lunedì 30 novembre 2009

Se a scoprire il Nuovo mondo fossero stati gli antichi romani

Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà detto «Ah se non avessi fatto questo o quello le cose sarebbero andate diversamente»: se avessi dato una risposta invece di un’altra, se fossi partito un’ora prima o solo cinque minuti dopo, se avessi o non avessi incontrato quella persona, se fossi o non fossi entrato in quel luogo, se avessi o non avessi comprato quella cosa, se fossi arrivato in anticipo o in ritardo a un appuntamento, se mi fossi o non mi fossi fermato al semaforo, e così via. La nostra vita è determinata spessissimo non da unici e determinanti eventi, ma da una serie pressoché infinita di piccole scelte, una sola delle quali è sufficiente a decidere l’indirizzo della nostra esistenza: in una lunga sequenza del film Lo strano caso di Benjamin Button di David Fincher (2008) si assiste a una serie di minuti eventi che potevano e non potevano benissimo accadere, ma che una volta accaduti hanno come conclusione un incidente (un taxi investe una donna) che avrebbe potuto non verificarsi se solo uno dei precedenti fatti non si fosse a sua volta verificato interrompendo la catena (una telefonata, una scarpa slacciata, un semaforo rosso ecc.). Lo stesso accade in sintesi nel precedente Sliding Doors di Peter Howitt (1998), dove prendere o perdere una corsa della metropolitana cambia completamente l’esistenza della protagonista.

Se questo accade nella vita di ognuno di noi, figuriamoci quel che accade nella complessa trama della Storia: basta che una piccolissima decisione, parola, fatto non avvenga o avvenga in un modo diverso perché le cose possano andare diversamente. E Se la storia fosse andata diversamente è proprio il titolo dato nel 1999 dal Corbaccio per la traduzione della prima storica antologia di questo tipo (What if? del 1931) da me curata e che ha fatto scoprire in Italia ai lettori e ai critici non specialisti l’esistenza di un particolare genere di narrativa, la storia alternativa o anche ipotetica o anche controfattuale, che ha però anche un nome più altisonante: ucronia (non-tempo, come utopia è non-luogo) coniato nel 1859 da Charles Renouvier, un filosofo francese totalmente inviso a Benedetto Croce e invece apprezzatissimo da un anticrociano come Adriano Tilgher.

Il perché è presto detto: l’ucronia mette in discussione il fine predeterminato della Storia, il suo avere uno scopo intrinseco (e in ogni caso positivo), un suo finalismo imperscrutabile, l’accettazione dunque del Fatto Compiuto inteso come il leibniziano «migliore dei mondi possibili». Se invece un piccolissimo evento (un «sì» o un «no», l’aver girato a destra o a sinistra, l’aver detto una parola interpretata male eccetera) può modificare radicalmente il corso della Storia con la «S» maiuscola, non vuol dire altro che questa ineluttabilità intrinseca della Storia medesima non esiste, ed essa non può essere più in quanto Fatto Compiuto un feticcio da adorare secondo la filosofia hegeliano-marxista.

Ora, nell’ultimo decennio la storia alternativa ha avuto in Italia un’ampia diffusione con romanzi e antologie, specie se ambientata nel Bel Paese: troppo gustoso poter cambiare le nostre vicende nazionali, molto lontane e molto vicine, per non essere allettati dall’idea. Ma scrivere storia alternativa non è così semplice come può sembrare d’acchitto: per non cadere nella faciloneria o nella demagogia, nel grottesco o nel ridicolo non si può andare a ruota libera, ma occorre invece (non paia un controsenso) seguire da presso la Storia, quella vera, per poi allontanarsene in modo verosimile: la ricostruzione dell’ambiente e di personaggi «veri» è essenziale: le assurdità fanno altrimenti cadere miseramente la trama.

Uno degli autori italiani che con maggiori risultati si è dedicato a questo genere è Mario Farneti il quale, partendo da un suo racconto del 1999 ha sviluppato una trilogia di romanzi (Occidente, 2001; Attacco all’Occidente, 2003; Nuovo Impero d’Occidente, 2006, tutti editi dalla Nord) che in milleduecento pagine complessive riscrive la storia italiana e occidentale dal 1972 al 2012 con l’Italia che non è entrata nel secondo conflitto mondiale ed è diventata la nazione egemone come oggi sono gli Stati Uniti. Ora Farneti torna in libreria con il primo romanzo di una diversa trilogia: Imperium Solis (Nord, pagg. 454, euro 18,60) che abbandona la contemporaneità e porta il lettore nell’antico mondo mediterraneo del IV secolo d.C. quando, durante la battaglia di Ctesifonte (26 giugno del 363), s’infranse il sogno imperiale di Flavio Claudio Giuliano ucciso nel corso di una battaglia contro i Parti, in una desertica piana dell’attuale Irak. Questo ci dice la Storia, mentre nell’ucronia di Mario Farneti l’imperatore Giuliano non muore, viene creduto (e si fa credere) morto e intraprende una vera e propria missione divina: andar lì dove il Sol Invictus di cui è devoto va a concludere il suo splendente tragitto giornaliero. Egli parte dunque verso l’Estremo Occidente con le sue navi e le sue legioni, ma anche con i suoi sacerdoti, filosofi, scienziati, geografi e storici, per approdare sulle sponde della leggendaria, immensa isola di Meropide. Si troverà al cospetto di quelle che mille e cento anni dopo Cristoforo Colombo chiamerà le Indie Occidentali, che ovviamente acquisirà all’Impero di Roma facendo prendere alla Storia del mondo in generale e dell’Europa in particolare un corso diverso, come anche si vedrà nei romanzi che seguiranno.

La trama che Farneti, bravissimo in ciò, offre al lettore non è ovviamente così lineare: anzi è molto complessa, ricca di trovate, colpi di scena, personaggi maggiori e minori che appaiono e scompaiono, nonché di veri tour de force linguistici con originalissime soluzioni. In Imperium Solis si mescolano avventura e storia, religione e magia, ipotesi plausibili anche se improbabili ma non impossibili, al punto che ci si chiede perché in fondo gli eventi non siano andati effettivamente come Farneti ce li racconta. Inoltre, alcune dettagliate cartine ci aiutano a capire gli spostamenti, certe volte frenetici, dei principali personaggi nel Vecchio e Nuovo Mondo.

Non mancano l’ironia e l’autoironia quando l’autore legge in filigrana la Storia reale e il lettore avveduto, accorgendosene, non potrà che sorprendersi. Magari penserà in alcuni momenti che si tratti di esagerazioni, ma è sufficiente andare a controllare la conclusiva «Nota dell’Autore» per rendersi conto che molti particolari che pensava totali invenzioni in realtà hanno punti di riferimento storici o scientifici ben saldi. Spesso sconosciuti o inaspettati, ma documentatissimi. Infatti solo una vasta opera di informazione, come dimostra la bibliografia del romanzo, poteva evitare clamorosi errori.

L’arrivo degli antichi romani in America era stato descritto anche da romanzieri statunitensi, ma ne erano usciti romanzetti di poco spessore: con Imperium Solis ci troviamo invece di fronte a un vasto affresco, quasi onnicomprensivo, che tenendo conto delle specificità dei popoli all’epoca esistenti nel Nuovo Mondo e della specificità della gens romana, riesce a darci una storia leggibilissima e avventurosa, divertente e seria, affatto superficiale e ricca di spunti culturali che ci fanno riflettere.

(di Gianfranco de Turris)

