sono gli scontri e ci sono le occupazioni, i genitori che non capiscono più i loro figli, i figli che non capiscono più i loro genitori, la borghesia corrotta e la borghesia codina... Come un accelerato, Il grande sogno non si risparmia una fermata, ogni stazione è una celebrazione. Non sorprende che, avendo visto nella sala delle conferenze stampa Mario Capanna, Placido abbia ceduto al piacere di averlo accanto: narcisismo e retorica vanno sempre di pari passo.

Non sorprende nemmeno che il film sia stato prodotto dall’odiata Medusa, ma Placido, purtroppo per lui, non è Giuseppe Tornatore, a cui in fondo si perdona tutto, persino il fatto che il suo Baarìa sia piaciuto all’infame Berlusconi. Peppuccio un po’ ci ha sofferto e un po’ se n’è fatto una ragione. Placido no, ha il complesso dell’intellettuale incompreso e quello di non essere considerato per il suo valore. Anni fa, sempre qui alla Mostra del cinema, i critici lo sbertucciarono perché in Ovunque sei si era dilungato sul pisello eretto di Stefano Accorsi e l’offesa ancora non l’ha mandata giù. È per questo che deve andare oltre, ribadire che anche lui ce l’ha duro, e che naturalmente, oltre a non votare il sempre infame Cavaliere non gli piace questo governo che uccide il cinema italiano... Come il suo film, è anche lui un accelerato: ferma a tutte le stazioni del politicamente corretto

(di Stenio Solinas)

Il progressista pentito contro la Chiesa sociale


Nulla di più lontano da Jacques Maritain della celebre formula di Augusto Comte: «Tutto è relativo, ecco il solo principio assoluto». Nelle sue opere l’aveva sempre duramente criticata, affermando che la verità è una sola, non si adatta ai tempi e non si può modificare. «Non c’è niente al di sopra della verità”: ecco la sua affermazione netta, non velata da alcun dubbio. Ma adesso, nel 1966, nella atmosfera inquieta del dopo Concilio, si rendeva conto che c’era in giro molta confusione; che, per l’appunto, la verità della dottrina veniva messa in discussione e che proprio alcuni uomini di Chiesa, addirittura teologi insigni come il domenicano Edward Schillebeeckx e il gesuita Karl Rahner, si facevano alfieri di uno sconcertante neo-modernismo.

Bisognava reagire a colpi di buoni argomenti, con determinazione pacata, utilizzando le armi della fede e di una serrata dialettica e, se necessario, facendo ricorso all’ironia. E Maritain lo fece con un libro che suscitò scalpore e che oggi, a 43 anni dalla prima edizione, viene riproposto dal Cerchio: Il contadino della Garonna. Un vecchio laico si interroga sul mondo presente, a cura di Antonio Costa, pp. 256, euro 19).

Tante battaglie

Diciamo subito che l’84enne Maritain, oltre la profondità del pensiero e la forza delle convinzioni, aveva dalla sua uno status intellettuale di prim’ordine e un prestigio che si era andato consolidando negli anni. Insomma, “veniva da lontano” e di battaglie ne aveva fatte tante, soprattutto da quando si era convertito. Evento tutt’altro che indolore, visto che il giovane Jacques, figlio di una “coppia scoppiata” (il padre era un cattolico per tradizione, la madre, protestante, si dichiarava «libera da ogni religione» e «nemica giurata dei preti»), era il classico borghese con pruriti sovversivi.

«Traditore della propria classe» - era lui stesso a definirsi così - viveva per la rivoluzione, sputando allegramente su ogni forma di perbenismo conservatore. Probabilmente in inconsapevole attesa di qualche “incontro” che, per dirla con Borges, fosse anche un “appuntamento”.

E gli incontri vennero: Ernest Psichari, greco di religione ortodossa, filologo e professore alla scuola Hautes Etudes di Parigi; Charles Peguy, uno strano tipo di socialista umanitario “tentato” dal cristianesimo; Raïssa Oumancoff, una giovane immigrata russa di origini ebraiche, sua compagna di studi alla facoltà di Scienze naturali della Sorbona; Leon Bloy, “cattolico belva” e reazionario.

Sarà proprio l’impeto missionario di Bloy a far approdare al cattolicesimo, sottraendola alle suggestioni di Bergson, la coppia Jacques-Raïssa: i due, infatti, giovanissimi, si sono sposati.

