mercoledì 6 maggio 2009

Il vizio buonista che vuol cancellare le nostre identità

In Italia si dibatte spesso sull’immigrazione, meno spesso sul comunitarismo, dibattito invece estremamente diffuso in Francia, dove finisce col confondersi con un altro dibattito: integrare gli immigrati significa assimilarli?
A destra e a sinistra, all’estrema destra e all’estrema sinistra, e beninteso al centro, in Francia si denuncia oggi il comunitarismo etnico come una minaccia: nel discorso pubblico è la figura da respingere, la causa delegittimante. Ma pochi precisano che cosa intendano con comunitarismo. Il non definirlo favorisce l’unanimità. Ma in politica l’unanimità è generalmente sospetta. Proviamo a vederci più chiaro.
Denunciare il comunitarismo etnico è per la verità del tutto naturale per i fautori del repubblicanismo (o nazional-repubblicanismo) alla francese. Dalla rivoluzione del 1789, essi hanno ereditato l’idea che la nazione sia un tutt’uno indivisibile, da dirigere da un centro onnipotente, equidistante da ogni sua parte. Repubblicanismo è qui sinonimo di giacobinismo, che affonda le radici nella tendenza, già dell’Ancien Régime, a centralizzare un potere la cui sovranità era anche considerata, dopo Jean Bodin, una e indivisibile. Questo modo di concepire la vita politica esclude la sovranità condivisa (o ripartita) e il principio di sussidiarietà (o di competenza sufficiente). Facendo della «neutralità» la principale caratteristica della dimensione pubblica, si esclude anche il pubblico riconoscimento di identità regionali, lingue e costumi particolari, modi di vita e valori condivisi tipici di una parte soltanto dei cittadini.
Squalificate da un’unica istanza sovrastante, nel migliore dei casi tali differenze si riversano sulla sfera privata, sono cioè indotte alla discrezione, anzi all’invisibilità. In tale ottica, integrare gli immigrati è necessariamente sinonimo d’assimilazione, come la nazionalità è sinonimo di cittadinanza. La Repubblica «procedurale» non vuol riconoscere le comunità; riconosce solo gli individui e li integra, assimilandoli, perciò rifiuta di «differenziare» (distinguere) i cittadini secondo criteri etnici e religiosi: l’individuo sconta l’assimilazione con l’oblio delle radici.
Il concetto di comunità è vecchio quanto la filosofia politica. Risale almeno ad Aristotele. Ancor oggi, nel Nord America, i principali avversari del liberalismo (Charles Taylor, Michael Sandel) si dicono comunitaristi. Tradizionalmente, gli avversari della filosofia dei Lumi aderiscono a una concezione del fatto sociale come comunità più che come società. La dicotomia comunità/società è stata studiata da vari autori, a partire da Ferdinand Tönnies. La comunità ha carattere organico, olistico. È un tutto, la cui portata eccede quella delle parti: solidarietà e aiuto reciproco vi si sviluppano dal concetto di bene comune, non distribuito ugualmente fra tutti, ma di cui si gode subito, prima della spartizione. Invece la società si definisce fondamentalmente come somma d’individui: risulta dalla volontà razionale e si ordina attorno all’idea di contratto, perché i componenti della società decidono di vivere insieme, non per comuni valori, ma per reciproci interessi.
Storicamente, la filosofia dei Lumi ha soprattutto attaccato le comunità organiche, denunciandone il modo di vita come intriso di «superstizioni» e «pregiudizi», per sostituirvi la società degli individui. L’idea centrale era che l’individuo non esiste sulla base delle appartenenze, ma indipendentemente da loro, visione astratta d’un soggetto «disimpegnato», anteriore ai fini, che è anche la base dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Portata da una versione profana dell’ideologia dello Stesso, s’è così formata la teoria moderna che definisce l’umanità come sradicamento o strappo da ogni tradizione.La denuncia attuale del comunitarismo, che mescola critica delle minoranze etniche e critica del principio anti-individualista comunitario, si pone in diretta derivazione da questa filosofia, principale matrice dell’ideologia individualistica liberale e il cui argomentare, ieri usato contro i popoli minoritari della Francia (e contro ogni tipo di rivolta popolare), è oggi usato di nuovo, in pratica senza cambiamenti, contro le minoranze frutto dell’immigrazione. La denuncia «repubblicana» del comunitarismo riduce l’appartenenza del cittadino all’adesione a principi astratti. Equivale al «patriottismo della Costituzione» auspicato da Jürgen Habermas sulla base della sua teoria della ragione «comunicativa». Sotto l’apparenza della denuncia di gruppi autocentrici, si afferma così l’etnocentrismo nazionale. Ne sono simboli il persistente rifiuto francese di firmare la Carta di difesa delle lingue nazionali o minoritarie e la negazione dell’esistenza del popolo corso.
La politica è detta l’arte del possibile. Ordinata solo attorno a principi astratti o pie intenzioni, la politica «ideale» è un’antipolitica. La grande dote del politico è il realismo. Da questo punto di vista, la denuncia del comunitarismo deriva dall’accecamento volontario. Si agisce come se le comunità non ci fossero o si decide di non vederle, mentre esistono e la loro esistenza è lampante. La stessa preoccupazione di realismo dovrebbe far constatare che il modello dell’assimilazione individuale non funziona più, innanzitutto perché oggi i rapporti sociali si costruiscono fuori dallo Stato, poi perché l’attuale immigrazione, per carattere e ampiezza, non è più compatibile col modello nazional-repubblicano d’integrazione.Le comunità esistono. Perché non riconoscerle?
di Alain de Benoist

