giovedì 5 maggio 2011

Gentile chi? Storia vera di un filosofo dimenticato


Non c’è solo ignoranza, intolleranza, stupidità e livore in quelle mani ignote (firmate solo “Antifà”, cioè “antifascista”) che il 25 aprile, sui muri di Firenze, hanno rinnovato verbalmente l’assassinio di Giovanni Gentile avvenuto 67 anni prima nella stessa città. Non c’è solo ottusità burocratica, faziosità e limitatezza d’orizzonti in quei politici piccoli piccoli che, sempre a Firenze, hanno risposto picche all’iniziativa di Franco Cardini – che per il filosofo chiedeva una via – e sono giunti persino a teorizzarne il disseppellimento. C’è qualcosa di più e forse di peggio che fa da incerto basamento a tutto questo. C’è l’oblio inflitto come una condanna a quello che senza dubbio alcuno è il più grande filosofo italiano del Novecento. Ci sono 67 anni di colpevole dimenticanza.

Intendiamoci: a Gentile è pur sempre dedicata una fondazione omonima, presso l’università La Sapienza di Roma. Il filosofo di Castelvetrano rimane nei programmi scolastici liceali, dove sia pur distrattamente e di malavoglia continua a essere studiato. E la casa editrice Le Lettere continua la meritoria diffusione delle opere complete del grande pensatore. Ma affermare che Gentile sia stato centrale nel dibattito filosofico italiano da molti anni a questa parte è dire una palese falsità. Tanto in libreria quanto nei programmi universitari, infatti, la scena sembra dominata dagli abissi della filosofia tedesca (Nietzsche e Heidegger su tutti) e dai rizomi del pensiero francese (Lyotard, Deleuze, Derrida, Foucault, cioè i glossatori parigini di Nietzsche e Heidegger). E anche nei territori del pensiero lasciati liberi da queste due scuole, Gentile è stato una presenza rara, sfuggente e incompresa. Il motivo? Una delle possibili risposte è facile facile: il filosofo fascista non era gradito in un panorama culturale egemonizzato da tutt’altre influenze politico-culturali. Scontato, ma vero. Del resto non c’è solo questo.

Alle ragioni dell’oblio si deve infatti aggiungere una sorta di reazione, anche e soprattutto nel linguaggio, al dominio dell’impostazione idealistica che tramite lo stesso Gentile e Croce aveva dominato la prima metà del Novecento filosofico italiano. E peccato che le intuizioni di Emanuele Severino sulla fondamentale parentela di Nietzsche e Gentile siano cadute nel vuoto (o quasi, se si eccettua il bel libro di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato, Bompiani). Terzo: il filosofo di Genesi e struttura della società è difficile e sistematico, forse troppo per un’era che vuole la filosofia “pop” e predilige il frammento al sistema. Quarto: l’immancabile scomunica ex auctoritate, stavolta proveniente addirittura dal papa laico della cultura italiana, quel Norberto Bobbio che a proposito di Gentile aveva parlato di «oscure tautologie» e di «delirio filosofico». La recentissima uscita di Gentile, di Davide Spanio (Carocci, pp. 266, € 17,50) potrebbe in questo senso segnare l’inizio di una necessaria renaissance, anche se forse è ancora presto per dirlo. Perché il lavoro da fare è lungo e le incrostazioni da togliere sono molte. E se accade questo, va detto, una sua parte di colpa ce l’ha anche la destra. Dove, parliamoci chiaro, il filosofo attualista è stato citato per lo più a mo’ di figurina, di santino, spesso unicamente in relazione a una riforma scolastica più citata che compresa e alla sua tragica morte. Per il resto, al disinteresse dei più (che non leggevano Gentile perché non leggevano e basta) si alternava l’aperta ostilità di una certa destra culturale di matrice evoliana.