I miti, fedeli compagni di solitudine


All’inizio degli anni Sessanta un sedicenne fragile e orgoglioso se ne andò in Inghilterra con lo scopo dichiarato di imparare la lingua e quello inconfessato di perdere la verginità. «Non aver ancora toccato una donna mi pesava intollerabilmente, come se il mio sangue fosse cemento appena impastato, e ogni giorno che passava si solidificasse sempre di più, minacciando che niente vi avrebbe più potuto aprire una breccia, far sgorgare ancora il liquido vitale». Se ne stava appoggiato al bancone dei pub, avendo di fronte due bicchieri di Martini, uno per sé e l’altro per l’eventuale ragazza che ne avesse ricambiato il sorriso. Consumava inutili serate in locali da ballo sordidi come solo sanno esserlo quelli della provincia inglese, si ostinava in pedinamenti notturni dietro volti e corpi su cui aveva fantasticato, sempre nell’attesa che l’imprevisto lavorasse per lui: la timidezza salvata dal Fato...
Ci sono adolescenze solitarie e sprezzanti, «pochi atteggiamenti auto-consolatori sono in realtà più tormentosi e infelici», alle quali la normalità è preclusa per troppa sete di assoluto. Vogliono troppo, pensano troppo, si illudono troppo. Fosse stato il sesso una semplice partita da sbrigare, un fatto tecnico come per la maggior parte dei suoi coetanei, quel sedicenne non sarebbe stato così infelice e così incapace. Ma lì dove gli altri vedevano un atto fisico o una tecnica, lui vedeva, confusamente certo, eppure in modo nitido, un mistero e una sacralità, un’ossessione poetica, una scintilla divina in grado di ancorarlo al Tutto, di dare un senso a un’esistenza altrimenti incomprensibile. «L’adolescenza è anche questo: un’incubatrice del destino, un magma di pura potenzialità e di desideri mutevoli: per questo le contraddizioni che la agitano sono le più lancinanti e le più dimenticate».
Alla fine il caso, ovvero il Fato, ebbe compassione, si incarnò in una insegnante ventitreenne e il risultato fu «una sensazione di liberazione, di sgretolamento e di ricostruzione, di energia che scorre, di sangue che schizza come aghi di pino in un vortice che si alza verso il culmine della gioia come la marea verso la luna, una certezza di continuità, di rinnovamento - di avere radici, di avere germogli - di vita, delle chiavi più segrete e più manifeste della vita; se avessi potuto fermare quell’attimo, mi sarebbe toccata un’eternità di piacere fisico e disincantato, travolgente e leggero, forse perfetto». Non so a quanti sia dato ricordare così la loro prima volta...
In questo «ritratto dell’artista da giovane» c’è tutto quello che poi Giuseppe Conte sarebbe diventato, il poeta e il romanziere, il mitografo e il viaggiatore: e non è un caso che Terre del mito (Longanesi, pagg. 329, euro 18,60), il suo nuovo libro, racconti una vocazione e un apprendistato, una scelta e in qualche modo una missione, l’eterna meraviglia di chi a ogni passo si accorge che c’è qualcosa da scoprire, qualcosa per cui vale la pena gioire, combattere e soffrire.
Conte è una figura anomala nel panorama letterario italiano: è uno scrittore «civile», termine preferibile all’usurato e ambiguo «impegnato», ma lo è in perfetta solitudine, senza rete di cordate intellettuali compiacenti; un narratore puro, ovvero un raccontatore di storie, ma con alle spalle il nocciolo duro di una concezione del mondo epica e tragica, un macinatore di chilometri e di continenti che ha però scelto di vivere in provincia. «Ci sono stati periodi in cui, dovunque avessi casa, non ci passavo più di due giorni la settimana», frutto forse «di una strana paura della stasi, dei muri di casa, della stessa continuità del vivere». Infine, e soprattutto, è un mistico fatto di carne.
Terre del mito è all’apparenza un libro di viaggi, ma «libro», ci ricorda Conte, «è in origine la “pellicola tra il legno e la scorza degli alberi”, si scriveva su di essa, prima della scoperta del papiro: dunque nella parola “libro” c’è il ricordo lontanissimo, confuso, della pioggia e del fuoco, delle radici e del cielo, dei venti e dei nidi degli uccelli, della luna e del sole, del buio e della luce». Così, Terre del mito è principalmente «un pozzo delle correnti di tutti i mari, vetrina cosmica, palazzo di Minosse, magazzino della scorta, torretta, fortezza, abbraccio, colpo di pugnale, carezza, clessidra e infinito». Che vada alle isole Aran o alle Orcadi, nell’India del sud o nel Nuovo Messico, il suo è sempre un mischiare l’alto e il basso, l’approfondimento e l’annotazione, la storia e la quotidianità, il ricordo e il presente, la gravitas e l’ironia...
Allo stesso modo, il mito che ne percorre le pagine non è solo o tanto una storia o una memoria, un’eco del passato o una passione intellettuale, ma una sorta di energia spirituale ancora viva in un mondo che sembra averla disintegrata o dimenticata. Di fronte alle rovine celtiche di Dùn Aengus, «una dimora barbarica e nuda», Conte ha la sensazione che «la divinità, il principio stesso della divinità è sempre giovane e insieme arcaico, carezzevole e insieme atroce. Ebbi per la prima volta la certezza che ci fu un tempo in cui noi, dal cuore della nostra angoscia nebbiosa di mortali, comunicavamo, avevamo commercio con gli dèi».
Come tutti i politeisti esuli in un mondo monoteista a loro estraneo e per molti versi ostile, Conte sa bene che ormai l’essenziale è invisibile agli occhi e l’unica strada percorribile è quella dell’ascolto: una specie di respiro cosmico da cui lasciarsi avvolgere. In India, dove la densità delle divinità è sterminata, ciò è a fatica forse ancora possibile, e uno spirito religioso può lì ancora cogliere il terreno privilegiato degli archetipi, del mito: il sacro nella sua dimensione notturna, laddove, decretata la morte di Dio e trasformata la religione in istituzione, ciò che altrimenti gli resta è disperazione e/o rassegnazione. Qualcosa del genere è avvertibile anche nelle riserve indiane del Nuovo Messico e non è un caso che il Conte ragazzo avesse nella sua camera una foto di Capo Giuseppe, dei Nez-Pércès, l’eroe di Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, il sacerdote-guerriero che diceva: «La Terra e io siamo dello stesso parere». E non è sempre un caso se «quella foto c’è ancora. Non ho avuto niente di cui pentirmi al contrario di tanti miei coetanei che sembrano essersi neppure pentiti, ma dimenticati di aver idolatrato Stalin, Lenin, Mao, Ho Chi Min, Giap, Pol Pot, Castro e che devono aver passato la tarda giovinezza a portare ritratti in cantina».
Eppure, e lo dico da panteista superstite di un mondo greco-latino scomparso, ciò che più mi commuove nella queste di Terre del mito è l’amaro vagabondare del suo autore sulle tracce di Afrodite, in una Cipro devastata dall’edilizia selvaggia, l’incuria, il turismo colpevolmente straccione. Alla fine, nelle rovine di Paphos, la «Casa di Dioniso» gli offre due sbiadite iscrizioni in greco: Anche tu recita la prima, Abbi gioia, la seconda. Un saluto e un augurio. «Le ripeto a me stesso mentre seguo i custodi verso l’uscita, e rivedo il sole tramontante di là delle stoppie e del Faro; e mai come in questi momenti ho avvertito, della gioia la parte di struggimento doloroso e mortale». Sembra la chiusa del baudelariano Voyage à Cythère: «Dans ton île, ô Vénus! je n’ai trouvé debout/ Qu’un gibet symbolique où pendait mon image.../ - Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage/ De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!». Soltanto chi mette il proprio cuore a nudo può farlo sanguinare senza timore.

(di Stenio Solinas)

domenica 29 novembre 2009

Bin Laden, il rapporto del Senato: « Nel 2001 Usa a un passo dalla cattura»


Nel dicembre del 2001, Osama Bin Laden era accerchiato e le truppe americane «senza ombra di dubbio» erano vicine alle sua cattura. Il numero uno di Al Qaeda si trovava a Tora Bora, in Afghanistan, ma i vertici militari presero la decisione di non attaccare il suo rifugio con tutte le forze a disposizione. Lo rivela un rapporto commissionato dal Senato americano alla Commissione per gli Affari Internazionali dal titolo significativo: «How we failed to get bin Laden and Why it matters today» («Come abbiamo fallito a catturare Bin Laden e perché ciò è importante oggi»). Nel rapporto, pubblicato sul sito del Senato dove sarà presentato lunedì e il cui principale relatore è il senatore John Kerry, si legge che il fallimento nella cattura del leader di Al Qaida tre mesi dopo l'attacco alle Torri Gemelle ha avuto conseguenze terribili sulla lunga distanza e soprattutto ha posto le basi per l'attuale recrudescenza della guerriglia talebana in Afghanistan e per i conflitti interni che sconvolgono il Pakistan. Il dossier imputa all'allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e all'ex comandante del Centcom, Tommy Franks, una decisione dalle conseguenze disastrose, con il riemergere dei talebani e con la Nato impantanata in Afghanistan dopo otto anni di guerra. Non è la prima volta che Kerry, candidato democratico alla presidenza nel 2004, parla della fallita cattura di Osama Bin Laden già nel 2001. Da anni, il senatore accusa l'amministrazione Bush di essersi fatta sfuggire il leader del terrore sulle montagne dell'Afghanistan, tre mesi dopo l'11 settembre.

Nell'introduzione del rapporto che sarà pubblicato lunedì, proprio alla vigilia dell'annuncio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama sul «surge» necessario per «finire il lavoro» contro i talebani ed Al Qaeda, John Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, scrive: «Quando siamo andati in guerra meno di un mese dopo gli attacchi dell'11 settembre, l'obiettivo era quello di distruggere Al Qaeda e uccidere o catturare il suo leader, Osama Bin Laden e altri importanti personaggi. La nostra incapacità di concludere il lavoro alla fine del 2001 ha contribuito al conflitto di oggi che mette a rischio non solo le nostre truppe e quelle dei nostri alleati, ma la stabilità di una regione cruciale e instabile».

Ancora, il rapporto commissionato dal senatore Kerry, ex candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004 contro George W. Bush e intitolato «Tora Bora rivista: come abbiamo fallito nel prendere Bin Laden e perché questo importa oggi» denuncia: «Rimuovere il leader di Al Qaeda dal campo di battaglia otto anni fa non avrebbe eliminato la minaccia estremista nel mondo. Ma le decisioni che hanno aperto la porta alla sua fuga in Pakistan hanno permesso a Bin Laden di emergere come potente figura simbolica che continua ad attrarre flussi costanti di denaro e ad ispirare fanatici nel mondo. Il fallimento nel completare il lavoro rappresenta un'opportunità persa che ha alterato per sempre il corso del conflitto in Afghanistan e il futuro del terrorismo internazionale». Il documento - basato anche su dati non classificati del governo e su interviste con partecipanti all'operazione - sostiene con certezza che il leader di Al Qaeda si nascondeva tra le montagne di Tora Bora in un momento in cui gli Stati Uniti avevano i mezzi più che sufficienti per dare avvio a un'operazione rapida con migliaia di uomini. «Osama Bin Laden era a portata di mano a Tora Bora - si legge nel rapporto - Accerchiato in uno dei posti più impervi della terra, lui e centinaia dei suoi uomini resistettero instancabilmente ai bombardamenti americani, quasi a 100 raid al giorno». Il leader di Al Qaeda «si aspettava di morire - rivela ancora il dossier - Le sue ultime volontá e il suo testamento scritti il 14 dicembre riflettevano il suo fatalismo. Diede istruzioni alle moglie di non risposarsi e chiedere scusa ai suoi figli per essersi dedicato al jihad».

"Gli ebrei sono un'invenzione del sionismo". Libro israeliano scatena bufera in Usa


Il diritto al ritorno degli ebrei in terra d’Israele? "Non esiste, visto che la diaspora ebraica è soltanto il frutto di una leggenda, creata dai sionisti a fini opportunistici". E’ la tesi, a dir poco incendiaria, sostenuta da “The invention of the Jewish people”, il nuovo libro di Shlomo Sand appena pubblicato in America, tra mille polemiche.

Docente di storia all’Università di Tel Aviv, Sand ha un curriculum vitae all’apparenza insospettabile. Nato in Austria nel 1946 da genitori polacchi sopravvissuti all’Olocausto, è emigrato in Israele nel 1948. Eppure il suo libro - uscito nel 2008 in Israele, dove è restato per mesi in cima alla lista dei best sellers – ha dovuto aspettare un anno prima di essere pubblicato in Usa, dalla casa editrice di sinistra Verso Books: l'unica disposta a "toccarlo".

La tesi principale del libro è che non esiste un popolo ebraico in quanto tale. Sand rispolvera una vecchia tesi elaborata da alcuni storici dell’ottocento, secondo cui gli ebrei ashkenaziti dell’Europa centro-orientale discenderebbero dai Cazari, una tribù turca che si convertì al giudaismo e nell’ ottavo secolo creò un impero nel Caucaso.

Sempre secondo Sand, nel 70 e nel 135 D.C. non si sarebbe verificato alcun esilio forzato del popolo ebraico dalla Palestina da parte dei Romani: gli ebrei si sarebbero diffusi in Europa, Nord Africa e in Asia attraverso il proselitismo e la conversione delle popolazioni locali.

Apriti cielo. “La missione del Professor Sand”, punta il dito il New York Times, “è screditare le basi storiche della pretesa della Terra Promessa da parte degli ebrei”.

Sand critica gli storici sionisti dal 19esimo secolo in poi che, secondo lui, avrebbero “nascosto queste verità”, alimentando “il mito di radici comuni per supportare la loro agenda nazionalista”.
Ma contro di lui si sono già scagliati alcuni dei massimi studiosi Usa. “La tesi cazara è pura fantasia”, punta il dito il Prof. Michael Terry, capo della sezione Ebraica della New York Public Library, “essa ha intrigato per anni storici e scrittori, ma finora gli esperti in materia l’hanno ripetutamente rigettata perchè le prove a sostegno della teoria sono inconcludenti e frammentarie”.