sabato 2 maggio 2009

Graziano Cecchini. 8 mesi x 500 mila palline

Di Miro Renzaglia (www.mirorenzaglia.org)

- Aho! Ma ce lo sai che hanno condannato quer futurista lì, quer tale, quer coso.. come se chiama… ah! sì! Graziano Cecchini… a 8 mesi de reclusione?

- Ma chi? quello che ha fatto de rosso la Fontana de Trevi?

- Sì, propio lui… Ma mica l’hanno condannato per la storia de Trevi…

- E de che l’hanno condannato, allora?

- Pe’ quell’artra storia… quella delle palline colorate buttate giù da Trinità de’ Monti e che so’ finite sulla piazza della barcaccia…

- E perché pe’ questa sì e pe’ quell’artra, inveci, no?

- Pare che a piazza de Spagna se sia configurato er reato de interuzione der servizio…

- E che servizio avrebbe interotto?

- Pare che er tram che passa pe’ di là, a causa delle palline nun sia potuto passa’…

- Ma me dichi davero?

- E che te sto a cojona’?

- Famme capi’. A Roma nun funziona ‘n cazzo: l’autobus pe’ li lavoratori so’ un miraggio, la metro mo’ funziona e mo’ no, li tassì te soleno a ogni corsa come minimo cinque euri colli tassametri taroccati, er traffico te paralizza a ogni incrocio e nun c’è mai ‘n pizzardone a sbroja’ la matassa manco a pagallo oro… e quello se becca 8 mesi de galera solo perché colle palline sue avrebbe fermato pe’ cinque minuti un tranve che ar massimo porta a spasso li turisti?

- Così pare…

- Vabbeh! Allora, quanto je dovrebbero dà de pena a chi crea o nun è in grado de risorve tutti li disservizi de circolazione de ’sta cazzo de città?

- E che me lo chiedi a fa’? Lo sai come la penso: come minimo l’ergastolo… Tanto più che dalle foto de quer giorno pare che li turisti se so’ divertiti ‘n casino colle palline de quer matto, mentre colli disservizi loro, dell’amministrazione, nun se diverte proprio nissuno…

- E lui, er futurista, coso lì, come se chiama? Cecchini… come l’ha presa?