Magistero tomista

È il 1905 e da allora, sotto la guida di un valente direttore spirituale, il domenicano P. Humbert Clerissac i due vivranno una forte esperienza di crescita spirituale. All’insegna del magistero tomista che illumina tutto il cammino di Maritain ed è la viva sostanza della sua opera da Antimoderno (1922), dove critica la pretesa del pensiero moderno di ritenersi autosufficiente, a Umanesimo integrale (1936), in cui viene proposta una filosofia e una politica per i tempi nuovi, nemica dell’antropocentrismo, dell’individualismo borghese, dei totalitarismi di destra e di sinistra, e fondata sulla persona (Maritain ha collaborato con Emanuelle Mounier alla fondazione della rivista “Esprit” e guarda con simpatia al movimento “personalista comunitario”) che, nella sua essenza reale, è sempre incarnazione di Cristo, ma non deve sottrarsi all’incontro/scontro con la storia. Proposizioni in odor di eresia? A qualcuno parvero tali: su Umanesimo integrale piovvero strali e l’opera rischiò di essere messa all’Indice.

Intanto, lo “scandaloso” Maritain, che pure ne era stato un simpatizzante, aveva preso le distanze dall’Action Française, accusandola di far della politica un parametro assoluto, dunque di strumentalizzare la religione, e si era espresso con durezza nei confronti di Hitler e della persecuzione antisemita. Tanto che, nel 1940, ricercato dalla polizia nazista, si trasferì con la famiglia negli Usa, dove visse fino al 1960, insegnando nelle Università di Princeton, della Columbia e di Yale.

Nel 1960, morta Raïssa, Maritain rientrò in Francia e si stabilì a Tolosa presso i Piccoli Fratelli di Gesù per una vita di preghiera e di testimonianza cristiana. Ma la testimonianza è milizia e Maritain non si sottrae alla battaglia.

Più che mai quando, nel dopo Concilio, in sintonia con preoccupazioni e amarezze dell’amico Paolo VI (Maritain, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede dal 1944 al 1948, ha incontrato più volte Giovan Battista Montini), si rende conto che il timone della barca di Pietro va raddrizzato contro le ondate violenti del modernismo, del relativismo, del nichilismo. E così scrive Il contadino della Garonna, destinato a stupire chi aveva erroneamente visto in lui una specie di dc di sinistra, un progressista, un pensatore che non si inchinava di fronte alla Tradizione e voleva una Chiesa a misura d’uomo e aperta al sociale. Facendo proprie le parole di Paolo VI, Maritain critica l’umanesimo profano, l’antropocentrismo, l’uomo che pretende di sostituirsi a Dio attraverso tortuose speculazioni filosofiche tese ad annientare la verità della Rivelazione.

Ostile alle ideologie

Non si possono innestare nel tronco cattolico presunte illuminazioni “messianiche” in odore di protestantesimo, non si può adattare ai tempi il Vangelo. Maritain mette in guardia dalle ideologie che contaminano la dottrina e che, negli anni ’60, infettano tanti cristiani: non si è «cristiani per il socialismo», ma per Cristo, per l’Uomo, per la Verità. Forte anche la critica contro il naturalismo che lega l’uomo ai processi dell’evoluzione e contro il sociologismo che subordina la persona al gruppo sociale, il privato al politico, capovolgendo ogni gerarchia di valore e togliendo alla vita quel “significato” che è tensione verso l’Essere e volontà del Bene.

Attenzione, insomma: la Chiesa va verso il mondo, ma non è il mondo. E la Verità non è elaborazione sofisticata di teologi o arruffata costruzione di un “gruppo spontaneo”. Non è l’uomo-Dio, ma il Cristo incarnato. E cioè una continua provocazione antirelativista e antinichilista.

(di Mario Bernardi Guardi)

8 settembre 1943

mercoledì 9 settembre 2009

Ecco perché Fini non può dire qualcosa di destra

E se la vera destra fosse quella lì, caro Direttore, quella rivendicata dal Secolo d’Italia che si erge a difesa di Gianfranco Fini? Chiediamocelo. Senza spirito di polemica. Perché quello che sta dicendo il presidente della Camera dei Deputati, in punto d’argomento, può anche essere condivisibile. La destra è per sua natura laica, ghibellina, pragmatica. Condivisibile dunque. La destra è un progetto di comunità spirituale prima ancora che di massa. La destra ha un solo riferimento sociale: la modernità, l’epoca contemporanea al proprio tempo dove mette in cantiere il proprio patrimonio spirituale. E la destra è senza dubbio quella descritta da Flavia Perina e da Luciano Lanna nel loro giornale. Solo che non è attendibile. Perlomeno con la faccia di Fini. Perché la destra non può essere ridotta alla biografia aggiustata di un uomo solo.