Secondo il Dr. Harry Oster, direttore del programma di Genetica Umana al Langone Medical Center della New York University, la discendenza dai cazari “non è supportata dagli studi genetici”.

Secondo Oster avrebbe invece fondamento un’altra delle tesi avanzate da Sand. E cioè che “i Palestinesi siano i discendenti degli ebrei che popolavano anticamente Israele, convertitisi poi all’ Islam”.

Nel 1918 David Ben Gurion e Yitzak Ben Tzvi avevano sposato questa tesi in un libro che sosteneva l’opportunità di un alleanza tra sionismo e nazionalismo arabo per supportarsi reciprocamente nelle rispettive lotte per l’indipendenza.


sabato 28 novembre 2009

Evoluzionismo: tramonto di un'ipotesi


L’ultimo numero della rivista ultralaicista Micromega ha come bersaglio, in copertina e in numerosi articoli, Benedetto XVI e il suo Magistero. Ma uno degli articoli è una violenta requisitoria contro un convegno da me promosso al Consiglio nazionale delle ricerche lo scorso 23 febbraio sull’evoluzionismo. Per l’autore, Telmo Pievani, non solo è inconcepibile che qualcuno critichi l’evoluzionismo, ma è persino «mirabolante» che la critica sia promossa dal vicepresidente del Cnr.
Ciò che più colpisce non è la prevalenza degli aggettivi sui sostantivi e degli umori sulle ragioni, né le espressioni insultanti tipo «siamo il paese delle trasmissioni paranormali alla Voyager», ma la capacità di parlare di ciò che non si conosce. Pievani tenta per sette pagine di ridicolizzare un convegno internazionale senza peritarsi di leggerne gli atti, recentemente pubblicati da Cantagalli con il titolo L’evoluzionismo: tramonto di un’ipotesi. Dopo aver visto su un quotidiano un’ottima recensione di questo volume, è andato fuori dai gangheri e non ha fatto ciò che sarebbe stato ragionevole: acquistare una copia del libro e redigere una risposta argomentata. Avrebbe così scoperto che il libro collaziona non esternazioni fideistiche, bensì critiche di carattere scientifico, alle quali avrebbe così potuto provare a replicare in modo meno approssimativo e manicheo.
La principale caratteristica dei fanatici dell’evoluzionismo è parlare di ciò che non conoscono, a cominciare dalla stessa teoria dell’evoluzione che, 150 anni dopo l’apparizione dell’Origine della specie di Darwin, continua a essere una sorta di «oggetto scientifico non identificato». Così facendo, però, egli contraddice due volte il metodo scientifico. Prima di tutto perché la scienza non afferma verità ma vi si approssima per prove ed errori: epistemologicamente, qualunque tesi verrà tendenzialmente confutata o almeno corretta. E poi la modalità d’indagine con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza oggettiva e affidabile si basa sull’osservazione della realtà e sulla formulazione di un’ipotesi, verificata sperimentalmente. Ciò che non è il caso dell’evoluzionismo.
La legge della gravitazione universale di Newton può essere sperimentata ogni giorno. Gli esperimenti di Pasteur sui micro-organismi possono essere ripetuti ogni giorno. Per poter trarre leggi generali da un esperimento, esso deve poter essere realizzato, nelle stesse condizioni, da chiunque, in qualunque tempo e luogo. Quando un’ipotesi scientifica è inverificabile non può assumere la dignità di teoria. Ma quali esperimenti provano ciò che accadde nel passato: la pretesa evoluzione dalla materia alla vita, dal semplice al complesso? Il fatto che la materia complessa sia costituita da elementi più semplici non prova l’esistenza di un passaggio, nel tempo, dai secondi alla prima.
Per ovviare alla mancanza di una dimostrazione scientifica, l’evoluzionismo pretende di sostituire alla causalità, la casualità. Il «caso» diviene la «spiegazione» dell’inspiegabile. In questa prospettiva Pievani teorizza «che un evento altamente improbabile può realizzarsi in seguito a un’enorme quantità di tentativi nel corso di milioni o di miliardi di anni» (Creazione senza Dio, Einaudi, 2006). Ma il tempo non produce differenza: ciò che è impossibile sotto l’aspetto dei rapporti causa-effetto rimane tale per sempre. Anche le fantasie del caso hanno limiti invalicabili, che nella teoria della probabilità si chiamano «soglie di impossibilità» e rappresentano quei valori di probabilità al di sotto dei quali vi è la certezza che un evento casuale non si è mai verificato, né mai si verificherà. Il fatto che un evento molto improbabile possa teoricamente accadere, non significa che sia accaduto. Né ha valore immaginare lunghissimi tempi in cui «l’impossibile diviene possibile, il possibile probabile e il probabile virtualmente certo. Basta aspettare: il tempo compirà da solo il miracolo» (George Wald, L’origine della vita).
L’evoluzionismo, insomma, è una fantasiosa «storia» che presuppone a sua volta come verità indiscussa un principio filosofico, l’idea che tutto sia materia in continuo sviluppo. La teoria scientifica non si regge da sola: ha bisogno di quella filosofica per sopravvivere, e viceversa.
In questi giorni celebriamo i 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, e con esso di tanti miti: il «socialismo scientifico», la «dittatura del proletariato», il «progresso» indefinito della storia. Un solo totem sopravvive ancora: quello dell’evoluzionismo, un dogma che al socialismo di Engels e di Marx è, come noto, strettamente legato. Qual è la ragione per cui una teoria scientifica nata nell’Ottocento, come è quella darwiniana, è sopravvissuta al crollo dei miti ottocenteschi? Perché non possiamo non dirci darwinisti?, come recita un altro curioso titolo diffuso in questi giorni in libreria? La ragione è semplice. Il relativismo contemporaneo, secondo cui non esistono valori assoluti, ma tutto si trasforma, e nulla è stabile e permanente, ha il suo fondamento nella teoria evoluzionista. E oggi siamo passati dalla dittatura del proletariato alla dittatura del relativismo. Un esempio di questo totalitarismo scientista è proprio la pretesa di Pievani di tappare la bocca ai propri avversari, imponendo loro la «verità scientifica» per autorità, prassi di cui, anche nel fascicolo di Micromega, viene accusata la Chiesa.
Così facendo, Pievani dimostra l’utilità del libro e conferma la ragione per cui esso è nato, cioè evitare che l’evoluzionismo continui a essere imposto come dogma di fede, bollando i critici con epiteti spregiativi e, se necessario, colpendoli con l’epurazione. È questa infatti la nemmeno troppo larvata richiesta nei miei confronti di Pievani, scandalizzato che io ricopra «la carica di vicepresidente del Cnr». Il mondo scientifico nel XX secolo ha già conosciuto regimi in cui si è adottato questo sistema. Ma un pensatore laico e democratico non dovrebbe aborrire simili atteggiamenti?

(di Roberto De Mattei - Vicepresidente Cnr)

venerdì 27 novembre 2009

L’autentica «destra divina»? Figlia di Pier Paolo Pasolini


Dov’è finita la destra? È ascesa in cielo e siede alla destra del Padre. Prima di chiamare la neuro per farmi ricoverare o accusare Fini di avermi fatto impazzire, mandate l’ambulanza a Parma dove vive Camillo Langone, che mi ha ispirato questo delirio. Langone ha scritto un succoso pamphlet dal titolo ghiotto e folle, Manifesto della destra divina (Vallecchi, pagg. 152, euro 12).
L’inventore moderno della destra divina è uno scrittore sui generis, con tessera Pci: Pier Paolo Pasolini. La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. Stupido è dunque cercarla nella realtà. Ne parlai anni fa in un mio saggio, ripescando la sua poesia Saluto e Augurio, l’ultima prima di morire che Pasolini scrive quasi presago della sua morte, ed è dedicata a un giovane fascista. In quei versi in friulano Pasolini sciorina la sua destra divina, il suo amore disperato del passato e della tradizione ed esorta il giovane fascista a servire la destra divina attraverso un triplice comandamento: difendi, conserva, prega. La poesia di Pasolini, che si definiva «uno sgraziato reazionario», diventa il viatico del testo di Langone e il triplice imperativo pasoliniano campeggia sotto il titolo del suo libretto.
Ma, informo Camillo, l’inventore storico e mitico della destra divina è addirittura un Re normanno, Ruggero II Altavilla, che nel sud Italia coniò il mirabile motto: Dextera domini fecit virtutem, dextera domini exaltavit me. Traduco anche se è un latino trasparente: la destra del Signore fece la virtù, la destra del Signore mi esaltò. Insomma la destra divina ha quasi nove secoli, quella umana neanche tre, se partiamo dal Parlamento inglese o dalla Rivoluzione francese.
Langone non scrive un saggio politico e nemmeno teologico, naturalmente, e non riferisce la sua destra divina a Ratzinger, che pure Del Noce definì, quando era prefetto della Congregazione della Fede, il più alto esponente della cultura di destra. No, lui la declina in modo furbo e impolitico, nella vita, attraverso una serie di opposizioni che ripercorrono in versione intelligente gli stupidi antagonismi tra destra e sinistra che da Gaber in poi ci hanno perseguitato per anni: Abruzzo contro Patagonia, ovvero amore del vicino rispetto alle fughe esotiche; Amore rischioso contro sesso sicuro, insomma natura contro profilattici; e così via in una serie di antitesi: caccia/animalismo; confessione/ psicanalisi; culto/cultura; domenica/week end; durata/incostanza; gonna/pantalone; indissolubilità/divorzio; messe/mostre; muri/mondo aperto; onomastico/compleanno; presepe/albero; tabarro/Zara; trullo/grattacielo; ubbidienza/coscienza. Segue una breve guida ai libri, alla musica e ai film della destra divina.
Sono convinto che l’unica destra possibile oggi sia fuori della politica, nella vita di ogni giorno, nella profondità dell’anima dei popoli e delle persone, o nell’iperuranio dove riposano gli archetipi celesti. E sono convinto che sopravviva sotto falso nome, anche se più spesso mi assale il dubbio opposto che falso sia il nome di destra per definire questa sensibilità verso la tradizione.
Naturalmente molte delle cose che difende Langone sono oltraggi alla modernità e lamenti di un conservatore che loda il tempo andato. Ma si avverte pure la civetteria un po’ dandy del suo torcicollo, da esteta della tradizione che cerca di esser trendy vestendo fuori stagione. Conobbi Langone anni fa, mi aveva scritto che voleva conoscermi e mi colpì il suo presentarsi in modo del tutto inconsueto: come porno-cattolico e come nullafacente a carico di sua moglie. Lo convocai in un caffè di Bisceglie, perché lui era in vacanza natalizia a Trani ed ebbi conferma del suo perverso ma creativo tradizionalismo e del suo sfizioso catto-erotismo. Lo incoraggiai a scrivere e credo di avergli procurato qualche buona opportunità per esprimere la sua originale miscela. Pochi anni dopo spiccò il volo sui giornali, dove si reinventò come recensore di ristoranti, vini e messe, cantate e no. Non mancò di ficcarsi in alcuni pasticci per una patente e a volte criminale leggerezza di vivere e non curarsi degli effetti.
Ora plana con la sua leggerezza fertile e irresponsabile nel terreno sconnesso delle ideologie e si diverte a scrivere un vademecum sulla destra, in opposizione alla destra «opportunista e nichilista» di Fini e alle altre simildestre, borghesucce e futili. Per chi come me è autore pentito di libri come La cultura della destra, con tredici ristampe e trecento rimorsi, la destra di Langone è un tuffo nel passato morto e sepolto. Certo, la sua destra divina è eccentrica rispetto ai percorsi della cultura politica e non è proponibile come scelta attiva di un movimento; ma mi chiedo se abbia più senso chi si definisce ancora di destra e poi pretende di tesserare nel suo club neodestro Michael Jackson e Vasco Rossi, i matrimoni gay e le fecondazioni artificiali.
Rispetto a chi usa ancora l’ombrello protettivo della destra per bucarlo dall’interno e godere della pioggia che filtra, meglio chi preferisce intabarrarsi dentro un pastrano antico e affrontare il temporale con allegro fondamentalismo & minimalismo.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 26 novembre 2009

