giovedì 22 luglio 2010

Borsellino, un'altra autobomba era pronta a uccidere il giudice


Ecco le verità che stanno affiorando dopo diciotto anni di «depistaggi colossali», per dirla con le parole del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari nel giorno delle audizioni palermitane all’Antimafia guidata da Beppe Pisanu. E sono verità che fanno male a tutti, ai magistrati che hanno fatto le indagini, che hanno giudicato gli imputati, che hanno condannato all’ergastolo degli innocenti.

Agli apparati di sicurezza, alle forze di polizia che non sono state in grado di coltivare le piste giuste. Ai livelli politico-istituzionali che hanno fatto finta di non sapere quello che stava accadendo.

Quando Sergio Lari, gli aggiunti Bertone e Gozzo, il pm Nicolò Marino hanno raccontato l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio (l’audizione è stata segretata), i commissari dell’Antimafia sono rimasti sconvolti, increduli. Come è possibile che per tanti anni nessuno si sia mai accorto della fine che aveva fatto il motore della 126 imbottita di esplosivo? Come se facesse parte di una strategia raffinata, quella di alimentare misteri che tali poi non erano. Chissà dove è finito il motore? Chi l’ha fatto sparire? C’è lo zampino dei servizi, non è farina del sacco di Totò Riina...

Dubbi, domande, sospetti che si sono inseguiti per 18 anni. Bene, quel motore non è mai sparito da via D’Amelio per il semplice fatto che è rimasto accanto ai resti della macchina e dei corpi maciullati delle vittime.

Secondo mistero: da dove e chi ha premuto il pulsante del telecomando dell’autobomba? Sono 18 anni che se ne parla. Si è favoleggiato sullo splendido castello che sovrasta Palermo e che si trova sul Monte Pellegrino: il Castello Utveggio, dove aveva una sede distaccata l’allora Sisde, oggi Aisi, il servizio segreto civile. E’ stato il cavallo di battaglia del consulente Gioacchino Genchi. Anche questo da oggi non è più un mistero. La postazione da dove è stato premuto il pulsante è all’ultimo piano di un edificio con tre scale che si trova in linea d’aria a centocinquanta metri da via D’Amelio, il palazzo dei Graviano, i costruttori prestanome dei Madonia, la famiglia mafiosa a cui appartiene come mandamento via D’Amelio.

Ma soprattutto i commissari di Palazzo San Macuto hanno avuto un sussulto quando i magistrati di Caltanissetta hanno raccontato uno scenario incredibile, e che sarà materia di approfondimenti investigativi: Cosa Nostra aveva attivato una seconda squadra operativa in grado di intervenire in via Cilea, dove abitava Paolo Borsellino (lo ha raccontato il pentito Antonino Galliano). Insomma, quel maledetto giorno due autobombe erano pronte a esplodere: una sotto casa del magistrato, l’altra sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino. Solo a riassumere questi tre misteri si comprende subito quanto sia stata «anomala» la strage Borsellino, quanto lontana dal cliché dei Corleonesi.

Al di là di Gaspare Spatuzza - e poi delle ritrattazioni dei tre vecchi pentiti Candura, Scarantino e Andriotta - e delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e della sua copiosa documentazione, le novità di Caltanissetta arrivano tutte dal lavoro tecnico sulle prove, sulla documentazione raccolta all’epoca, e lasciata inspiegabilmente nel dimenticatoio.

La polizia scientifica centrale ha ricostruito la scena del crimine. L’ha suddivisa in cinque parti, l’ha resa vera con un collage, un puzzle composto da migliaia di fotografie, di frammenti di video, anche quelli amatoriali. E quante sorprese hanno lasciato stupefatti persino gli uomini della Scientifica. La prima scoperta è stata il motore. Era lì, non hanno dubbi, l’hanno scritto nella loro perizia gli uomini della Scientifica. Chi c’era in quella postazione del palazzo dei Graviano? E come si è arrivati all’individuazione del palazzo? Probabilmente il Giovanni Brusca di via D’Amelio potrebbe essere Fifetto Cannella o lo stesso Giuseppe Graviano. E’ una ipotesi, ancora tutta da riscontrare, ma che siano loro gli inquirenti di Caltanissetta non hanno molti dubbi.

Le foto, i filmati mostrano addirittura le cicche di sigaretta a terra, sul pavimento dell’attico del palazzo Graviano. Si vede anche un vetro, probabilmente un riparo per chi doveva premere il pulsante. Ricordate Capaci? Ben presto fu individuato il casolare a metà strada tra Isola delle Femmine e Capaci da dove Giovanni Brusca premette il pulsante dell’esplosivo che fece saltare Giovanni Falcone, la moglie, la sua scorta. Quelle cicche di sigarette, il Dna, le indagini che andarono in porto.

Perché per via D’Amelio non è stato fatto lo stesso. Si scopre solo adesso che a poche ore dalla strage arrivò una segnalazione anonima. Una signora molto arzilla disse al telefono: «Ho visto del movimento all’ultimo piano del palazzo Graviano. Guardate che i Graviano sono dei prestanome dei Madonia...».

E poi il sospetto che quel giorno fossero pronte due squadre operative di Cosa nostra, una che si appostò in via Cilea, dove abitava Paolo Borsellino. L’altra in via D’Amelio. Da chi era composta la squadra di via Cilea? Che fine ha fatto la seconda auto imbottita di tritolo? Chi doveva premere il pulsante dell’innesco?

Domande alle quali i magistrati di Caltanissetta stanno cercando di dare risposte. Colpisce la considerazione di Gaspare Spatuzza che quando riconosce in Lorenzo Narracci (funzionario dei servizi segreti) l’uomo presente nel garage dove si stava imbottendo di esplosivo la 126 che doveva servire per la strage di via D’Amelio, commenta: «E’ l’unico attentato con l’esplosivo che abbiamo gestito noi che va in porto».

E già, i Graviano, la famiglia di Brancaccio. E gli attentati non riusciti, come quello di via Fauro (doveva saltare in aria Maurizio Costanzo), o l’autobomba dell’Olimpico, che alla fine del gennaio del 1994 doveva fare una ecatombe di carabinieri.

Le indagini sulle stragi palermitane hanno ancora bisogno di tempo per arrivare a una conclusione. In autunno dovrebbe avviarsi il meccanismo per la revisione dei processi che hanno condannato all’ergastolo degli innocenti. Stiamo parlando degli esecutori materiali della strage.

E poi c’è il capitolo «doloroso» dei depistaggi, delle calunnie. Sono coinvolti alcuni poliziotti che condussero le indagini: Vincenzo Ricciardi, Mario Bo, Salvatore La Barbera. Se fosse ancora vivo sicuramente sarebbe indagato anche Arnaldo La Barbera che guidò quel gruppo di investigatori.

E l’ultimo capitolo da approfondire è quello della trattativa, del coinvolgimento di pezzi delle istituzioni. All’Antimafia, gli inquirenti di Caltanissetta hanno ribadito quello che era già noto, con le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Borsellino viene ucciso anche per la trattativa che era stata avviata dal Ros dei carabinieri di Mario Mori e Beppe De Donno. Perché due giorni dopo la strage, con i funerali di Paolo Borsellino ancora da celebrare, l’allora colonnello Mario Mori va subito a Palazzo Chigi per rivelare a Fernanda Contri, capo di gabinetto del presidente del Consiglio Giuliano Amato, che aveva intavolato un certo discorso con Vito Ciancimino?

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