La vera destra, appunto, è quella raccontata dai redattori del Secolo. È quella che con tutti i padri nobili del conservatorismo, del polemismo borghese e antiborghese, del pragmatismo nazionale e cosmopolita dei Giuseppe Prezzolini fa il Novecento. La vera destra è certamente quella evocata nella testimonianza di Michele Serra, giustamente identificata nella patria reazionaria dei galantuomini. Ed è quella che dalla stagione prefascista accompagna l’Italia nell’alveo culturale di una memoria: la civiltà universale di Roma. Certo che la vera destra è quella spiegata dal Secolo d’Italia. Solo che questa chimera della destra non è credibile in bocca a Gianfranco Fini. Altrimenti non si capisce come mai nel mettere in elenco i momenti migliori del Msi, Pino Romualdi e Beppe Niccolai per esempio, omaggiati dal giornale di via della Scrofa, si eviti di spiegare un unico dettaglio: come mai Gianfranco Fini era sempre contro e fuori questi momenti migliori. Nel Msi lui è stato il capo di un’area retriva e nostalgica. Era contro anche quel Pino Rauti che, con la sua teoria dello sfondamento a sinistra, con la sua lungimiranza di calabrese sognatore, potrebbe essere il vero precursore del Fini di oggi se solo si volesse essere maliziosi ma noi, caro direttore, vogliamo la serenità di giudizio.

Basterebbe, infatti, riascoltare attraverso l’archivio di Radio Radicale i tanti congressi di quel partito per ritrovare l’avanguardia e la lucida capacità d’analisi di quei capi missini contro il balbettio perbenista dei gerarchi finiani; basterebbe rileggere la produzione intellettuale di ciò che era la Nuova Destra di Marco Tarchi per avere cognizione del livello di un mondo, così effervescente e curioso del dibattito culturale, da essere messo alla porta senza tanti complimenti dal finismo. Ovviamente gli strumenti intellettuali tra il fondatore di Ordine Nuovo e Fini sono diversi, non vogliamo certo maramaldeggiare facendogli degli esami, ma non si capisce proprio questo punto: perché dovrebbe essere lui l’erede di un mondo che lottò sempre? Lui che si lascia alle spalle la specchiata italianità di un Roberto Menia per sposare gli applausi del conformismo di sinistra? Se ci fosse corrispondenza tra ciò che dice, tra ciò che il Secolo gli fa dire, con ciò che pensa, come minimo dovrebbe chiamare Tomaso Staiti di Cuddia, erede e sintesi della storia dei Romualdi e dei Niccolai, e pregarlo di rientrare non senza avergli chiesto scusa. Se fosse vero che la destra di Fini è quella che Il Secolo gli cuce addosso dovrebbe innanzitutto convertirsi a quel Msi degli eretici cui fece guerra in nome del nostalgismo, e solo per spirito di bottega, e dovrebbe farlo anche in coerenza al suo essere oggi un antifascista.

Se il quotidiano di ciò che fu il Msi, ieri An, oggi componente finiana del PdL, sente la necessità di proteggere il proprio leader corredando la perorazione con ben sette pagine si capisce che il livello di tensione è alto. L’eredità del berlusconismo è posta troppo alta. Lo difendiamo anche noi, caro direttore, dagli attacchi dei detrattori, di tutti quelli che gli danno addosso vestendolo quale traditore, badogliano, pupo di pezza della sinistra, ultima vestale del politicamente corretto qual è ormai il presidente della Camera. Ma quello che lui dice, corrisponde a ciò pensa

(di Pietrangelo Buttafuoco)

lunedì 7 settembre 2009

Piazza Venezia per sempre

L'idea, da qualcuno ventilata di cambiar alla storica Piazza di Venezia il suo nome plurisecolare, per mutarlo in Piazza dell'Unità d'Italia o qualcosa del genere, non è soltanto kitsch, bolsa, impresentabile, infame e antistorica. È tutto ciò, senza dubbio: ma è ancora peggio. È cretina. Che qualche autorevole politico l'abbia presa sul serio fingendo perfino di apprezzarla appartiene alle furbizie quotidiane di cui la politica appunto è tessuta. Piccoli intrallazzi, ideuzze conformiste travestite da coraggiose trovate rivoluzionarie, ipocriti cedimenti alle false necessità dell'oggi che dimenticano non solo ieri, il passato (il che è grave), ma soprattutto si rifiutano di guardare al futuro (il che è gravissimo).