Alcoa, l'accordo dopo le tensioni: ritirata la cassa integrazione

Proteste e scontri, ma alla fine l'accordo è saltato fuori e l'Alcoa, azienda che lavora l'alluminio, ha ritirato la cassa integrazione. L’azienda ha deciso di ritirare la procedura di cassa integrazione per tutti i lavoratori dei siti di Fusina e Portovesme. Lo annuncia Mario Ghini, segretario nazionale Uilm. "Stiamo aspettando l’arrivo del ministro Scajola, rientrato dall’estero, per firmare il verbale d’intesa. C’è l’accordo che prevede il ritiro della procedura di cassa integrazione prevista per i lavoratori Alcoa degli stabilimenti di Fusina in Veneto e Portovesme in Sardegna. Ci rivedremo per un primo confronto tra le parti al dicastero dello Sviluppo economico il prossimo 9 dicembre" spiega. "L’intesa - specifica Ghini - prevede l’istituzione di un tavolo permanente di natura tecnica per definire tutti gli strumenti utili all’approvvigionamento energetico a prezzi calmierati nel rispetto di quanto previsto dal decreto legge sulla competitività. Siamo soddisfatti e andiamo a riferirlo ai lavoratori in piazza".
Scontri fra lavoratori e forze dell’ordine. In tarda mattinata il corteo degli operai (circa mille) ha tentato di lasciare il percorso concordato con la prefettura per andare sotto le finestre del ministero dello Sviluppo economico dove era in corso la trattativa fra azienda e sindacati. Secondo quanto riferisce la polizia, i manifestanti "sono partiti da piazza della Repubblica e giunti a largo di Santa Susanna improvvisamente hanno deviato dal percorso precedentemente concordato imboccando via Bissolati, dove hanno cercato di forzare lo sbarramento della Polizia di Stato. Nel corso del fronteggiamento tra manifestanti e Forze dell’Ordine, un manifestante è stato colto da malore e subito soccorso. Un agente è stato spintonato ed è caduto a terra battendo la testa. Un altro agente ha riportato contusioni ad un ginocchio dopo essere stato colpito dal megafono lanciato da un manifestante".
La polizia sottolinea che "le forze dell’Ordine in ogni caso non hanno effettuato alcun tipo di intervento repressivo nè tantomeno fatto uso di manganelli, ma solo azioni di contenimento". Dopo gli scontri, intorno alle 14, la delegazione sindacale presente al ministero ha interrotto la trattativa per incontrare i manifestanti. Trattativa che comunque è poi ripartita dopo uan quarantina di minuti ed è tuttora in corso. Il segretario nazionale della Uilm, Mario Ghini spiega che la delegazione ha incontrato gli operai "anche per rasserenare gli animi, dato che era arrivata la notizia di momenti di tensione tra operai e forze dell’ordine. Il corteo dei lavoratori Alcoa è pacifico, la vertenza in atto merita la massima attenzione e con questo spirito abbiamo ripreso la trattativa in sede ministeriale". Al tavolo non è presente il ministro Claudio Scajola in missione all’estero. L’esecutivo è rappresentato dal sottosegretario Stefano Saglia e dal capo di gabinetto del ministro Luigi Mastrobuoni.
La Sardegna è oggi a Roma per affrontare con grande realismo e senso di responsabilità, e non con un atteggiamento fatalistico, una situazione difficile e complessa che unisce le forze per una rivendicazione giusta: quella di non vedersi negare la speranza di costruire, tutti insieme, un futuro migliore". Lo ha detto il presidente della Regione Ugo Cappellacci, che insieme alla presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo, a numerosi consiglieri regionali, a parlamentari, a amministratori locali, ai rappresentanti sindacali e, soprattutto, a tanti lavoratori, hanno rivendicato l’attenzione nazionale su una vicenda che ha questi connotati con la manifestazione per il lavoro dei dipendenti dell’Alcoa di Portovesme.

mercoledì 25 novembre 2009

Khmer Rossi, chiesti 40 anni per Duch

Una condanna a 40 anni di prigione è stata chiesta per Duch, il capo della prigione del regime dei Khmer rossi di Pol Pot, in Cambogia, dove si calcola che 15.000 persone siano state torturate e uccise tra il 1975 e il 1979. Il procuratore internazionale William Smith, a sorpresa, non ha chiesto l'ergastolo per l'accusato, il cui vero nome è Kaing Guek Eav, giudicato per crimini di guerra e crimini contro l'umanità per aver diretto la prigione nota come «S-21». «La sola pena appropriata sarebbe l'ergastolo» - ha precisato Smith - «ma diversi fattori inducono a commutare la pena». Tra questi, ha citato i quasi dieci anni di detenzione provvisoria già subita, parte della quale giuridicamente illegale, e la sua «parziale» cooperazione con la corte, nonchè il suo «contributo alla riconciliazione nazionale».

RICHIESTA DI PERDONO - Prendendo la parola dopo la richiesta formulata dall'accusa, Kaing Guek Eav ha riconosciuto di «essere stato un membro delle forze di Pol Pot, e di conseguenza di essere psicologicamente responsabile, di fronte all'intera popolazione cambogiana, per le anime dei morti». Duch (si pronuncia «Doik»), che aveva già chiesto più volte perdono per la morte di 15 mila persone nel carcere-simbolo del genocidio cambogiano, ha aggiunto di essere «profondamente rammaricato e colpito da una distruzione di scala così ampia».

SCELTA OBBLIGATA - Nonostante l'apparente pentimento, Duch, 67 anni, si è anche però sempre difeso sostenendo di non aver avuto altra scelta che eseguire gli ordini, altrimenti sarebbe stato ucciso. La fine del processo, il primo contro un ex membro del regime costato 1,7 milioni di morti, è prevista per marzo 2010.

L’ultima favola d’amore di Saint-Exupéry


Profumo di donna. Se dovessimo raccogliere in una formula le lettere d’amore di Saint-Exupéry, nulla sarebbe più efficace di questa impressione impalpabile, tenera eppure carnale, un misto di seduzione e di fantasia, un affidarsi ai sensi per meglio dar corso all’immaginazione. Era un appassionato delle donne, Saint-Exupéry, ma si portava dietro un triplice senso di colpa che gli impediva di essere un cinico, tragico Don Giovanni ossessionato dall’idea della conquista e del possesso, un pagano, umano Casanova perso e preso nei piaceri e nei misteri del sesso.

Era il senso di colpa di chi, bambino, non era mai riuscito a trovare le parole giuste di amore e di riconoscenza per la madre. Era il senso di colpa di chi, aviatore, apparteneva a un «ordine» che alle donne lasciava solo il senso dell’attesa: a terra, sempre e comunque, tagliate fuori da ciò che in cielo intanto accadeva, condannate a sperare, destinate a piangere un sacrificio che non era per loro, incomprensibile e quindi ancora più doloroso. Era il senso di colpa di chi, marito oppure amante, era instabile, irrequieto e quindi invivibile, infedele a tutte, ma troppo delicato per poter sopportare le sofferenze anche di una sola.

La venerazione dell’elemento femminile faceva in fondo parte di un preciso senso della vita, il polo opposto, nella sua stabilità, a una mistica dell’erranza infinita e quindi incessante. Moderno Odisseo, la donna era per lui al tempo stesso Penelope e Itaca, secondo una bella immagine di Alban Cerisier, «una provvista di tenerezza per l’eterno ritorno», «la limpida sorgente», «la fontana» alla quale ci si abbevera, ci si ristora, si prende il giusto riposo. Era però il partire che dava un senso al tornare, e il tornare non aveva in sé la forza che rende preferibile il restare.

Tutto questo spiega perché nelle lettere d’amore ciò che lo esalta sia sempre e comunque un’idea di conforto, di consolazione, di rifugio. «Sii la mia protezione, fammi un mantello del tuo amore». «Ero cieco: illuminami. Ero sparpagliato e infelice: rimettimi insieme. Ero completamente arido, fammi generoso d’amore». Non cercava delle ispiratrici intellettuali e neppure delle fonti di piacere carnale: cercava delle vestali, sacerdotesse del suo fuoco.

Il carnet delle conquiste è tanto più ricco quanto l’erotismo, per non dire il sesso, è esente dai suoi libri. Nei disegni d’occasione, le figure femminili rimandano alla moda al gusto del tempo, il Novecento fra le due guerre: silhouettes magre ed eleganti, l’androginia di un’epoca che si illude di liberare la donna rendendola più maschio... Ciò che l’occhio coglie sotto il profilo estetico, il cuore riconduce alla tristezza della carne se priva di spiritualità: «Colette, Paulette, Suzy, Daisy, Gaby, che sono fatte in serie e dopo due ore annoiano, come delle sale d’attesa». Quelle che lo interessano si chiamano Louise de Vilmorin, il primo amore della giovinezza, Natalie Paley, Nanda de Bragance, Silvia Hamilton, Hedda Sterne, Nelly de Vogüé: quasi tutte aristocratiche, spesso intellettualmente coltivate, comunque ricche.

