sabato 16 gennaio 2010

Noi grande popolo in un piccolo Stato


Italiani si nasce ma si può morire, anche da vivi. Ci sono italiani che hanno smesso di esserlo vita natural durante e italiani che continuano ad esserlo nonostante lo neghino. Italiani si nasce ma si può anche diventare. Ci sono italiani elettivi, per scelta e non per diritto di voto, che meritano la cittadinanza e la definizione. L’identità attiene alle origini e alle radici ma non è un fossile; l’identità mobile, che muta nella continuità e si trasmette, si chiama tradizione.
L’italianità è sì un fattore naturale ma anche culturale; la biologia conta quanto la storia, la geografia e il pensiero. Gli italiani non sono una razza, diceva Flaiano, ma una collezione. Penso che l’identità nazionale in generale, e quella italiana in modo particolare, non siano capricci della storia ormai superati dal tempo. Penso anzi, che perduto il patriottismo in armi e sacri confini, con la relativa identificazione dello Stato con la Nazione, le identità dei popoli siano diventate culturali, civili, caratteriali. Più liquide e fluttuanti ma più essenziali, come l’acqua, il sangue, lo sperma e la saliva. E non solo: nell’epoca della globalizzazione e dell’uniformità avere un’identità culturale di popolo è una ricchezza, un bene da preservare. Torno a dire che se le nazioni hanno una personalità, l’italianità è una delle personalità più spiccate al mondo. La nostra è un’identità culturale forte ed un’appartenenza istituzionale debole: siamo una grande nazione ed un piccolo stato, anzi una superpotenza mondiale quanto a beni culturali, artistici e storici ma anche civili, creativi, gastronomici e un modesto Paese quanto ad apparato tecnologico, militare ed economico. Grande personalità, medio-piccola statura.
La storia dell’italianità è assai più lunga e prestigiosa della storia dello Stato unitario. Otto secoli di lingua, una civiltà fortemente connotata dall’essere sede della romanità e poi del cattolicesimo, una nazione disegnata dalla geografia perché circondata dal mare e da un arco alpino; una nazione culturale fiorente da secoli. Prima di Cavour, dei Savoia e di Garibaldi, l’Italia fu fatta da Dante, Petrarca e Machiavelli. La lingua, la letteratura e l’intelligenza fondarono l’Italia prima delle armi, dei regni e degli ordinamenti.
Il sale della sua identità è la diversità, è un Paese non grande ma ricco di varietà, non solo tra sud e nord, ma tra provincia e città, tra entroterra e costa, tra versante orientale e versante occidentale. La sua unificazione politica e statuale fu tardiva e discutibile, con tante zone d’ombra coperte dalla retorica e dall’omertà, e con ragioni e passioni rispettabili che militavano dalla parte opposta; ma l’unificazione fu un atto giusto e necessario che merita di essere celebrato. L’italianità è un carattere, un marchio in cui si sintetizzano le virtù e i vizi del Paese; è un Paese poco organizzato, solitamente mal guidato dalle sue scarse classi dirigenti, allergico alle responsabilità personali e al riconoscimento dei meriti, incline alle mafie e alle consorterie, dominato dalla furbizia, con un senso cinico che sovrasta il senso civico. Un Paese che fugge nell’individualismo quando deve assumersi responsabilità di popolo, e si rifugia nel collettivismo o nell’ammuina quando deve assumersi responsabilità personali. Un Paese difficile da amministrare, proibitivo da governare. Ma allo stato sfuso e liquido, quando si giudica la qualità della sua vita e le sue creazioni, quel che chiamo «Madre in Italy» - sintesi di ingegno, intraprendenza, mammismo e familismo - l’italianità resta un’impronta di vitalità straordinaria che non merita di essere soffocata.
Scoprendo la forza e il fascino dell’italianità, ovvero la sicurezza della propria identità, è possibile anche integrare gli stranieri, da un verso accogliendo la loro identità e dall’altro favorendo la loro integrazione. Ma perché questo avvenga è necessario che ci sia un’identità forte, sentita e larga. A questo Paese è mancata una religione civile, ovvero un senso comune fondato sulla propria tradizione civile e religiosa, sulla propria storia e sul valore delle esperienze tramandate; il sentire religioso ha sempre fatto a pugni con la lealtà istituzionale. È mancata la sobria fierezza di essere italiani, preferendo sbandare tra l’autodenigrazione e l’autoesaltazione, ora perdendo in sobrietà ora in fierezza. La religione civile è il fondamento del sentire comune, e dunque del senso dello Stato e della comunità.
Il centralismo dello Stato unitario italiano, a mio parere, fu una necessità. Anche se innaturale agli italiani e importato dal modello napoleonico francese, servì a compattare un Paese sparso e svogliato, dette un’ossatura istituzionale all’Italia e consentì quella modernizzazione, alfabetizzazione e quella crescita lungo il corso di cent’anni e più. Smise di funzionare quando scoppiò la febbre del ’68 che in Italia fu cronica e dissolutiva; quando la partitocrazia perse gli ultimi argini civili e morali, quando la demagogia dei sindacati e la follia delle Regioni distrusse il residuo spirito pubblico del Paese.
Oggi i nemici d’Italia non sono gli immigrati, che costituiscono a volte un problema a volte una risorsa, ma che non sono i nemici d’Italia più di quanto non lo sia la riduzione del Paese a periferia pacchiana della globalizzazione, colonia della peggiore americanizzazione. I veri nemici d’Italia sono gli italiani stessi, l’idea di un Paese spompato e sfiduciato, degradato e involgarito, che non fa più figli e ha paura di tutto, a cominciare dall’ombra di se stesso. Un Paese egoista e sfamigliato, schiavo come pochi della dipendenza tecnologica, da auto, telefonino, video, e comodità, atrofizzato nelle sue funzioni vitali dalla tecnologia e dai farmaci, allergico a pensare e a cercare. Un Paese vecchio e stanco, leggermente putrefatto, i cui abitanti preferiscono sentirsi contemporanei più che connazionali.
A costo di passare per platonico dirò una mezza eresia: l’italianità esiste, gli italiani un po’ meno. Il disegno civile e culturale che dovrebbe animare questo Paese e risvegliare le sue energie, è quello di far combaciare l’italianità con i suoi legittimi e spesso ignari portatori. Via, un po’ d’amor patrio, che è poi l’amor proprio di una comunità, il volersi bene nella storia, nell’anima e nel corpo di una comunità nazionale.

(di Marcello Veneziani)

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