Per respingere l'ideuzza trattandola per quel che è, una trovata ridicola, esistono tre ordini di ragioni: attualistica, politica e storica. Vediamole. Ragione attualistica. Stiamo preparando le solennità per il 150° dell'Unità d'Italia. Ma siamo dinanzi a un paradosso: un'importante forza politica, una forza di governo che sostiene (e condiziona) la maggioranza, nega che il processo d'unificazione nazionale così come si è presentato, con tutte le sue conseguenze, sia stato positivo. In questa posizione c'è molto di demagogico e molto di insostenibile: ma essa ha anche ragioni storiche obiettive, che dovrebbero invitare alla prudenza. L'Italia unitaria e centralistica, sabauda ma anche "neogiacobina", avrebbe potuto essere diversa: non secondo i modelli di Cavour e di Mazzini, ma secondo quelli di Gioberti o di Cattaneo.


Che, alla lunga, hanno vinto: difatti, la "seconda repubblica" è federalistica. Vogliamo prenderne atto, o vogliamo continuar a far la politica dello struzzo? Visto questo contesto, non "celebriamo" l'unità d'Italia. Discutiamone. Non facciamo retorica: esercitiamo la critica. Intitolare una piazza a qualcosa che il nostro recente assetto istituzionale in parte contesta di fatto, è una pessima idea. Ragione politica. Diciamo le cose come stanno. Si vuol cambiar nome a Piazza Venezia perché essa è indissolubilmente collegata al fascismo, alla figura di Mussolini, al famoso balcone. Ma che, non lo sapete che ancora oggi è tra le cose più fotografate della Città Eterna, che i turisti ci vanno ancora sotto e non c'è guida che non lo indichi? Il fatto è che, piaccia o no, il fascismo è stato parte integrante della storia di Roma e d'Italia, nel bene e nel male, e che nella storia remota e recente i tentativi di damnatio memoriae, le cancellazioni dei nomi e dei simboli, sono sempre caduti nell'inutilità o nel grottesco.

La storia va conosciuta, e per conoscerla bisogna anzitutto salvaguardarla. Sempre. Altro che cancellarla. I toponimi storici non andrebbero mai toccati. Vogliamo proprio dedicare una piazza all'Unità d'Italia, visto che Roma ne pare priva? La città è piena di belle e grandi piazze, anche centrali, con nomi banali o contestabili.
Ragione storica. Piazza Venezia si chiama così da quando il cardinale Pietro Barbo, che nel 1464 sarebbe divenuto papa col nome di Paolo II, fece edificare lo splendido palazzo che le dà il nome per farne la sua residenza cardinalizia. All'epoca, tutte le grandi potenze della Cristianità pretendevano che la Santa Sede concedesse a un loro rappresentante un seggio nel Sacro Collegio: in tal modo, esso era un parlamento dell'Europa cristiana.

Barbo, veneziano purissimo, era pertanto un "ambasciatore ufficioso" della Serenissima: e la piazza che egli occupò venne segnata da quella scelta. Non a caso vi sorge la chiesa di San Marco, patrono di Venezia. Quell'impianto storico-urbanistico fu rispettato nei secoli: al punto che il palazzo ottocentesco che sta di rimpetto a Palazzo Venezia, uno dei nuovi monumenti della Roma capitale, ne ripete le forme. Alla Piazza e al Palazzo Venezia i romani sono affezionati: anche quelli che non sanno la storia, anche gli antifascisti. Insomma, gli autori della proposta hanno perduto un'ottima occasione per stare zitti. Non se ne lascino scappare altre.