Aveva sempre vissuto al di sopra dei suoi mezzi, Saint-Exupéry, e si lasciava dietro una scia noncurante di debiti. Nel 1936, già famoso, aveva dovuto lasciare per morosità il suo appartamento in affitto. «Vi decidete una buona volta a portare via i mobili?» gli aveva detto giorni dopo il padrone di casa. «Non posso, sono sotto sequestro» era stata la risposta.

Da quell’elenco mancano due nomi. Uno è quello della giovane francese che è la protagonista di queste Lettere a una sconosciuta. L’ultimo amore del Piccolo Principe (Bompiani, pagg. 24, euro 12, traduzione di Sergio Claudio Perroni). Aveva ventitré anni, era crocerossina: si erano conosciuti nell’estate del ’43 sul treno che da Orano portava ad Algeri e ciò che resta è questo pugno di scritti e di disegni dove più che l’amore c’è la malinconica illusione dell’amore. «Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: “Era solo una favola”... Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica verità della vita». Aveva passato i quarant’anni, si sentiva stanco e superato, aveva bisogno di un calore vicino, sperava ancora di trovare un focolare, non rinunciava a immaginarselo: il dolce-amaro di chi alimenta dentro di sé quella fiamma pur sapendo che fuori resterà spenta...

L’altro è il nome di Consuelo, la moglie tanto amata eppure tanto tradita. Nei giorni in cui alla piccola sconosciuta invia disegni e rimbrotti da ragazzo che non ci sta ad invecchiare, le scrive: «Se sono ferito, avrò chi mi curerà. Se sono ucciso avrò chi aspettare nell’eternità. Se torno avrò verso chi tornare. Non sono che un grande cantico di riconoscenza». Consuelo era la rosa disegnata e raccontata nel Piccolo principe, il fiore da cui il principe-bambino Saint-Exupéry si era allontanato perché «i fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare». E invece, «lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa».

(di Stenio Solinas)

martedì 24 novembre 2009

Fini il difensore degli stranieri e il suo passato da “anti-immigrati”


20 gennaio 1987 - "L’alternativa al sistema resta la nostra strategia, un’alternativa politica che mira a restituire l’Italia agli italiani".

11 luglio 1991
- "Io contesto che per l’Italia e per l’Europa la prospettiva di una società multirazziale sia ineluttabile. L’Occidente ha il dovere di aiutare i popoli del terzo mondo, ma a casa loro. È demagogico lasciare che l’Italia venga invasa da migliaia di immigrati extracomunitari".

20 settembre 1992 - "Ci accusano di razzismo? Rispondo con una frase di Mussolini: “Il razzismo è la sovrana imbecillità, roba per popoli biondi”. La verità è che ci batteremo fino in fondo contro la nascita di una società multirazziale. Si illude chi la immagina pacifica. Le massicce immigrazioni che incombono sull’Italia provocherebbero fenomeni di acuta tensione sociale".

21 NOVEMBRE 2009 - "Chi dice che gli stranieri sono diversi è uno stronzo"




lunedì 23 novembre 2009

Radicali, cinici, giacobini. Il grande filosofo previde l’arrivo dei comunisti


Augusto del Noce quasi si vergognava della sua intelligenza, aveva pudore della sua profondità e la nascondeva sotto il velo affabile della sua cortesia. Quando parlava in pubblico non aveva un eloquio fluente, ma tormentato: partecipavi al travaglio di un parto, ma eri ammesso a vedere il lavorìo della sua intelligenza mentre forgiava i suoi pensieri e li sfornava davanti a te, caldi e ancora contorti. La sua scrittura era invece limpida ed efficace, nonostante non concedesse nulla ai tempi e alle vanità del filosofo. Del Noce morì alla fine dell’89, giusto vent’anni fa, e vide appena la caduta del Muro ma previde più di ogni altro l’esito mondiale e italiano del comunismo. Il passaggio dal comunismo al consumismo, e dal Pci al partito radicale di massa, fu descritto perfettamente da uno che poi non lo vide. Se n’è parlato nel fine settimana tra Roma e Cassino in un bel convegno a lui dedicato dal Cnr, con molte voci, da suo figlio Fabrizio a Buttiglione, dai delnociani della Fondazione a lui dedicata a Perfetti, de Mattei e altri, me compreso. Tutto nel silenzio assordante dei media. Eppure Del Noce l’inattuale ha compreso la nostra attualità più del suo amico e antagonista Bobbio o delle vulgate radicali, marxiste e neoazioniste. Provo a dire in quattro parole le ragioni della sua solitudine e della sua attualità. Mentre la cultura italiana definiva provinciale tutto ciò che nasceva in Italia e considerava, già prima dell’avvento di Berlusconi, il caso italiano come l’anomalia di un Paese che non era entrato nella modernità perché aveva avuto la Controriforma senza aver avuto la Riforma protestante, e perciò aveva avuto il fascismo, Del Noce considerava al contrario il nostro Paese come il paradigma dell’Occidente, il laboratorio in cui si sperimentò il difficile rapporto con la modernità, il marxismo, il fascismo. E, sul piano politico, mentre la cultura ufficiale del nostro Paese considerava il fascismo, con più indulgenza il comunismo e infine la Democrazia cristiana come tre cause di ritardo della modernità, tre resistenze al progresso, Del Noce, al contrario, ravvisava nel fascismo, nel comunismo e nella stessa Dc tre processi, assai differenti, di scristianizzazione del nostro Paese. Il fascismo combatteva molti degli avversari della cristianità ma restava prigioniero del suo attivismo irrazionale, della sua volontà di potenza e del culto della guerra e della violenza. L’italocomunismo, nella sua versione gramsciana, portava l’ateismo alle masse e concorreva allo sradicamento civile e religioso. Del Noce individuava nell’intreccio tra sinistra e poteri economici e ne la Repubblica di Scalfari i luoghi di passaggio dal comunismo, con il suo afflato religioso e la sua impronta popolare, ad un laicismo radical, cinico e neo borghese, di tipo liberal o giacobino. E la Dc, a cui pure Del Noce era vicino, lasciava che il comune sentire degli italiani, la cultura e il senso religioso, scivolassero dolcemente verso la scristianizzazione della società opulenta.
Con una diagnosi del genere, Del Noce si situava agli antipodi delle culture egemoni del nostro Paese, in totale solitudine. Accolto solo dal piccolo mondo della destra colta. E più solo si ritrovava Del Noce, antifascista ai tempi del fascismo, quando sosteneva che l’antifascismo sopravvissuto al fascismo era un fenomeno negativo e dissolutivo. L’antifascismo per Del Noce non poteva costituire la religione civile degli italiani. Il Risorgimento, invece, sì. E qui Del Noce si separava anche dai cattolici reazionari e antirisorgimentali ritenendo che l’idea stessa di Risorgimento, come resurrezione, fosse rimasta incompiuta e fosse necessario saldare l’idea di nazione a quella di tradizione, civile e religiosa. Pur cattolico, Del Noce non era clericale; coltivava una visione dantesca dell’Italia e non solo giobertiana. Con un’espressione da lui non usata, ho sostenuto che Del Noce sia stato il filosofo che ha pensato la religione civile per il nostro Paese. Religione civile da non confondere né con le religioni secolari e politiche che vogliono sostituire la religione con un’ideologia salvifica e con l’attesa di un paradiso in terra; né con la teocrazia medievale o di tipo islamico che uccide la libertà nella coincidenza forzata di fede e cittadinanza. Del Noce non scioglie la politica nella religione, né la religione nella politica, ma neanche le separa come farebbe un cattolico liberale; ma afferma la necessità di attingere alla tradizione religiosa per fondare i valori condivisi di un popolo. La religione civile di Del Noce è la rilettura nel nostro tempo della teologia civile di Vico. Sposare Libertà e Verità, persona e comunità, fu il cuore della sua ricerca.
In questa luce, Del Noce è stato il filosofo politico e civile del pontificato di Papa Wojtyla, mentre Ratzinger ne era il teologo e il dottrinario. Con il Papa Del Noce condivise la critica al comunismo e la lettura del dopo comunismo, l’avvento di una società permissiva e nichilista, sazia e disperata. E con il Papa condivise la necessità di correlare l’idea di nazione al senso religioso, verità e libertà, diritti dei popoli e diritti della persona. L’anno in cui salì al soglio pontificio Wojtyla, Del Noce scrisse Il suicidio della rivoluzione, che prefigurava la fine del comunismo, di cui quel Papa sarebbe stato il primo ispiratore.
Fui molto vicino negli ultimi anni a Del Noce, ebbi un sodalizio di pensieri e di incontri, di riviste e fondazioni, di cui c’è traccia anche nei suoi taccuini. Fu Del Noce ad aprirmi le porte al settimanale vicino a Cl, Il Sabato, e ad andare di persona da Gianni Letta, allora direttore de Il Tempo, per proporre un mio articolo culturale che gli era piaciuto, da cui scaturì la mia collaborazione alla pagina culturale del quotidiano romano. Lo vidi una settimana prima che morisse a casa sua, perché mi consegnò l’introduzione autografa ad un mio libro, che sarebbe stato il suo ultimo scritto. Accolse l’idea di un libro dialogo sul profilo ideologico del Novecento, che avremmo realizzato a conclusione del suo Gentile, poi rimasto incompiuto. Disse con una punta di civetteria che avrebbe voluto rivalutare Togliatti e pure Stalin rispetto alla nuova sinistra. Anche quella sera del 22 dicembre fu affabile ma affaticato, reduce già da un infarto; mi apparve disfatto come un uccello senza piume. Ci scambiammo gli auguri per il Santo Natale e per il Nuovo Anno, ma per lui valsero solo i primi.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 20 novembre 2009

