venerdì 18 febbraio 2011

Sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra


“Ho l’impressione che il “popolo di piazza Tahrir” se lo stia prendendo in tasca. Dalla rivolta egiziana che, pagando il tributo di un centinaio di morti, ha cacciato il dittatore Mubarak, non è uscito qualcuno che l’abbia capeggiata, come fu Lech Walesa nel 1988 in Polonia, o un oppositore del regime di lungo corso come lo scrittore Havel in Cecoslovacchia, ma dal cappello a cilindro è saltato fuori il coniglio delle Forze armate. Una rivoluzione popolare si è trasformata in un golpe militare. Ora, in questi trent’anni, l’esercito è stato il principale sostegno di Mubarak e lo ha abbandonato solo all’ultimo momento quando glielo hanno ordinato i suoi padroni americani. Dagli Stati Uniti il pletorico esercito egiziano (460 mila uomini) riceve 3 miliardi di dollari l’anno e i suoi generali non godono solo di un’infinità di privilegi, ma sono i veri padroni dell’economia del Paese. Il fedelmaresciallo Tantawi, che sembra essere “l’uomo forte” della Giunta militare, anche se la situazione ai vertici del potere è ancora molto confusa e si chiarirà solo col passar delle settimane, era chiamato “il barboncino di Mubarak” e nei giorni convulsi della rivolta ha telefonato cinque volte a Robert Gates, il capo del Pentagono, per sapere come doveva comportarsi. Insomma il popolo egiziano ci ha messo la sua rabbia, la sua energia, il suo sangue ma questo grande, generoso, sforzo ha finito per essere pilotato dagli Stati Uniti ad uso dei loro interessi. Che sono che l’Egitto rimanga il loro principale alleato non occidentale nella regione in funzione pro-israeliana e anti-iraniana.

Il popolo egiziano è riuscito a liberarsi di un odioso dittatore, fino a ieri vezzeggiato e onorato dalle democrazie occidentali (e ha un significato, sia pur piccolo, che mister Berlusconi quando voleva tirar fuori dai guai se stesso e Ruby, interrogata dalla polizia, l’abbia spacciata per una “nipote di Mubarak”) che, come ogni dittatore, aveva instaurato uno Stato di polizia. Ma gli sarà molto più difficile liberarsi del “burattinaio” che tira i fili della politica del Cairo. E finché l’Egitto rimarrà sotto la pesante e pelosa tutela americana non sarà mai uno Stato libero né veramente libera la sua gente.

Le rivolte in Egitto, nel Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco), in Albania, nello Yemen sono certamente rivolte per la libertà contro dittatori patentati o mascherati in salsa democratica (è il caso di Berisha, molto simile a quello italiano) o monarchi assoluti, ma sono anche “rivolte per il pane” cui ha fatto da propellente una situazione economica divenuta, per una buona parte della popolazione, insostenibile (sarei molto più cauto sulle manifestazioni anti-regime in Iran perché sono anni che gli Stati Uniti, che difendono tutti i dittatori, anche i più criminali, quando gli fa gioco, da Batista a Pinochet al patinato e infame Scià di Persia per arrivare a Mubarak, soffiano sul fuoco per scalzare gli ayatollah, facendo finta di dimenticare che la teocrazia non è la democrazia, ma non è nemmeno il potere concentrato, a vita, nelle mani di un solo uomo). E in quei Paesi la situazione economica è precipitata o sta precipitando a causa della globalizzazione che è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra Stati che passa sul massacro delle popolazioni del Terzo mondo, innanzitutto sui Paesi più deboli, e comincia a intaccare anche il nostro mondo, di noi europei costretti, quasi da un giorno all’altro, a buttare alle ortiche il welfare dalla peggiore, perché anonima, perché inafferrabile, di tutte le dittature: la dittatura del mercato. È esperienza di decenni che il capitalismo, industriale e finanziario, crea sperequazioni fortissime fra Paese e Paese e all’interno di ogni Paese. L’esempio più evidente ci viene dagli Stati Uniti, il Paese più ricco, più potente del mondo, che ha potuto ritagliarsi formidabili rendite di posizione dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, dove vivono 33 milioni di poveri che sono tali non secondo gli standard americani, ma poveri e basta, anzi miserabili, homeless, clochard, barboni. O dalla Russia dove, oltre a ricchezze stratosferiche, la popolazione è ridotta incondizionitali che le oneste povertà dell’era sovietica appaiono fasti di un tempo felice (e le belle ragazze russe, laureate in biologia, in economia, in sociologia, che vengono a prostituirsi qui da noi ne sono una conferma). Eppure sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra. In un Wto del 1998 il presidente americano Bill Clinton ha detto: “La globalizzazione è un fatto e non una scelta politica”. E, in quello stesso Wto, Fidel Castro, di rincalzo: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Il che è vero se noi al centro del sistema mettiamo l’economia, come dopo la Rivoluzione industriale hanno fatto sia i liberisti che i marxisti (tutto il resto è “sovrastruttura”). Ma sarebbe vero anche se noi al centro del sistema mettessimo uno spillo. Tutto dovrebbe ruotare intorno ad esso. Io mi chiedo e chiedo da un quarto di secolo (La Ragione aveva Torto?, 1985) se questa focalizzazione sull’economia abbia un senso.

Un senso umano, dico. Se al posto della competizione non debba essere messa la “cooperazione” com’era nei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo (la Fiat, si strilli o meno, finirà per collocare le sue risorse in altri Paesi, giustamente se la logica è quella della globalizzazione e della competizione). Io credo che sia venuto il momento, se vogliamo, tutti, popoli del Primo e del Terzo mondo, salvare la ghirba, di una Controrivoluzione industriale che riporti l’uomo al centro di se stesso e releghi economia e tecnologia al ruolo marginale che hanno sempre avuto. Finché l’uomo ha avuto la testa.”

(di Massimo Fini)

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