(di Franco Cardini)

Leggi anche l'opinione dell'On. Alessandra Mussolini

http://www.irispress.it/Iris/page.asp?VisImg=S&Art=53923&Cat=1&I=null&IdTipo=0&TitoloBlocco=Politica&Codi_Cate_Arti=27

Dove vuole arrivare il "compagno" Fini

Caro presidente Fini,

sono abituato agli attacchi personali di giornalisti e politici e non mi sono offeso dei tuoi nella circostanza dell'affare Boffo. Hai definito i nostri servizi in proposito esercizi di killeraggio, qualcosa di vergognoso, un esempio di giornalismo da bandire; le stesse accuse rivolteci dalle voci e dalle penne di sinistra non più intinte nell'inchiostro rosso, bensì nell'acqua santa; voci e penne che fino ad alcuni mesi orsono erano impegnate a criticare la Chiesa, il Papa, i vescovi, i parroci e anche i sacristi colpevoli di ingerire negli affari interni dello Stato italiano.
Poiché anche tu, come me, sei avvezzo agli attacchi (per lustri ti hanno dato del fascista, a te e perfino a Tatarella, giudicato indegno di sedere al governo perché missino), accetterai quanto sto per dirti con spirito sportivo. Specialmente adesso, che sei amato più dall'opposizione che dalla maggioranza, reputerai civile un dibattito alla luce del sole, addirittura pubblico e con i crismi della democraticità.
Sulla vicenda Boffo ti sei comportato, tu, e non il Giornale, in modo vergognoso. Hai espresso un'opinione dura verso di me senza conoscere, nella migliore delle ipotesi, i fatti. Se li avessi conosciuti saresti stato prudente. Invece hai sparato per il piacere di sparare o per convenienza, che è anche peggio.
Ti sei accodato agli intelligentoni del Pd e ai cronisti mondani di la Repubblica nella speranza di fornire un'altra prova che hai le carte in regola per entrare nel club dei progressisti. Non c'è altra spiegazione logica al tuo atteggiamento ostile verso un quotidiano che non ha ficcato il naso sotto le lenzuola ma nelle carte del Tribunale, divulgando un decreto di condanna e non le confessioni di una puttana come ha fatto la Repubblica con il tuo tacito consenso, visto che non risulta tu l'abbia biasimata per la campagna trimestrale, contro il leader del tuo partito, condotta esclusivamente sulla scorta di chiacchiere da postribolo.
Prima di unirti al coro invocante la mia crocefissione in piazza, dato che non sei ancora il segretario del Pd, bensì il presidente della Camera, avresti dovuto informarti. Bastava una telefonata a me, e non sarebbe stata la prima; se non altro, ascoltando l'altra campana, ti saresti chiarito le idee e le tue dichiarazioni sarebbero state più caute. Non ti è neanche passato per la mente che un conto sono i pettegolezzi e un altro i reati.
Obietterai. Ma tu hai dato dell`omosessuale al direttore dell`Avvenire. Ti rispondo, caro Fini: l`omosessualità non è un reato; e neppure un peccato, per me non cattolico. Piuttosto tu, amico mio, un paio di anni orsono ti lasciasti sfuggire una frase infelice e memorabile: «Un maestro elementare non può essere gay». Con ciò dando per assodato che un gay sia anche pedofilo. Converrai, di questo dovresti vergognarti.
Poiché l`omosessualità non è in contrasto con la legge, non mi sarei mai sognato di rimproverarla a Boffo. E in effetti gli ho solo «ricordato» le molestie a sfondo sessuale a causa delle quali è stato condannato dalla giustizia ordinaria, e non da me. Il Giornale si è limitato a riferire un episodio, ciò rientra nel diritto di cronaca (ho scritto cronaca, non gossip). Prendo atto che in un biennio hai cambiato posizione sui gay e non li consideri più era ora - immeritevoli di stare in cattedra. Però un'altra volta avvisaci prima delle tue virate, altrimenti ci cogli impreparati.