Un entomologo dell’anima tra le macerie della guerra

I diari di Ernst Jünger (1895-1998) sono come eruzioni vulcaniche che sorprendono senza preavviso e inondano di lava incandescente il lettore, attonito di fronte a tanta saggezza che s’accompagna a un’inondazione di spiritualità. Nel tempo del relativismo e delle derive nichiliste, l’introspezione jungeriana, affidata alle pagine del suo giornale intimo, è una sorta di riserva morale cui attingere per connettersi laicamente a una realtà trascendente che trasuda anche dalla descrizione di una quotidianità che in apparenza non presenta eccessive attrazioni, se non, ovviamente, quelle letterarie. Invece le pagine di Giardini e strade. Diario 1939-1940, di Irradiazioni. Diario 1941-1945 e ora quelle de La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948 (Guanda, pp. 278, euro 20) trasmettono non solo il vissuto interiore dello scrittore tedesco, ma lo proiettano in una prospettiva storica e metafisica dalla quale è difficile staccarsi. Sicché la lettura non si riduce all’apprendimento delle piccole o grandi cose che hanno scandito nel corso del tempo la vita di Jünger, ma immette alla comprensione di un percorso segnato da una sacralità il più delle volte inespressa, comunque sempre presente, come se per lui lasciare «tracce di luce sul gioco delle onde dei giorni vissuti che, altrimenti, cadrebbe presto nell’ombra» sia più un piacere che un dovere. Ecco la spiegazione della “necessità” di tenere un diario.
Così, con la sobrietà che caratterizza le sue annotazioni, Jünger, nel journal, alla maniera dei memorialisti francesi, tenuto tra l’11 aprile 1945 e il 2 dicembre 1948, “riparato” in Bassa Sassonia prima di stabilirsi a Wilflingen in Svevia, nella foresteria del castello di campagna degli Stauffenberg, dove è rimasto fino alla morte, riflette sull’universo desolato alle sue spalle e le miserie che gli si aprono dinanzi nell’attesa della rinascita. È un bilancio dell’orrore a cui fa da contrappunto la speranza della reinvenzione della vita inseguita non come lavacro degli errori che lo hanno visto suo malgrado partecipe, bensì come riscatto di un popolo nel tempo di quella che avrebbe chiamato di lì a qualche anno «la pace universale», succedanea dell’inevitabile e perniciosa «mobilitazione totale» cui pure aveva donato se stesso, immaginando un’altra Germania in un’altra Europa, entrambe, purtroppo, soggiogate da un Leviatano la cui mostruosa epifania non poteva prevedere.
Non tutti gli invasori sono brutali; tutti gli scampati allo sterminio sono monumenti alla pietà. Un’umanità dolente e pure piena di aspettative si affolla per le strade della Germania disfatta: «I contadini sono tornati nei campi. Anch’io ho ripreso a lavorare - nell’orto, alle collezioni, alla scrivania, mentre fuori continuano a infuriare i motori». La normalità di una vita che non potrà comunque mai più essere normale s’affaccia nel piccolo mondo di Jünger tempestato da dolori insopportabili, come la morte di Ernstel, caduto sul fronte italiano a 20 anni, nel 1944.
Anni cruciali e decisivi prendono a danzare nelle memorie. La resa incondizionata, la fine di Mussolini, di Hitler, di Goebbels, di Himmler, la capitolazione del Giappone, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il ritorno dell’energia elettrica, la posta che riprende ad arrivare, la fioritura del giardino, i frutti dell’orto, le mani che affondano nella terra da coltivare e che scrivono nuove opere: tutto fa parte della resurrezione nella quale affiorano ricordi di eventi e volti che non vedrà mai più. Il rimpianto e la nostalgia si confondono con il sorriso che riappare sul volto degli sconosciuti che incontra: segni, come dice, di un «eterno ritorno» che offre a chi riesce a scorgerli e a leggerli la consapevolezza della sua storicità e della sua spiritualità. Scrive: «Il dolore più profondo sta nella nostra rinuncia alla salvezza. I conflitti morali non sono che un sintomo di questo; sono, come la febbre o un’eruzione cutanea, i segnali di un focolaio nascosto. Nel corso di simili crisi è messo in dubbio il mondo nel suo complesso, perché è sulla nostra salute che si regge il suo equilibrio. Ciascuno di noi è Atlante, che regge l’universo sulle proprie spalle. Questa spaventosa coscienza del tracollo non conosce eguali. Nemmeno il panico causato dall’ottenebramento della mente, che neppure è considerato tra le torture più atroci, regge il confronto. Messi di fronte all’ultima prova dobbiamo scegliere: o lo spirito o la salvezza».
Davanti a queste parole, mi è tornato alla mente un ricordo. A fine ottobre 1986 accompagnai Jünger, dopo aver trascorso qualche giorno con lui, a far visita al sepolcro dell’imperatore Federico II nel Duomo di Palermo. Sostò a lungo davanti al sarcofago senza distogliere lo sguardo: per una curiosa coincidenza un’orchestra provava la Seconda sinfonia di Mahler. Quella musica accompagnava i pensieri dello scrittore che poi mi confessò perduti in una meditazione sul Tempo e la Gloria: aveva 91 anni ed era consapevole che la clessidra si stava svuotando. Nel 1948 aveva scritto: «L’eternità non è una grandezza bensì una qualità». Forse questo pensiero lo attraversò allora. E probabilmente si sarà chiesto se di lì a poco avrebbe scelto lo spirito o salvezza. Ineludibile tanto per lui anarca, quanto per un grande monarca. Non sapremo mai con certezza l’esito di quella possibile domanda, ma un’idea che la possiamo fare con questi diari di un entomologo dell’anima.
(di Gennaro Malgieri)

Del Noce, filosofo e profeta del fallimento del marxismo


Il ventennale della caduta del muro di Berlino coincide con quello della morte di Augusto Del Noce: “Il filosofo che meglio preconizzò il fallimento del marxismo e i suoi effetti sulla società contemporanea”, commenta Roberto de Mattei, vice presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Del Noce fu ordinario di Storia della filosofia moderna e contemporanea all’Università di Trieste, di Storia delle dottrine politiche e Filosofia della politica all’Università di Roma ‘La Sapienza’, fu Senatore della Repubblica, collaborò con numerose testate ed ottenne riconoscimenti quali la Medaglia d’oro al merito della cultura cattolica nel 1986 e il Premio nazionale di cultura nel giornalismo Penna d’oro nel 1989. Le sue pubblicazioni iniziano con La non filosofia di Marx (1946), ripubblicato ne Il problema dell'ateismo (1964), in cui Del Noce vuol dimostrare che l’ateismo non è una “necessità” del progresso filosofico-scientifico, bensì un “problema” della modernità. Tra le opere che dettero contributo importante al dibattito politico negli anni ’70-‘80 L'epoca della secolarizzazione (1970), Il suicidio della rivoluzione (1978) e Il cattolico comunista (1981): “Fondamentale elaborazione della sua posizione sulla conciliabilità tra marxismo e cattolicesimo”, osserva de Mattei.

“Il pensiero di Del Noce è ancora oggi in grado di rispondere alle numerose sfide che animano il dibattito moderno”, prosegue il vice presidente del Cnr. “La contrapposizione tra laicismo e religione, la secolarizzazione, il relativismo e il nichilismo che attraversano la società ‘opulenta’, il potere della tecnologia, sono problematiche affrontate dal filosofo con grande anticipo e rispetto alle quali egli proponeva la riscoperta dei principi etici universali e tradizionali quale orientamento dell’uomo nella storia, cercando di dimostrare come i sistemi di pensiero che aspirano ad una liberazione dell’uomo su basi unicamente razionali siano fallimentari”.

Marcello Veneziani ricorda che “Augusto del Noce è stato il filosofo politico e civile del pontificato di Giovanni Paolo II, che fu il principale ispiratore di quell’epocale declino della rivoluzione e del comunismo nel mondo. Il comunismo si risolverà in spirito radical, prevedeva allora Del Noce, un intreccio di consumismo e di liberazione sessuale, che è poi il marchio di quella che egli definiva “l’‘irreligione’ occidentale”. “Essa trova modo di imporsi in una ‘non società’ senza senso e senza valore”, prosegue Tito Perlini dell’Università di Venezia, “dove la molteplicità non è unificata; il laicismo svuotato di ogni residuo cristiano dà luogo non ad un auto-superamento ma ad una netta regressione”. “Del Noce era per sua natura contrario ad ogni violenza”, ricorda Enzo Randone, Presidente della Fondazione Del Noce, “ma ne vedeva anche il legame essenziale con lo gnosticismo”.

Tra gli aspetti affrontati nel convegno, “la critica alla società del ‘benessere’ detta anche ‘tecnocratica’ o ‘permissiva’”, riferisce Natascia Villani, dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, “in quanto società che accetta tutte le negazioni riguardo a pensiero contemplativo, religione, metafisica”. “Sin dal 1969 Del Noce analizzava il vicolo cieco della modernità”, conclude Salvatore Azzaro, “e suggeriva che solo l’autocritica di tutti gli orientamenti politici di fronte all’eclisse dell’ordine dei valori, può scongiurare l’adesione di fatto a un ordine dato o a un disordine stabilito, privi di ogni giustificazione ideale”.

A FIANCO DEI LAVORATORI SARDI

Il popolo non crede ai cultori delle cedole bancarie.

Crede all'azione, a chi gli indica le vie del destino.

Crede soprattutto a chi gli aprirà le strade vere della giustizia sociale.

Filippo Corridoni

Alessandra Mussolini: «Sangue e cervello di mio nonno finiti in vendita su eBay»


Sangue e cervello di Benito Mussolini in vendita su eBay, il sito di aste online. Lo afferma la nipote del Duce, Alessandra Mussolini, che ha presentato una denuncia ai carabinieri e informato la polizia delle comunicazioni che si occupa di crimini informatici. Il materiale, ha precisato la deputata del Pdl, era conservato al Policlinico di Milano dal giorno dell'autopsia all'indomani di piazzale Loreto, «e da lì è stato preso». «È una cosa molto grave - attacca la Mussolini -, sono cose da cui bisogna difendersi».


«VENDUTI PER 15MILA EURO» - «Sono stata avvertita questa mattina dal sottosegretario all'Ambiente Roberto Menia che su eBay erano stati venduti per 15mila euro pezzi di cervello e sangue di mio nonno, corredati con tanto di foto che ritraevano una cassetta in legno con resti autoptici e delle ampolle con il sangue - spiega la deputata, che ha quindi informato il Comando provinciale dei carabinieri di Napoli (dove si trovava per un convegno) -. Sono andata a vedere su eBay ciò di cui mi aveva avvertita Menia, che ringrazio profondamente e che aveva appreso a sua volta la notizia da un amico. Quando ho guardato sul sito l'annuncio non c'era più, perché i resti erano già stati venduti. Allora sono subito andata dai carabinieri che, fortunatamente, erano presenti al convegno». La deputata dice che non sapeva nulla dell'esistenza di questi resti. «Sono contenuti in una cassetta dentro la cripta di Predappio - spiega -. Dopo la sua morte sul suo corpo venne fatta un'autopsia, parte del cervello è stato spedito in America. Insomma ne è stato fatto scempio».