- Eh! Nun ja risposto “me ne frego” ma poco ce manca… Pare jabbia detto: «Nun me chiamate più Cecchini… mo’ so’ “futurpalla”».

Quel che resta dei comunisti...

di Stefano Spada (www.mirorenzaglia.org)

A ripensare oggi a quella foto, con Bertinotti nero di rabbia mentre sopra di lui Cossutta stringe la mano a Diliberto, sembrano quasi bei tempi. E’ il ‘98 e il segretario del Prc ha appena votato contro la Finanziaria del primo governo Prodi che subito dopo cade. Rifondazione comunista si scinde: da una parte i duri e puri che decidono di continuare a restare nella coalizione di centrosinistra e di dare vita al Partito dei comunisti italiani, dall’altra chi scommette nel movimento dei movimenti che si sta per affacciare sulla scena mondiale (le contestazioni al Wto di Seattle saranno pochi mesi dopo, gennaio ‘99). Sì bei tempi, perché Rifondazione comunista pur sotto attacco perché accusata di aver riconsegnato il paese alle destre, inizia allora quel percorso di innovazione e di critica alle vecchie ideologie, ma anche un percorso per riconquistare il consenso, che oggi sembra quasi un eldorado. I comunisti e la sinistra si presentano infatti alle elezioni del 2009 spaccati, divisi, frantumati in numerosi simboli, partiti, idee, frazioni e gruppi che niente (o quasi) conservano di quella spinta che nel ‘98, pur sconfitti e sotto accusa, faceva pensare che un mondo migliore era possibile. Bastava volerlo. Bastava chiudere, criticamente e drasticamente, con la storia del socialismo realizzato. Le sue bruture. Le sue torture.

Ma quei tempi erano davvero così belli? Come sempre, le luci e le ombre si equivalgono. Checché se ne dica oggi di Fausto Bertinotti, il segretario del Prc, liberatosi dalla zavorra dei cossuttiani non di Cossutta (più intelligente e colto dei suoi seguaci) dal ‘98 in poi imprime a Rifondazione, svolta dopo svolta, un nuovo carattere: aperto, innovativo, capace di mettere in discussione tutto, dalla forma partito a un’idea di conflitto e di radicalità liberate dalla concezione violenta della storia. Svolte che gli costano critiche, attacchi anche personali da parte delle ali più dure del movimento, ma che vedono il partito seguirlo compatto. Così sembra, almeno. Perché la storia dell’ultimo anno dimostra che Bertinotti vinceva sì i congressi, ma non vinceva sul senso comune, non tanto della base quanto del gruppo dirigente in cui un peso, che poi si è rivelato determinante, lo hanno sempre avuto Claudio Grassi e i cosiddetti grassiani del partito. Nel ‘98 la scissione con Cossutta avviene solo a metà. Molti degli uomini e delle donne a lui legati, per storia e per idee, restano dentro Rifondazione, capeggiati appunto da Grassi. Una corrente, una lobby, una mozione? Chiamateli come volete, ma è con loro che Bertinotti ha dovuto, negli anni, mediare. Comunisti di vecchio stampo, non si sono mai ricreduti su niente. Neanche su Stalin. Neanche sulle foibe. Neanche sulla guerra fredda che per loro è ancora in corso.