Il barone, infatti, Gentile proprio non lo poteva soffrire. Intendiamoci: nel suo periodo filosofico, Evola aveva sviluppato proprio un pensiero di matrice idealista, seppur non strettamente gentiliano. Fino al 1934, comunque, l’autore di Rivolta contro il mondo moderno aveva espresso un suo pensiero articolato rispetto a Gentile, non senza mancare di difenderlo da accuse triviali e non all’altezza della sua statura intellettuale. Poi, però, Evola maturerà un distacco piuttosto radicale. Un celebre articolo comparso su Ordine nuovo nell’estate del 1955 si intitolava, papale papale: “Gentile non è il nostro filosofo”. E ne Gli uomini e le rovine, pur salvando l’uomo, Evola condannava senza appello la filosofia gentiliana definiendola «bolsa, presuntuosa e confusa». Se poi pensiamo che anche il più brillante dei discepoli evoliani, Adriano Romualdi, finiva per definire l’attualismo «una patina di hegelismo sul nazionalismo della “Italia proletaria”» (Il fascismo come fenomeno europeo, Settimo sigillo), capiamo al volo le ragioni dell’oblio. C’era Armando Plebe, certo, a tener vivo un certo filone gentiliano nel Msi. Ma era uno di quei casi in cui il nome dello sponsor finiva per far più danno che altro al “marchio” sponsorizzato. Ce n’era abbastanza, insomma, affinché anche la destra mettesse in soffitta Gentile e tutti i gentiliani. Al netto dei personalismi, l’equivoco nasceva da un fraintendimento: il fondatore dell’attualismo, si diceva, era un liberale. E da quelle parti non è che fosse proprio un complimento.
Liberale, in effetti, Gentile lo si era dichiarato, ma parlando di un liberalismo tutto suo. Il senso del fascismo, diceva, è di far raggiungere all’uomo la libertà. Ma poiché lo stato va concepito come qualcosa che è in interiore homine, il massimo dello stato finiva per coincidere con il massimo della libertà, senza opposizioni possibili fra i due momenti. Non si era liberi se non nella comunità etica. Eccolo, il “liberalismo” gentiliano. Non è esattamente Locke.

Non aveva torto, allora, Augusto Del Noce nel considerarlo il vero “fondatore” – almeno in sede teorica – del fascismo, con riferimento alla sua geniale e seminale opera su La filosofia di Marx (1899), che tanto piacque pure a Lenin. Insieme ai due suoi discepoli più originali e indipendenti, Ugo Spirito e Camillo Pellizzi, si fece anzi portatore di una sorta di filosofia della rivoluzione permanente. Nazionalista, sì, ma in quanto la nazione “è sempre da fare”, in un processo continuo di educazione e tensione etica inesausta. Anche per questo, nonostante un’ampia coalizione di fascisti antigentiliani, Mussolini terrà sempre in gran conto la personalità del filosofo, cui scriveva per “recensire” i suoi libri (nel 1931 loderà in una lettera il saggio su La filosofia dell’arte) e a cui affiderà il compito di scrivere La dottrina del fascismo, alla quale poi egli stesso aggiungerà una seconda parte di taglio storico. Sembra strano, oggi, pensare a un capo di stato in carica che dialoga privatamente e pubblicamente con un filosofo, eppure è accaduto anche questo. Successivamente i politici, e non solo loro, dei filosofi hanno preferito fregarsene. Di Gentile in particolare. A Firenze, tuttavia, qualcuno ha pensato bene di dedicare un largo a Bruno Fanciullacci, cioè all’uomo che il 15 aprile 1944 aveva colpito a tradimento il pensatore che, senza scorta, girava tranquillamente per la città. Sentendosi chiamare per nome e vedendo dei ragazzi con i libri sotto braccio, il filosofo aveva fatto fermare la macchina e aveva abbassato il finestrino, permettendo così al nucleo gappista di aprire il fuoco. Aveva appena finito il suo ultimo libro, Genesi e struttura della società, scritto nel 1943 e pubblicato postumo, nel 1946. Il paragrafo finale si intitolava “La morte”. L’avrebbe infine abbracciata, quella morte. Più che con coraggio guerriero, con serenità contemplativa. Quella serenità che oggi manca a chi vuole persino disseppellire i cadaveri.

(di Adriano Scianca)

Nessun commento:

Posta un commento