A proposito di virate. Sei ancora di destra o da quella parte ti sei fatto superare da Berlusconi? Non è una domanda provocatoria. Nasce piuttosto da una costatazione. Sulla questione degli immigrati, parli come un vescovo. Sul testamento biologico parli invece come Marino, quello della cresta sulle note spese dell`Università da cui è stato licenziato.
Intendiamoci, su questo secondo punto, molti sono d`accordo con te perfino nel Pdl, me compreso. Ma sul primo, scusa, è difficile seguirti. Tempo fa con Bossi firmasti una legge, che porta i vostri nomi, per regolamentare gli ingressi degli extracomunitari. La quale legge, nella pratica, si è rivelata insufficiente per una serie di lacune organizzative e burocratiche su cui sorvolo per brevità. Era ovvio che il governo di centrodestra, non appena insediato, correggesse e integrasse quelle norme introducendo il reato di clandestinità e, grazie alla collaborazione della vituperata Libia, i respingimenti, che non riguardano gli aventi diritto all`asilo politico, ma chi viene qui convinto che l`Italia sia un gruviera in cui ogni topo, delinquenti inclusi, ottiene ospitalità e impunità. A te la nuova disciplina, benché indispensabile, non va a genio. E vai in giro a dire che è una schifezza, e immagino, tu punti a farla cancellare. Affermi che occorre essere più umani. Edificante. Ma come si fa? Ci teniamo tutti gli immigrati incentivando altri arrivi in massa? E dove li mettiamo? Case, ospedali, scuole, servizi e posti di lavoro: provvedi tu a crearli? Con quali soldi? Buono chiunque a essere umano scaricando sulla collettività in bolletta - ogni onere. Perché viceversa non ti dai da fare per persuadere l`Europa, che ci fa le pulci, a condividere con noi il problema e a pagare le spese della soluzione? Per esempio con la spartizione, fra i vari Paesi membri della Ue, degli immigrati che approdano alle nostre coste? A te non premono soluzioni alternative, sennò faresti proposte anziché lanciare critiche alla tua stessa maggioranza.
Ti sta a cuore la simpatia della sinistra, che non sai più come garantirti. Il motivo si può intuire; se sbaglio correggimi. Miri al Quirinale perché hai verificato che la successione a Berlusconi avverrà con una gara cui è iscritta una folla. Fare il ministro non ti va; hai già dato. Fare l`uomo di partito, figurarsi; anche qui hai già dato. Continuare ad occupare la presidenza della Camera? Che barba. E allora rimane il Colle, lì a due passi da Montecitorio. Per arrivarci servono molti voti, ma non ne hai abbastanza nel Pdl. È necessario raccattarne a sinistra, alla quale, dunque, fai l`occhiolino nell`illusione di sedurla. Oddio. L`hai sì conquistata; lo si è potuto vedere alla Festa dell`ex Unità dove sei stato salutato quale novello Berlinguer. Ma la sinistra ti usa perché le fai comodo; sei il suo taxì. Al momento di eleggere il presidente della Repubblica (la prossima legislatura) ai progressisti sarà passata la cotta. E da loro non beccherai un voto.
Consiglio non richiesto: rientra nei ranghi. Torna a destra per recitare una parte in cui sei più credibile; non rischierai più di essere ridicolo come lo sei stato spesso negli ultimi tempi.
(di Vittorio Feltri)

