martedì 3 maggio 2011

Mio padre missino, ucciso dalle Br, dimenticato da tutti



Il cognome Giralucci dice poco o niente agli italiani, perfino a chi ha l’età per ricordare i famigerati anni di piombo. Eppure è legato a una data storica, in qualche modo di svolta, perché Graziano Giralucci è – con Giuseppe Mazzola, che morì insieme a lui – il primo morto ammazzato dalle Brigate Rosse. Con quel duplice omicidio – era il 17 giugno 1974, a Padova – le Br fecero il loro macabro «salto di qualità», passando dalle bottiglie incendiarie e i sequestri dimostrativi all’eliminazione fisica dei nemici. Il motivo per cui i nomi di Giralucci e Mazzola sono rimasti a lungo sepolti dall’oblio è molto semplice: i due erano militanti del Msi, quindi due fascisti, e a quei tempi uccidere i fascisti non era un reato. In più, secondo il costume dell’epoca, per diverso tempo si cercò di sostenere che Giralucci e Mazzola erano stati ammazzati non da estremisti da sinistra ma da fascisti, insomma che era stato un regolamento di conti. Anche i grandi inviati di tanti giornali «borghesi» avanzarono l’ipotesi della faida tra fascisti, come avevano già e avrebbero poi fatto – sempre sbagliando – anche per il rogo di Primavalle, per l’assassinio di Mikis Mantakas e perfino per quello di Sergio Ramelli. In quegli anni gran parte della stampa e della politica non voleva ammettere che accanto al terrorismo nero ne stava nascendo pure uno rosso. Ma il duplice omicidio di Giralucci e Mazzola era proprio opera delle Br, che infatti lo rivendicarono: e anni dopo (molti anni dopo) sono stati condannati sia i killer sia i mandanti morali, cioè i capi storici Curcio, Moretti e Franceschini.

Ora la figlia di Graziano Giralucci – Silvia, che ha 40 anni, fa la giornalista e la regista, è sposata e ha due figli – ha scritto un libro per ricordare e soprattutto per cercare di capire. S’intitola L’inferno sono gli altri ed esce oggi per Mondadori (pp. 192, e 17,50).

Silvia Giralucci non nasconde l’amarezza per le discriminazioni subite dopo l’omicidio del padre. Parla dell’«indifferenza che per tanti anni ha circondato il nostro lutto». Ricorda lo sbigottimento che provò quando seppe che Susanna Ronconi, una degli assassini di suo padre, fu nominata consulente del ministro Paolo Ferrero, nel secondo governo Prodi: «Ho sofferto molto in quel periodo… Mi faceva male che un esponente del governo usasse la Ronconi… per rimuovere uno scomodo passato di contiguità tra Br e intellettuali di sinistra… Mi faceva male constatare che l’assassina di mio padre non si sentisse in dovere di evitare i riflettori». C’è, in queste pagine, tutto il tema del drammatico isolamento vissuto dai familiari delle vittime del terrorismo. Silvia Giralucci sottolinea «la stranezza di un Paese dove chi ha testimoniato diventa un delatore mentre chi ha le spalle una storia “forte” di assassino proprio in virtù di quel passato “eroico” può accedere a posti di rilievo».

E poi, ancora, la triste sorpresa nel sapere che il Presidente Cossiga propone la grazia per Renato Curcio quando ancora non è finito il processo per l’omicidio di suo padre. E tanti ricordi amari di giorni e di incontri apparentemente banali: «Mi è capitato diverse volte di arrabbiarmi quando mi sono sentita dire da persone che scoprivano, dal cognome, di chi sono la figlia: “Conoscevo tuo padre, era un bravo ragazzo. Era di destra, ma non meritava quella fine”. Mi indignava quel “ma”. Mio padre non meritava quella fine e basta. Non la merita nessuno». Ci sono voluti trent’anni prima che il Comune di Padova mettesse una targa per ricordare il duplice omicidio di Giralucci e Mazzola. Una targa rimasta per dieci anni appesa a un palo «perché i condomini del palazzo dove papà e Mazzola erano stati uccisi rifiutavano di mettere a disposizione il muro».

Ma nonostante questi doverosi ricordi, il libro di Silvia Giralucci è tutt’altro che rancoroso. Anzi. La figlia del missino ammazzato prende le distanze da tante manifestazioni commemorative (e strumentali) di teste rasate e croci celtiche; e tenta di capire quel che successe in quegli anni. La sua città, Padova, è un microcosmo perfetto per ricordare la follia. È a Padova che nasce lo stragismo neonazista di Franco Freda e dei suoi sodali di Ordine Nuovo. È ancora a Padova che un giovane e coraggioso magistrato, Pietro Calogero, per primo indirizza le indagini su piazza Fontana verso le complicità tra estrema destra e servizi segreti. Ed è sempre a Padova, anni dopo, che nascerà quell’Autonomia Operaia alimentata e fomentata dal professor Toni Negri. Sarà lo stesso Calogero a ordinare il famoso blitz del 7 aprile 1979 contro Negri e i suoi discepoli. Per questo verrà bollato come fascista: proprio lui.

Silvia Giralucci ricostruisce la Padova di allora - con le sue notti dei fuochi e le sue violenze quotidiane - incontrando molti dei protagonisti: Calogero appunto, e poi il docente universitario Guido Petter e la ragazza che gli si sedette sulla cattedra durante una delle tante intimidazioni del «movimento» contro «i baroni»; e ancora il giornalista Pino Nicotri, arrestato per errore perché la sua voce fu scambiata per quella del telefonista del sequestro Moro; e quindi un ex estremista che oggi è uno dei tanti piccoli imprenditori del Nord-Est che girano Bmw...

La figlia del missino ammazzato racconta tutto senza odio e senza voler giudicare. Anche perché certe pazzie si giudicano da sole, come emerge dallo stupidario offerto da alcuni ex «rivoluzionari» intervistati nel libro. «Di quegli anni ho un ricordo bellissimo. Un’intensità e una passione che non ho mai più avuto nel resto della vita… Era violenza? Direi che era ironia, non violenza»; «Era un clima gioioso»; «Il concetto di legalità è sempre molto relativo»; «Dimostrazioni di potenza, adrenalina pura. È stato il periodo più entusiasmante della mia vita. Noi volevamo rendere questa società migliore». Sono solo alcune delle idiozie usate dai «reduci» che parlano nel libro, e che hanno se non altro il merito di non farci rimpiangere il passato, cosa così rara di questi tempi.

(fonte: www.lastampa.it di Michele Brambilla)

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