CONSEGNA DELLE SPOGLIE - In vendita su eBay c'è anche una copia del verbale di consegna delle spoglie mortali di Mussolini. Prezzo si partenza: 5 euro. Il venditore specifica che si tratta di una fotocopia dell'originale: il verbale, secondo quanto scritto sul sito, è costituito da tre pagine, ogni foglio è firmato dai sette presenti. Il testo inizia con la data: «L'anno 1957, addì 30 del mese di agosto, nel cimitero di San Cassiano di Predappio». Tra i presenti figura la signora Guidi Rachele. Segue, sempre secondo la descrizione del venditore, la relazione dei resti delle spoglie mortali e tutta la storia e i vari tragitti fatti fare al corpo di Mussolini dal momento della morte alla consegna, i luoghi e i conventi dove venne occultato dopo il trafugamento dal cimitero di Musocco. È presente anche una descrizione dello stato del corpo e infine c'è la consegna del cervello prelevato e conservato e occultato a parte.


giovedì 19 novembre 2009

Anche io vittima del nuovo maccartismo


Nella nostra vita, il dolce si mischia sempre all'amaro. E magari al piccante. È la regola. E io non vi sfuggo. La settimana scorsa, ad esempio, ero vicino a Gerusalemme, nell'oasi ospitale di Neve Shalom, l'"Oasi di pace" dove israeliani ebrei, arabi cristiani e arabi musulmani vivono insieme, cercando di dimostrare al mondo che tutto è possibile agli uomini di buona volontà. Abbiamo ricordato insieme, con la preghiera e con un convegno di studi, la memoria di padre Michele Piccirillo, il prestigioso francescano-archeologo di recente immaturamente scomparso. Anima dell'evento è stata una mia meravigliosa amica, Simonetta Della Seta, adesso addetta culturale presso la nostra ambasciata a Tel Aviv. Con Simonetta ho scritto un romanzo storico, Il guardiano del santo Sepolcro (Mondadori), dove noi due, un'ebrea e un cattolico, c'incarichiamo di far parlare in prima persona il portinaio della basilica gerosolimitana della resurrezione, un musulmano. Peccato che i media ne abbiano parlato poco. A Neve Shalom ho avuto la gioia di poter riabbracciare tanti stimati colleghi israeliani, come il grande me-dievista Benjamin Z. Kedar, amico di colui ch'è stato uno dei miei più cari maestri, Joshua Prawer.

Fin qui il dolce. L'amaro, o meglio il "piccante" - nel senso dell'irritante - è arrivato qualche gior-no dopo, martedì 17 novembre scorso, con un articolo su Libero nel quale Alexandre Del Valle, forse sull'onda delle recenti dichiarazioni del ministro Maroni, "denunzia" un terribile complotto "verde-nero-rosso" ordito insieme, in spregevole combutta, da fondamentalisti islamici, nostalgici neonazisti ed estremisti bolscevichi. E naturalmente buona parte di tale articolo è dedicata a me: non ho capito troppo bene in quale delle tre convergenti categorie egli mi ponga, ma credo in entrambe (neologismo per dire in tutte e tre). Follia diffamatoria? Non proprio. O, perlomeno, diciamolo con l'Amleto di Shakespeare: c'è del metodo in questa follia. Il Del Valle in realtà in parte "denunzia" cose che io sono stato il primo a dire di me stesso in molti libri (dall'autobiografia L'intellettuale disorganico alla raccolta di saggi Scheletri nell'armadio), in parte vaneggia cucendo insieme indizi allegramente interpretati e squisite falsità in uno stile che ricorda certi personaggi di un famoso romanzo di Volkoff, Il montaggio, o certe "rivelazioni" che andavano per la maggiore nella bell'America dei tempi di Joseph McCarthy.

Io sarei stato quindi iscritto, da giovane, alla Giovane Europa di Jean Thiriart e "membro" della Nuova Destra di Marco Tarchi (che non è mai stata un movimento); avrei studiato la mistica fascista (mai!) e il sincretismo islamico (falso; non so che cosa sia il sincretismo islamico; io mi sono occupato di rapporti tra Europa e Islam) e seguirei quanto alla mia interpretazione della fede coranica le tesi di René Guénon (manco per idea!). Ispirandosi inoltre alle "rivelazioni" (sic) del settimanale Tempi e dell'agenzia Corrispondenza romana, il Del Valle prosegue sostenendo che sarei «corrispondente di Radio Teheran» (un'emittente che mi ha in effetti intervistato un paio di volte; e al quale ho risposto con cortesia ) e che avrei preso posizione contro le guerre in Afghanistan e in Iraq (be', ho scritto anche tre libri al riguardo). Vi risparmio le piacevolezze minori: salvo il fatto che mi definirei «uomo d'ordine e di destra» (in realtà ho sempre detto di essere uomo d'ordine e dotato di vivo senso dello Stato) e che sarei spesso interpellato perciò dal Secolo d'Italia (vero: sono anzi forse il decano dei suoi collaboratori, dal momento che la mia firma su tale quotidiano è uscita per la prima volta nel 1958), ma che sarei stato «stranamente risparmiato dalla sinistra» e che una volta sono stato addirittura elogiato in pubblico da Walter Veltroni "per i suoi (cioè miei) attacchi ai tagli del governo alla scuola e all'università». Peccato che il Del Valle, forse mal consigliato e peggio documentato, "ometta" che Veltroni mi citò esplicitamente per un articolo comparso, guarda caso!, proprio sul Secolo.

Che malinconia. Ho quasi settant'anni, e ho passato quasi mezzo secolo dell'esistenza studiando come un matto. Ho al mio attivo circa 150 volumi, e molte migliaia fra saggi e articoli. Eppure, il quotidiano Libero non ha mai creduto opportuno - ed è stato suo sacrosanto diritto, che diamine! - di dedicarmi nemmeno due righe di recensione. Di recente, ho pubblicato due libri di medievistica: Cassiodoro il Grande (Jaca Book) e una raccolta di studi francescani editi dal centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo. Silenzio-stampa, almeno su quel giornale. E allora, perché d'incanto interesso in tal modo a lorsignori, affaccendati a quel che pare a impaurire la loro opinione pubblica col temibile fantasma d'un'alleanza tra "opposti estremismi" rosso-nero-verdi?

Azzarderei una risposta. In effetti, non pare che il Del Valle declini proprio tutte le sue fonti. Forse, un'occhiata al blog "Informazione corretta", che da tempo mi dedica attenzioni analoghe alle sue, deve averla data. O magari dev'essergli diciamo così passato per le mani il numero del 21 aprile 2004 dell'American National Review, nel quale due solerti "giornalisti" (?!), per la cronaca italiani, argomentavano sul mio conto più o meno le stesse cose. Ho citato i due paltonieri in questione per diffamazione: se la sono cavata andando assolti (ma con formula dubitativa: ed è in arrivo il processo d'appello). Non so se ricorrerò ancora alla legge. Quel che so è che in Italia sta montando un'ondata di "caccia alle streghe" nella quale chi non si preoccupa di "allinearsi", ma cerca di dir la sua restando un uomo libero e rispettoso della verità, potrebbe anche rischiar qualcosa. Vecchi metodi. Vecchie inquisizioni. Vecchie intimidazioni. Che io sia una strega? In fondo, sarei anche in buona compagnia (penso alla strega sabatilla di Brancaleone alle crociata, splendidamente interpretata da una giovane Stefania Sandrelli). Venite fuori una buona volta, allo scoperto, tangheri che siete. Abbiate il coraggio di citarmi per quel che ho detto e scritto. E sia chiaro: sempre meglio cripto-nazicomunista che infame e incolto, come siete voi altri.

(di Franco Cardini)

mercoledì 18 novembre 2009

Tutti zitti sulle «lezioni» di Gheddafi


Un paio di domande su donne e potere. La prima: perché una ragazza non av­venente o di statura infe­riore al metro e 70 deve es­sere esclusa, e solo a causa di queste presunte «man­chevolezze» fisiche, dagli insegnamenti religiosi im­partiti dal colonnello Ghed­dafi nel suo tour romano? La seconda: si ha per ca­so notizia di qualche peti­zione, di qualche protesta, di qualche indignata consi­derazione che voglia stig­matizzare questa palese of­fesa alla dignità delle don­ne, ragazze come gingilli da esibire al cospetto del satrapo in visita ufficiale?

Le prescrizioni di Gheddafi sono state molto precise. I suoi collaboratori doveva­no contattare circa duecento ragazze attra­verso un sito specializzato per il reperi­mento di hostess da retribuire con una ses­santina di euro (tra l’altro: non esiste un sindacato delle hostess?). Il canone fissato prevedeva che le ragazze fossero di bel­l’aspetto, possibilmente bionde. Che dal metro e sessantanove centimetri in giù di statura sarebbe scattato implacabile l’ostra­cismo. Che fossero vestite di nero, vietate minigonne e scollature, il tacco di almeno sette centimetri, e la taglia, inderogabil­mente, 42. Solo a queste condizioni le ra­gazze sarebbero state meritevoli delle le­zioni di Gheddafi sul Corano e sensibili al­le istruzioni del Libretto Verde, distribuito come cadeaux dopo un paio di notti di in­fervorate diatribe religiose innaffiate, rac­contano le cronache, da dosi massicce di cappuccino.

Dicono inoltre le cronache che una ra­gazza è stata allontanata, perché giudicata troppo bassa e un’altra esortata a lasciare la compagnia (sarebbe meglio dire l’im­provvisato simulacro di un harem?) per­ché non del tutto compatibile con i canoni ideali della bellezza secondo il colonnello Gheddafi: in altre parole, perché bruttina. Ma c’è qualcosa di più feroce di un’esclu­sione dovuta esclusivamente per cause, per così dire, fisiche? Mica quelle ragazze erano state selezionate per un concorso di bellezza, o per il casting di una trasmissio­ne televisiva, o per allietare un evento mondano. No, erano state scelte per ascol­tare la parola di Gheddafi sull’Islam, sul crocifisso, sulle profezie, sulla virtù, sulla conversione. E allora che c’entrano la ta­glia 42 e il tacco di almeno sette centime­tri? Ma se non c’entrano, come mai si è im­provvisamente inaridito il fiume di discor­si e petizioni che in questi mesi si è impo­sto sulla degradazione del corpo delle don­ne, sulle ragazze ridotte e umiliate a stru­mento per allietare le serate dei sultani, al­l’imposizione di un canone convenzionale di bellezza che mortifica l’intelligenza del­le donne, che trasforma le ragazze in oche e veline sottomesse ai capricci dei potenti? E invece adesso c’è il silenzio. Il silenzio as­soluto.

L’imbarazzo ufficiale per le stravaganze di un sultano con cui è obbligatorio (e con­veniente) conservare eccellenti rapporti bi­laterali. L’imbarazzo civile di chi centellina con un po’ di cinismo (o di malafede?) la propria indignazione, azionandola solo in qualche occasione, imbavagliandola quan­do il bersaglio non è il solito Nemico di cui è persino superfluo fare il nome. Una festa dell’ipocrisia in cui a farne le spese sono un gruppo di ragazze ammassate su un tor­pedone. Taglia 42, tacco di sette centime­tri, abitino nero per regalare al colonnello la soddisfazione di una bella lezione di reli­gione.