sabato 5 settembre 2009

Bologna e Ustica, quando il sospetto cadde su Gheddafi

All'indomani della strage di Bologna, il Quirinale di Sandro Pertini non escluse la pista del terrorismo straniero, lamentando la presenza di agenti «libici, palestinesi e cecoslovacchi» in Italia e attribuendo tali infiltrazioni all'«eccesso di tolleranza» dei governi a guida democristiana «nei confronti del terrorismo di destra e di sinistra».
Questo si evince dalla lettura dei documenti sulla strage di Bologna che «La Stampa» ha ottenuto dal Dipartimento di Stato nel rispetto delle norme del «Freedom of Information Act». Il primo accenno a una «pista straniera» per la strage di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980, la si trova il 4 agosto, quando l'ambasciata americana a Roma informa il Dipartimento di Stato a Washington dell’esistenza di una possibile matrice libica: «Le deduzioni ci portano a dire che la matrice è neofascista ma alcuni importanti personaggi italiani ritengono che la regia sia all'estero e il leader del Psdi Pietro Longo fa riferimento a responsabilità africane, presumibilmente libiche».
Passano 72 ore ed è Richard Gardner, titolare dell’ambasciata, a firmare un telegramma all'attenzione del Segretario di Stato Ed Muskie per far sapere che Gerardo Bianco, capogruppo della Dc alla Camera, non solo «sospetta del coinvolgimento libico nell'attacco di Bologna» ma «chiede di avere un maggiore scambio di informazioni fra servizi segreti» al fine di chiarire le minacce che il regime del colonnello Muammar Gheddafi porta all'Italia. E Gardner lo rassicura sulla «stretta cooperazione con i servizi segreti italiani», sottolineando che l'intelligence americana è «costantemente in allerta sui segnali di sostegni stranieri per il terrorismo italiano». Il 14 agosto è il Dipartimento di Stato che invece scrive a Gardner, facendogli sapere che «le autorità italiane stanno indagando su un possibile legame fra l'attacco di Bologna e la misteriosa caduta di un DC-9 di una compagnia italiana nel Mar Tirreno dello scorso 27 giugno», suggerendo di «seguire da vicino» questa «prima indicazione di un possibile collegamento» contro il disastro di Ustica. La risposta da Roma arriva il 15 agosto, con un telegramma che cita come fonte «tre dissidenti libici», secondo i quali «Gheddafi garantisce addestramento e sostegno ai terroristi italiani tanto di destra che di sinistra nell'ambito di una strategia tesa a destabilizzare l'area del Mediterraneo».
Sono proprio questi due dissidenti a fare i nomi delle località dove Gheddafi addestra i terroristi: «Iufra, Ghadames e Sinuaen». Gli istruttori sarebbero «di più nazionalità», includendo «palestinesi ma anche europei e americani già impiegati dalla Cia», mentre «sovietici e est europei sono troppo prudenti per farsi coinvolgere direttamente in questi campi». Ma ciò che più conta per Gardner è quanto ascolta dal primo ministro Francesco Cossiga e da Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale, nei colloqui che ha l'8 settembre e di cui scrive il giorno seguente al Dipartimento di Stato, con un lungo telegramma intitolato «Terrorismo - Le opinioni del primo ministro Cossiga e del presidente Pertini» e classificato «Confidential»: «Sul coinvolgimento di stranieri nel terrorismo Cossiga ha osservato che l'Italia sa, da fonti americane, che vi sono campi di addestramento in Libia anche se nessun collegamento fra la strage ed elementi stranieri è stato ancora stabilito».
Quanto a Maccanico, «ha detto che il presidente Sandro Pertini è convinto che non solo elementi libici ma anche palestinesi e cecoslovacchi sono implicati nel terrorismo italiano al comune obiettivo di destabilizzare la nazione». E' questo il punto che Gardner più porta all'attenzione del Segretario di Stato, Ed Muskie: «Maccanico ha detto che l'Italia è per molti versi il Paese europeo più vulnerabile al terrorismo, dandone in gran parte la responsabilità a eccessi di tolleranza da parte del governo italiano nei confronti del terrorismo tanto di destra che di sinistra». Fino a quel momento tutti i governi italiani erano stati a guida democristiana. «Se il governo italiano avesse agito energicamente quando questo fenomeno era nelle sue fasi finali - sono le parole di Maccanico a Gardner - le dimensioni del terrorismo sarebbero totalmente differenti».