Il “nuovo” volto di Rifondazione comunista oggi sono loro. Non è il segretario Paolo Ferrero che viene da Democrazia proletaria e che con la storia di un certo comunismo ha poco a che fare. All’ultimo congresso, dopo la sconfitta elettorale del 13 aprile, a Chianciano Ferrero diventa segretario grazie all’accordo con i grassiani e con qualche sparuto trotskista. Un accordo letale. Il nuovo segretario cede su tutto alla vecchia ideologia. Caccia Piero Sansonetti da Liberazione, chiude tutte le porte in faccia alla mozione legata a Nichi Vendola. E’ dentro questo clima che matura la nuova scissione. Nasce, legato a Vendola, il Movimento per la sinistra, confluito per le prossime europee nel cartello elettorale di Sinistra e libertà (con i Verdi e i Socialisti di Nencini). Ma i rivoli della ex Rifondazione sono molti di più. Dentro lo stesso Prc convivono i ferrariani, le femministe, i grassiani, i trotskisti e Rifondazione per la sinistra, cioè coloro che avevano votato Vendola al congresso di Chianciano ma che al momento della scissione hanno deciso di restare. I maligni dicono perché attratti da nuove poltrone, i più buoni dicono perché poco convinti dalla nuova formazione capeggiata dall’attuale presidente della Regione Puglia.

Fuori da Rifondazione, oltre al Movimento per la sinistra, esistono anche altri due partiti originari del Prc: Sinistra critica, quella di Turigliatto (il senatore del Prc cacciato perché aveva votato contro il rinnovo della missione di Afganistan) e il Partito dei lavoratori, capeggiato da Marco Ferrando. Entrambe le formazioni hanno depositato il simbolo per partecipare alle prossime elezioni europee, ma non è detto che si presentino davvero (dovrebbero infatti prima fare la raccolta firme). Rifondazione comunista, invece, per quegli strani giri di valzer della storia, si riallea, dieci anni dopo, con i fratellastri del Pdci, con una associazione di consumatori e con Cesare Salvi (ex Ds e poi ex Sdi) mentre è saltato l’accordo con Sinistra critica.

Alle europee del prossimo giugno, gli elettori e le elettrici avranno solo l’imbarazzo della scelta. Ma i sondaggi dicono che molto probabilmente nessuna formazione di sinistra raggiungerà il quorum. Tutti a casa? Molto probabilmente sì. E non sarebbe una cattiva notizia, se finalmente servisse a uscire dai settarismi e fosse occasione per creare una sinistra radicale e conflittuale, ma ormai post comunista, capace di parlare davvero alla gente dei suoi problemi. I problemi di oggi non dei proletari della Russia all’inizio Novecento. Progetto che, ad onor del vero, fin dal suo nascere ispira Vendola e il suo Movimento per la sinistra.