(di Pierluigi Battista)

Dopo le tempeste d’acciaio la poesia è dalla parte dei vinti

Giardini e strade. Così il capitano Ernst Jünger aveva intitolato il suo diario militare, l’impressione di una scampagnata più che di un anno di guerra, quel 1939-40 che aveva visto la spada della Wehrmacht entrare sino all’elsa nel cuore della Francia. Poi era stato il tempo delle Irradiazioni, il sottile intreccio di luci e di ombre che gli oggetti formano e l’occhio e la mente umana percepiscono, sue compagne durante tutto l’arco bellico e unica arma intellettuale da opporre al nichilismo della catastrofe, «una macchina di ferro che avanza per la sua strada» nel solo nome della distruzione. Infine era giunto il momento di La capanna nella vigna, di nuovo un’immagine agreste a suggellare la quiete dopo la tempesta d’acciaio che aveva imperversato sull’Europa, non fosse che, per la prima volta, c’era lo spiraglio di un sottotitolo: «Gli anni della occupazione». Anti-nazista, ma tedesco, la vittoria alleata rimaneva per lui la sconfitta della Germania, non di Hitler: una Germania occupata, non «liberata».

Adesso che quest’ultimo volume esce per la prima volta nel nostro Paese (l’editore è Guanda, pagg. 288, euro 20, la traduzione, come sempre esemplare, è di Alessandra Iadicicco), il trittico jüngeriano è finalmente disponibile nella sua interezza e si presta ad alcune considerazioni. La prima, in parte accennata, ha a che fare con quello che si potrebbe definire il «destino tedesco» del suo autore. «Che io stia dalla parte dei vinti è incontestabile. Non si può - né si vuole - rovistare nella propria patria. Fa parte del nostro destino, del compito che ci viene assegnato. In Spitteler, di cui sto leggendo Prometeo ed Epimeteo, ho trovato un passo interessante: “E nessuno che non sia scandalizzato della propria specie, ha l’aria di essere uno qualsiasi visto dall’altra parte”».

È questa consapevolezza, e questa assunzione di responsabilità, che gli permette di vedere i vincitori senza lo specchio deformante di chi, illudendosi di farne parte, li giustifica a prescindere, sempre e comunque incarnazione del Bene. «È in pieno svolgimento l’espulsione dei tedeschi dai Sudeti. Si sente parlare di stragi efferate. La notizia è arrivata dall’emittente di Londra, della quale negli ultimi anni ho più di una volta condiviso lo sdegno per gli orrori consumati dalla nostra parte. Che cosa pensare però del compiacimento che, con tutta evidenza, trapelava dalla comunicazione di queste nuove nefandezze? Mentre la voce di questi grassi consumatori di breakfast mi straziava il cuore, vedevo la miseria senza nome sulle strade di confine. L’umanità faziosa è più spregevole della barbarie». E ancora: «La tesi della colpa collettiva ha due diramazioni che corrono l’una accanto all’altra. Il vinto può dirsi: devo sopportare per mio fratello e la sua colpa. Per il vincitore essa costituisce il preliminare pratico prima del saccheggio indifferenziato. Passata quella soglia, può emergere un interrogativo pericoloso: il fratello aveva poi proprio così torto? Simili pensieri mi sono venuti in mente leggendo l’appello di un piromane assassino di nome Ehrenburg all’Armata rossa, nel quale si dice che non si dovrebbe risparmiare neanche il figlio nel ventre della madre, e si promette ai membri dell’Armata la donna tedesca come bottino». Infine: «Alle vittime degli anni scorsi, per quanto orribili possano essere le carceri in cui si sono spente, almeno si è pensato con compassione e affetto dall’altra parte del pianeta. Gli innumerevoli senza nome che oggi subiscono la stessa sorte non hanno nemmeno un difensore. Il loro rantolo mortale rimane in tremenda solitudine. E là dove, a dispetto di tutte le censure, la loro sofferenza trapela appena, ecco che suscita un diabolico sentimento di soddisfazione».

Vinto, Jünger lo era doppiamente. Era stato fra quelli che, all’indomani della Grande guerra, avevano intellettualmente seminato e arato il campo tedesco nel nome della riscossa sociale e nazionale contro il punitivo trattato di Versailles, contro l’imbelle e corrotta repubblica di Weimar. Solo che il raccolto l’aveva incamerato Hitler... «Il mio giudizio è passato da “quell’uomo ha ragione” a “quell’uomo è ridicolo” a “quell’uomo è inquietante”. Senza dubbio ne avevo sottovalutato il talento. La sua scatenante forza dinamica, il suo istinto per le formule, le semplificazioni, che assecondavano la tendenza dell’epoca delle masse e delle macchine, erano straordinari, specie se si pensa alla sua provenienza. In tal senso i suoi oppositori avevano parecchio da imparare da lui. Le preoccupazioni tradizionalistiche, estetiche, morali inducevano a sottovalutare il fenomeno, come pure il mero intelletto».

Non era stata solo sottovalutazione intellettuale. Il disincantato cantore delle «tempeste d’acciaio» della prima guerra mondiale, il teorico della «mobilitazione totale» e del «milite del lavoro», l’operaio-guerriero dell’età della tecnica, si era visto superato dal proprio tempo. «Osservando i reperti della Rivoluzione francese al musée Carnevalet, per esempio la ghigliottina fatta di ossa umane, si avverte sempre un certo brivido, come nel gabinetto degli orrori. Oggi ci sono atti che trattano l’omicidio come una faccenda amministrativa: gli schedari, le fotografie, i flash. Allora anche il male viene colto dallo svanimento, è reso meccanico e sminuito. I malvagi hanno perso la faccia, fisiognomicamente sono a un livello molto inferiore di un Danton, di un Robespierre, perfino di un Marat. Si vedono volti da funzionari, come quello di Himmler». È stato sì in grado di teorizzare «un potere assoluto», ma rimane spiazzato dal fatto che chi lo conquista «al tempo stesso e al di là di questo non crede di poter rinunciare alle risorse criminali e inizia a lavorare nel buio». Sa benissimo, con Eraclito, che «le lingue dei demagoghi sono affilate come coltelli squartatoi», ma al mondo come una gigantesca macelleria non era arrivato.

Il «destino tedesco» di Jünger sta anche nel ritenersi l’ultima risposta a una «tendenza mondiale orientata a sinistra, come una corrente del golfo, da 150 anni», una corrente rivoluzionaria universale in cui la destra è stata sempre in subordine e la Germania in fondo l’ultimo anello della catena a cedere. La «guerra civile mondiale» ha fatto il resto, e ciascuno, più o meno consciamente, sapeva che il vincitore non avrebbe fatto prigionieri. Da qui l’eccedere nella difesa come nell’offesa. Ma altresì significa «soffrire di un tempo che mi è estraneo, senza però pretendere il diritto di essere escluso da questo soffrire». È un’immagine che riprende da una lettera di Saint-Exupéry, scrittore francese e suo avversario in guerra. Non c’è contraddizione, e del resto una sera a colloquio con Picasso nella Parigi occupata si era sentito dire: «Noi due, qui seduti come stiamo, potremmo trattare e concludere la pace questo pomeriggio. La sera gli uomini potrebbero accendere le luci». L’idea di un’«amicizia cavalleresca» è sempre stata sua, così come la consapevolezza «di una legge secondo la quale debbono cadere proprio coloro che per nobili principi volevano raggiungere l’amicizia fra i popoli, mentre i volgari affaristi la fanno franca».

Nel chiuso del suo studio, Jünger difende «una patria spirituale, una residenza per lo spirito. La poesia domina l’universo in modo molto più profondo e durevole di qualsiasi sapere e di qualsiasi politica. I poeti donano i grandi rifugi, i veri alberghi. Ecco perché, laddove essi manchino, crescono deserti spaventosi». Lo soccorre l’idea che le nostre azioni possiedano una conclusione nell’assoluto, al di là della loro riuscita o del loro fallimento. Sono come frecce scoccate con l’arco della vita, ma, essendo tese anche dalla forza dell’amore, puntano a un proprio obiettivo nell’invisibile. C’è sempre un secondo destinatario cui sono indirizzate... «Un’offerta si è compiuta, anche se nessuno la leggerà. Perché intimamente è cosa fatta». È una fragile eppure potente consolazione, piccola-grande luce nell’insensato cammino della storia.

(di Stenio Solinas)

martedì 17 novembre 2009

La Corte Ue boccia la tassa Soru


La tassa sul lusso della Sardegna viola le norme comunitarie. E' quanto ha stabilito la Corte di giustizia europea del Lussemburgo. L’imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili e di imbarcazioni che grava sui soggetti aventi domicilio fiscale al di fuori della regione, spiegano i giudici nella sentenza emessa oggi, è in contrasto con il principio della libera prestazione dei servizi e costituisce un aiuto di stato. La legge era stata introdotta nel 2006 dalla giunta regionale guidata da Renato Soru, ma era stata successivamente cancellata con la Finanziaria 2009.
La Corte europea precisa che, anche se l’imposta sugli aeromobili non riguarda le prestazioni di trasporto, ciò "non implica che essa sia priva di qualsiasi nesso con la libera prestazione dei servizi". Infatti, sebbene, in via di principio, la nozione di "servizi", rilevano i giudici, si applichi soltanto a quelli che sono resi dietro remunerazione, essa include anche la libertà dei destinatari dei servizi di recarsi nello Stato membro nel quale si trova il prestatore per beneficiarvi di una pluralità di servizi (quali quelli forniti negli aerodromi e nei porti). In questo senso lo scalo, che è interessato dall’imposta, costituisce quindi "un presupposto necessario per la fruizione dei servizi diversi da quello reso senza remunerazione".
La Corte considera quindi che "la disparità di trattamento tra residenti e non residenti costituisce una restrizione alla libera circolazione poichè non vi è alcuna obiettiva diversità di situazione che possa giustificare la disparità di trattamento fra le varie categorie di contribuenti". Secondo la Corte, inoltre, "è pacifico" che l’imposta riguarda gli scambi tra gli Stati membri e che essa "può falsare la concorrenza", poiché attribuisce "un vantaggio economico agli operatori stabiliti in Sardegna". Inoltre, la legge tributaria regionale che accorda a talune imprese il non assoggettamento all’imposta costituisce, sottolinea ancora la Corte, "una rinuncia della Regione al gettito fiscale che essa avrebbe potuto di regola riscuotere".
L’imposta conferisce un "vantaggio tributario di natura selettiva alle sole imprese stabilite sul territorio regionale rispetto a quelle che non vi hanno il domicilio fiscale, fermo restando che queste due categorie di imprese si trovano in una situazione fattuale e giuridica paragonabile al momento in cui esse fruiscono dei servizi di scalo in Sardegna".