Il Risorgimento? È zoppo, ora gli storici lo riscrivano

Si fa un gran dibattere sulle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, su cosa sia giusto fare e cosa no. Sia i numerosi intellettuali che fanno parte del Comitato, sia quelli ancora più numerosi che ne sono esclusi manifestano scontentezza: opere pubbliche sì, opere pubbliche no? E, se sì, quali? Mi sembra che sarebbe il caso di cominciare dal principio, tanto noto quanto poco adottato «non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, ma cosa puoi fare per il tuo Paese».
Per esempio, il modo migliore (più economico e più utile) per celebrare l’Unità è che i suddetti intellettuali pubblichino un volume collettivo - basta organizzare un convengo entro l’estate del 2010 - per mettere nella giusta luce storiografica il nostro Risorgimento. Il quale viene tuttora trattato in modo retorico, enfatico e antistorico nei libri di testo delle scuole. Non sarebbe poi difficile semplificare gli atti di un simile convegno per farne un testo scolastico finalmente libero da patriottismi d’occasione.
Un simile testo farebbe giustizia di molti luoghi comuni che ci hanno trasmesso tanto nelle medie inferiori e superiori quanto nelle università. Non è edulcorando la propria storia che la si onora e la si fa amare, né tantomeno conoscere. Bisognerà, per esempio, dimostrare in modo esplicito che il Risorgimento non fu un movimento di massa voluto dal popolo, bensì l’attività intellettuale e politica di una minoranza, oltre che una campagna di conquista del Regno del Piemonte; che Cavour non andò mai a Roma in vita sua e che avrebbe preferito uno Stato federale composto da Nord, Centro e Sud; che ai cosiddetti plebisciti di annessione poté votare, per censo, meno del 2 per cento della popolazione; che Massimo d’Azeglio, dopo aver detto pubblicamente «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani», in privato scriveva: «Unirsi con i napoletani è come giacere con un lebbroso»; che non erano molti - al Nord, al Sud, al Centro - gli italiani che davvero si entusiasmavano all’idea dell’Unità.
C’è anche da affrontare, fra i molti nodi, quale fosse il reale stato dell’economia del Regno delle Due Sicilie: se è vero - come sempre più spesso si sostiene - che fosse molto migliore di quanto comunemente si creda. E quanto è vero che le banche meridionali vennero saccheggiate in favore del nuovo Stato unitario, che il latifondo baronale sia stato smantellato - con requisizioni - a favore di nuovi latifondisti, i quali poterono comprare vasti appezzamenti di terra a costo inferiore al valore effettivo. C’è da considerare se l’improvvisa e radicale uniformazione di sistemi contabili, unità di misura, programmi scolastici ecc. non avrebbe potuto venire realizzata, più ragionevolmente, in tempi più lunghi.
Il corpo centrale del volume, invece, affonderà il più gigantesco e intangibile tabù della storia d’Italia, cui nei manuali scolastici vengono dedicate poche righe, ovvero la «lotta al brigantaggio». Per combattere la ribellione delle popolazioni meridionali contro l’annessione forzata, il neo Regno d’Italia applicò una vera dittatura militare, impiegando l’esercito come contro un nemico esterno. Intere popolazioni meridionali vennero sottoposte a una spietata repressione militare, di cui si è persa traccia perché la documentazione relativa è stata scientemente distrutta, ma che provocò - secondo calcoli attendibili - almeno 100mila morti, con crudeltà feroci da entrambe le parti: soldati crocefissi alle porte delle chiese, popolane incinte stuprate e squartate...
Sono straordinarie le storie di singoli briganti e brigantesse, di battaglie e agguati, astuzie e vita quotidiana di un mondo che sembra antico e siamo invece noi, appena un secolo e mezzo fa.
Il «brigantaggio» - sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile - fu una rivolta di massa, sociale e politica. Era la prima, dura prova dello Stato unitario, sulla quale si giocava la sua credibilità internazionale; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai «briganti» viveri, informazioni «ed aiuti in ogni maniera». Con questo strumento operarono i nomi più illustri dell’esercito, Alfonso La Marmora, Enrico Cialdini, Enrico Morozzo della Rocca, Giacomo Medici, Raffaele Cadorna.
Intere regioni furono sottoposte a un regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti - decine di migliaia, non si sa quanti - dovuti ai «piemontesi». La popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore. Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: «Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali».
Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e cominciò a chiedersi se annettere «quei selvaggi» era stato un bene. Il banditismo venne stroncato senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri.
Alla fine del 1865, la lotta al «brigantaggio» era ormai vinta, anche se durerà almeno fino all’annessione dello Stato della Chiesa, che appoggiava in ogni modo i «briganti». Il governo centrale si era imposto, l’Unità era salva grazie all’esercito, ma a caro prezzo.
È una vicenda che né al liberalismo e né al fascismo conveniva illuminare, e una sorta di autocensura patriottica ha impedito di farlo negli ultimi sessant’anni, continuando a perpetuare l’enfasi da Cuore sulla quale sono cresciuti decine di milioni di italiani. La «lotta al brigantaggio» non fu lo scontro di pochi criminali, o ribelli: erano italiani che non avevano avuto diritto di voto nei plebisciti per l’annessione al Regno del Piemonte, ma avevano il diritto, umanamente se non legalmente, di rifiutarla. Ancora più drammatici furono i riflessi sulla popolazione meridionale: «Mi avete voluto a tutti i costi? Bene, adesso mantenetemi». Anche l’attuale reazione leghista, in fondo, senza rendersene conto, deriva da quell’antico episodio della nostra storia.
Sul mercato non esiste, e non è mai esistita, una storia del brigantaggio fatta da uno storico autorevole e pubblicata da una grande casa editrice. Esistono soltanto centinaia di - preziose - storie locali pubblicate da piccoli editori. Beninteso, un simile volume non dovrà essere aprioristicamente denigratorio. Arriverà, inevitabilmente, alla conclusione che l’Unità è stata indispensabile, quindi preziosa, per il formarsi di un popolo italiano, e anche per lo sviluppo e l’economia dell’intero Paese. Ma nessun popolo - come nessun individuo - può davvero prendersi in giro, fingendo di avere avuto una storia diversa da quella che ha avuto.
(di Giordano Bruno Guerri)