Ma il vero superuomo rinasce come superdonna

di Daniele Abbiati da Il Giornale

Il più bel complimento fatto a Nietzsche (ma non ai nietzscheani) è di Georg Simmel e porta la data del 23 ottobre 1897. «Non vi è nulla di più facile del “confutare” Nietzsche. Le metamorfosi a balzi del suo sviluppo speculativo, il violento fantasticare con cui interpreta la storia, le contraddizioni logiche della sua immagine del mondo sono talmente palesi da far sì che il problema scientifico nei suoi confronti non possa affatto consistere nel dimostrare i suoi errori, ma nello spiegare come mai, nonostante questi errori, egli abbia potuto suscitare impressioni tanto profonde non soltanto presso quanti vanno matti per le mode letterarie o adorano la bella forma».
La forza dell’autore consisterebbe nel fascino più che «letterario» della sua opera, nel suo essere filosofo nonostante se stesso. La considerazione compare nella recensione al saggio di Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche. Infatti, un autentico «culto» era fiorito, in tutta Europa, intorno alle povere membra e alla mente disastrata del padre del Superuomo che morirà di lì a tre anni. Con la catastrofe torinese del gennaio 1888 era calato il sipario sulla persona di Nietzsche, ma se n’era alzato un altro, ben più pesante, sul Nietzsche maestro-guru. «Fenomeno psicopatologico», «borghese», «aristocratico», «teorico del capitalismo», «socialdemocratico», «anarchico», «evoluzionista»: le etichette applicategli nel giro di cinque-sei anni sono molte, e tutte in qualche misura storte, posticce.
E ancor oggi sul corpus di Nietzsche permangono le stimmate di quelle e altre appropriazioni indebite. Riveduto e... scorretto dalla sorella Elisabeth in chiave materialmente (e non eticamente) volontaristica e reazionaria, il Nostro subì l’Anschluss da parte del delirio nazista che se lo appuntò al petto come una medaglia intellettuale, ignorando o fingendo d’ignorare, fra l’altro, il suo più volte dichiarato anti-antisemitismo. Filtrato dai disastri novecenteschi pre e post Terzo Reich, di Nietzsche è rimasto soltanto l’ectoplasma nichilista, recentemente oggetto delle critiche papali, mentre la sua estetica, il suo umanesimo, il suo illuminismo sono confinati nello sgabuzzino degli studi specialistici.
Per gustare tutto Nietzsche occorre leggerlo con animo sgombro da pregiudizi. Lo scrisse Mazzino Montinari, con Giorgio Colli esegeta principe del filosofo: «Chi, nel leggere Nietzsche, non senta di respirare liberamente, deve starne lontano, per non diventare una caricatura, per non finire nietzscheano». Ma può servire anche ripercorrerne la parabola con l’aiuto di chi ebbe con lui una frequentazione tanto breve quanto intensa. Come Louise Andreas-Salomé (nella foto sotto) che egli forse amò di un amore maschile e che godette della sua stima, oltre che di un’intimità e di una consonanza tutte femminili. In una lettera ad Elisabeth, suprema nemica di Lou, Friedrich scrive: «Di tutte le conoscenze che ho fatto, quella con Lou è una delle più preziose e delle più feconde. Solo a partire da questo rapporto divenni maturo per il mio Zarathustra». Ora, a trent’anni dall’edizione Savelli, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, scritto dalla zarina del suo cuore nel 1894, torna nelle nostre librerie (Friedrich Nietzsche), SE, pagg. 226, euro 24, a cura di Enrico Donaggio e Domenico M. Fazio, con ricca appendice iconografica).
Ci voleva proprio una donna per valorizzare come meritano alcuni snodi del pensiero nicciano. Per esempio il rapporto uomo-donna: «Gli animali la pensano diversamente dagli uomini riguardo alle donne: per loro la femmina è un essere che produce \. La gravidanza ha reso le femmine più miti, più caute, più timorose, più contente di soggiacere: allo stesso modo la gravidanza dello spirito genera il carattere del contemplativo che è affine a quello femminile» (La gaia scienza, 72). Lo spirito è dunque gravido, e attende maternamente i propri frutti. Quanto alla sfera religiosa, Lou scrive: «La possibilità di trovare nelle forme più diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato “per il Dio perduto”: è questa la storia del suo spirito, delle sue opere, della sua malattia». E ancora, a proposito della solitudine: «La questione fondamentale di Nietzsche non riguardava la storia dell’anima umana, ma il modo in cui la storia della sua propria anima poteva essere intesa come quella dell’umanità intera». E il ritmo (verrebbe da dire wagneriano) impresso alla vita dall’«eterno ritorno»? Non una conquista dell’intelletto, ma l’angosciosa scoperta di una dannazione: «La quintessenza della dottrina del ritorno, la sfavillante apoteosi della vita \ costituisce un’antitesi così profonda al suo tormentato modo di sentire la vita stessa, da darci l’impressione di una maschera sinistra».
Il tragico Nietzsche che in Ecce homo confessava di amare L’Aquila in quanto «antitesi di Roma» (e la cosa, oggi, pare un sinistro presagio), l’ostaggio di tanti seguaci traditori, ci guarda negli occhi, dalle pagine di Lou, e par che dica: «E se un giorno la mia intelligenza mi abbandonerà \ possa almeno il mio orgoglio volar via con la mia follia! - Così cominciò il tramonto di Zarathustra». È il prologo del profeta. Sembra un’alba, ma è lo struggente tramonto di un uomo.